Abbiamo lasciato il nostro santo intellettuale a Betlemme, nel 386, intento – su un vago mandato di papa Damaso, che però era ormai scomparso – alla traduzione in latino della Bibbia ebraica, laddove esisteva ormai da sei secoli la Bibbia greca, tradotta da savi anziani di Sion. A chi esprimeva dubbi sull’utilità dell’impresa, l’intellettuale poteva replicare che il rabbinato della sua epoca, nel cosiddetto “concilio di Jamnia”, aveva rigettato la Settanta come eretica e contaminata da idee elleniche (per esempio Logos, Sophia…), dopo averla accettata come divinamente ispirata per un paio di secoli. Gerolamo adottò lo stesso punto di vista: ispirata da Dio era la Bibbia ebraica, non quella greca.
La sua fu una lotta titanica su molti fronti: verso la critica, contro cui scrisse numerose epistole per difendere le sue traduzioni “iuxta Haebraeos”, – ormai era lui l’indiscusso esperto e non ne tollerava altri – e con il testo (presunto) originale ebraico. Da una parte, confessò, la rozzezza del livello letterario specie dei profeti, faceva accapponare la pelle ad un latinista ciceroniano qual era. Dall’altra si trovò, lui che si diceva “perfettamente trilingue” in latino, greco ed ebraico, a lottare con le parti dell’Antico Testamento scritte in aramaico.
Ora, l’aramaico è – era già ai suoi tempi – una lingua morta. Come si faccia a tradurre da una lingua morta senza disporre di vocabolari, grammatiche, né la conoscena del resto della letteratura in quella lingua, non so. So che Gerolamo non si scoraggiò. Si mise nelle mani dei rabbini, che dicevano di conoscere la lingua, e che potete immaginare come erano contenti di aiutare un cristiano a sviscerare i segreti del loro sacro testo. Ma li pagava, con gli ultimi soldi di Paula, la sua seguace ideologica.
Lui stesso ha raccontato come, per tradurre dall’aramaico il libro di Tobia, assunse un ebreo che sapeva ebraico ed aramaico, ovviamente da lui giudicato espertissimo (Utriusque linguae peritissimum loquacem) che gli traduceva ad alta voce dall’aramaico all’ebraico, mentre lui, Gerolamo, non meno peritissimus – traduceva simultaneamente dall’ebraico al latino; tutto ad orecchio. E in una sola giornata aveva finito: un metodo e un exploit di cui si vantò per lettera con giusto orgoglio. E guai a chi esprimeva un dubbio sulla sua capacità di traduttore istantaneo dall’ebraico: lui era Vir trilinguis.
Purtroppo, una precedente cantonata aveva gettato una malaugurata ombra sulla sua abilità. E non riguardava nemmeno l’ebraico, ma il greco: il greco dei Vangeli. E addirittura la più santa e nota preghiera in essa contenuta: il Padre Nostro. La storia va raccontata.
Già nel 382, Gerolamo s’era accollato la missione di correggere la versione latina del Nuovo Testamento, sulla base del testo greco. Il greco di cui Gerolamo era espertissimo (inutile dirlo); ma i Vangeli erano scritti nel greco in uso 400 anni prima. In parte una lingua morta anch’essa. Sicchè al momento di tradurre la petizione “..dacci ogi il nostro pane quotidiano”, si scopre che per “quotidiano” c’è – sia in Matteo sia in Luca – la parola greca “epioùsion”. Dovete sapere che è una parola che non appare in nessun altro testo della pur sterminata letteratura greca. E’ quel che i grecisti chiamano un “hapàx legòmenon” (che vuol dire: riportato una volta sola), e il cui significato resta incerto, perché non può essere comparato dentro altri contesti. Eppure il fatto che questa parola altamente insolita appaia in entrambi i Vangeli, suggerisce che Cristo deve aver detto proprio quella (o il suo equivalente ebraico). Come la prima Chiesa abbia sempre inteso che la parola significa “quotidiano”, quel che basta per la giornata, è facile capire: è la Tradizione vivente che ha trasferito fino a noi il significato, era così che avevano inteso i discepoli testimoni oculari, e questo significato tramandavano.
Ma Gerolamo aveva di meglio che la tradizione: la sua capacità di traduzione. Così tradusse letteralmente l’hapax legomenon e rese: supersubstantialem. Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie…Molto più bello e spirituale. Così nel Matteo 6, 11, impose la sua versione e la difese a spada tratta. Vero è che dopo qualche tempo, nel “correggere” Luca (11,3) Gerolamo ritorna, in sordina, al “panem cotidianum”. Nel che si inclina a vedere un intervento dello Spirito a favore di tal diletto figlio.
Nel corpo a corpo con la Bibbia aramaica, tuttavia, per fortuna il Vir Trilinguis mantenne sott’occhio i Settanta in greco e vi continuò ad appoggiarsi, travasando nelle sue traduzioni del presunto originale giudaico, parte delleintuizioni e ricchezze filosofiche della prima. Fece anche strane scoperte: tipicamente, la versione greca del libro di Ester presenta sei vaste aggiunte, assenti dal testo ebraico. Ester è la prima favorita (moglie) dell’imperatore Assuero (identificato congetturalmente con il persiano Serse). Il primo ministro di assuero, Aman, induce il sovrano ad emanare un editto per lo sterminio di tutti i sudditi ebrei. Ester complotta con il cugino Mardocheo per salvare il suo popolo minacciato, parla con il re nell’alcova, lo convince: ma siccome l’ordine del sovrano (di uccidere tutti gli ebrei del regno) non può essere cancellato, Ester gliene fa’ emanare un altro che consente ai giudei di sterminare preventivamente tutti coloro che potrebbero alzare la mano contro di loro. Aman e i suoi dieci figli vengono impiccatì. “Per i giudei v’era luce e letizia…i giudei dunque colpirono tutti i nemici passandoli a fil di spada, uccidendoli e sterminandoli; e fecero de nemici quello che vollero”. Non bastava: “Ester disse al re: sia concesso agli ebrei di comportarsi allo stesso modo anche domani”, e fu un altro giorno di eccidio. Con una gran festa, che deve essere ripetuta ogni anno: “I giorni di Purim non devono cessare mai di essere celebrati fra i giudei e il loro ricordo non dovrà mai cancellarsi fra i discendenti”.
E’ insomma il mito della istituzione del Purim, allegra festa della vendemmia e dell’ubriachezza come ve ne sono sempre state fra le popolazioni mediterranee. Ma la fantasia ebraica l’ha trasformata in una storia di delirante vendetta contro un nemico immaginario (nulla del genere avvenne davvero sotto alcun imperatore di Persia, per fortuna) e in un tripudio nell’orgia di sangue. Ancor oggi gli ebrei dicono che a Purim ci si deve ubriacare “fino a cono sapere più chi è Aman e chi Mardocheo” – il che è per sè un interessante tratto psicanalitico.
Il racconto dovette parere imbarazzante anche i Settanta, i sapienti ebraici che tradussero in greco, esponendo con ciò il testo al giudizio di popoli civilizzati. Sicchè vi aggiunsero ampi inserti per “rendere il libro teologicamente più accettabile” e “colmarne le carenze religiose” (Francesco Bianchi, biblista): soprattutto con l’accorgimento di far pregare l’eroina e il cugino, di far elevare piamente loro suppliche a Dio (del tutto assente dal testo ebraico).
San Gerolamo, non sapendo che fare di quelle aggiunte imbastite col filo bianco, le collocò come una specie di appendice in fondo alla sua versione latina, esterne al racconto. Un po’ come farebbe un meccanico a cui, quando ricompone un motore, “avanzano” delle viti e dei bulloni.
Un’altra fortuna fu che Gerolamo s’innamorò, e praticò, nella sua traduzione del testo ebraico e nel suoi prolifici commenti ad esso, le sottigliezze allegorico-mistiche di Filone l’Ebreo. Questo personaggio, nato una trentina d’anni prima di Cristo (forse il 25 a. C.), fu il tipico ebreo colto di Alessandria a tal punto imbevuto – anzi inzuppato – di filosofia greca, da interpretare la Bibbia secondo categorie del neoplatonico dell’epoca, che era ormai avviato a diventare un esoterismo sapienziale, e infine anche una forma di idealismo magico. Come esempio (la faccio breve) dirò come Filone interpreta il racconto dell’Esodo (16,15) sugli ebrei che ricevettero il dono della manna per nutrirsi nel deserto: “Quando gli israeliti ebbero cercato ciò che nutriva l’anima (…) scoprirono che era la Parola di Dio, il Logos divino: tutte le forme di istruzione della saggezza ne zampillano (…). In realtà, è la Sophia eterea che Dio distilla dall’alto sugli spiriti dotati ed amici della contemplazione” . Leggere nella Bibbia l’azione del Logos e di Sophia (in greco nel testo!) è un notevole sforzo di elevazione dalla crudezza del racconto ebraico. Si capisce bene che questa lettura “esoterica” i cristiani l’abbiano trovata gravida dell’attesa di Gesù, il Verbo, il Logos incarnato del proemio del vangelo di Giovanni: “In principio era il Logos, il Logos era presso Dio, il Logos era Dio”, ecco un enunciato che Filone Ebreo avrebbe sottoscritto.
Ciò aiutò Gerolamo a non cadere del tutto nelle derive rabbiniche. Anche se la sua traduzione latina “grattava” le orecchie dei contemporanei per i semitismi, le forzature delle terminologie latine ad arcaismi ebraici, i giri di frase “etnici” a cui il popolo cristiano non voleva abituarsi. Sant’Agostino racconta che quando il vescovo di Tripoli autorizzò la lettura in chiesa della nuova traduzione di Gerolamo, scoppiarono disordini di strada: il popolino voleva la vecchia Bibbia, quella che era la traduzuone latina dei Settanta.
Sant’Agostino era contrario
Agostino stesso fu contrario alla versione di Girolamo, fra l’altro adducendo l’argomento di buon senso: che essa avrebbe creato una frattura fra la Chiesa d’Occidente e i cristiani d’Oriente, che restavano fedeli ai Settanta in greco. Giudizi severi non sono mancati nemmeno nei tempi recenti: secondo il domenicano Dominique Barthélemy, grande biblista francese di questo secolo, l’opera di Gerolamo è stata “d’aver rimpiazzato l’Antico Testamento con la Bibbia dei rabbini”.
Che dire? Gerolamo sostenne di aver sempre tradotto “frase per frase”, senso per senso, anziché parola per parola. E a chi glielo rimproverava, faceva notare l’approssimazione con cui i passaggi dell’Antico Testamento sono citati nel Nuovo. E’ una notazione che accolgo di tutto cuore. E’ verissimo: quando Gesù e gli evangelisti citano “la Legge, Mosè e i profeti”, lo fanno ad orecchio, come è logico per gente che non è di professione filologa, non ha il testo sottomano e lo ricorda per come l’ha sentito recitare in sinagoga. Un esempio molto evidente è nell’evangelista Matteo. Quando parla delle trenta monete d’argento che Giuda gettò nel tempio, e che i sacerdoti non misero nel tesoro perché “prezzo di sangue”, onde comprarono il Campo del Vasaio per la sepoltura degli stranieri, dice:
“Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: e presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che così fu prezzati dai figli d’Israele, e lo diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”.
In realtà, Matteo attribuisce sbagliando a Geremia una enigmatica, impressionante frase che si trova in Zaccaria, uno dei profeti minori: “Poi dissi loro: se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no lasciate stare. Mi pesarono trenta sicli d’argento. Ma il Signore mi disse: “ Porta al fonditore questa grandiosa somma con cui sono stato da loro valutato!” (Zc 11,13). Qui si sente un Altro che parla con la voce del minor profeta.
Mi sembra che l’annotazione di Gerolamo, sull’approssimazione con cui gli evangelisti citano la Bibbia, vada approvata e forse, adottata anche da noi comuni cristiani. Anche a noi giova venerare l’Antica Legge da una certa distanza, senza mettere troppo a fuoco i particolari, cogliendone il senso generale, nella nobile vaghezza della memoria auditiva. Alla fede fa’ certo bene.