Mentre ripercorro nel libro di Gianantonio Valli “Giudeobolscevismo” i crimini e le atrocità inenarrabili del comunismo – in gran parte fatti a me noti – mi sorprendo a ripensare alla inutilità della mia vita di giornalista-intellettuale anticomunista. Per quanti decenni io ho (con altri, migliori di me) combattuto il comunismo diffondendo informazioni sui suoi delitti? Almeno tre. Per trenta o quarant’anni abbiamo lottato, in eletta minoranza, contro la filosofia – ideologia – marxleninista, ne abbiamo mostrato la fallacia, l’abbiamo combattuta sul piano delle idee del pensiero; abbiamo dibattuto, pubblicato libri, articoli: tutto inutile.
Inutile. I comunisti italiani – un buon 30% della popolazione votava PCI e un altro 10% i partiti più a sinistra, più totalitari – restavano ermeticamente chiusi nella loro fede, inconcussi, refrattari ai nostri argomenti, idee, informazioni che provavano il fallimento del sistema che ardevano di portare anche in Italia. Più impressionanti erano gli intellettuali: all’80 per cento almeno simpatizzanti per il totalitarismo rosso. Esaltavano Fidel, sventolavano il Libretto Rosso di Mao. Occupavano cattedre universitarie, giornali, tv, case editrici; l’ intero “mondo della cultura” era in mano loro; l’orribile Piccolo Teatro di Strehler era il luogo dove la potente Cgil precettava lavoratori pagando il biglietto perché “le masse” potessero abbeverarsi al verbo brechtiano (e salvassero Strehler dalle poltrone vuote).
Giornalisti, intellettuali, attori e professori usavano continuamente e con sciolta competenza la terminologia e le categorie marxiste, adottavano pienamente ed esclusivamente il materialismo storico come mezzo d’interpretazione del mondo. Nelle università celebri (allora) docenti sfondavano noi studenti con esegesi infinite de Il Capitale, dei Grundrisse, di “Che Fare?” di Vladmir Ulianov Lenin, come nel Medio Evo ci si applicava all’esegesi del Vangelo o di Aristotile: Ipse Dixit. Credo che i giovani oggi, diciamo i trentenni, non possano nemmeno immaginare come dominasse e trionfasse, nella cultura italiana, il pensiero unico comunista.
E come noi, la minoranza intellettualmente antagonista, venisse censurata, derisa, aggredita – anche fisicamente – ed esclusa dai centri di diffusione della cultura, Occupavano tutto lo spazio. Nemmeno l’uscita di Arcipelago GuLag di Solgenitsyn – la piena, documentata e non smentibile rivelazione dell’universo concentrazionario sovietico – li scosse; si rifiutavano di leggere “quel reazionario, quel cristiano fascista” – allo stesso modo in cui l’Aristotelico canzonato da Galileo si rifiutava di guardare nel cannocchiale. Nei salotti, gli intellettuali “à la page” si vantavano di non averlo letto. Il sistema culturale riuscì persino a ritardarne la pubblicazione in Italia di qualche anno, se ben ricordo.
Monolitico, inattaccabile, ci appariva ed era il Comunismo. E di colpo, un giorno è scomparso.
Puf! Sparito. Volatilizzato.
Da Stalin a Rockefeller – via Bronfman
E ovviamente, non perché i suoi adepti siano stati convinti dalle nostre idee e toccati dalle nostre battaglie filosofiche. No, noi non possiamo affatto vantarci di aver vinto il comunismo coi nostri articoli e informazioni documentate. Non abbiamo convertito nemmeno uno di loro. Che cosa è stato, allora? Ovviamente, il collasso del sistema sovietico. Ma questo non basta a spiegare la rapidità e spigliatezza con cui intere legioni di politici, scrittori, teatranti, cinematografari e ideologi hanno dismesso l’habitus marxista e tutto il bagaglio di convinzioni e studi su cui avevano centrato la vita, il loro prestigio e costruito la loro carriera, per trenta o quarant’anni. Voglio dire: il crollo del comunismo sovietico è stato una immane tragedia (come ha ben detto Putin); ma appunto per questo, uno si sarebbe aspettato, da parte di quelli, un minimo di elaborazione del lutto, segni di smarrimento e di dolore; dopotutto, fra loro c’erano molti che a suo tempo avevano pianto per la morte di Stalin.
Ma quale lutto. Ricordo ancora con ammirato stupore la disinvolta velocità con cui Achille Occhetto, capo dell’allora più grosso partito comunista d’Occidente, si recò in visita dal miliardario ‘canadese’ Edgar Bronfman capo del Congresso Ebraico mondiale, per fare sdoganare sé e il PCI presso i poteri del capitalismo globale. Bronfman, che oltre che padrone della Seagram (Whisky) era anche insignito dal regime della Germania Est della massima onorificenza comunista, la Stella dell’amicizia dei Popoli, aveva già reso lo stesso servizio a Gorbaciov; poche ore dopo l’incontro col miliardario ebreo – maggio 1989 – Occhetto si incontrò (cito da Repubblica) “con David Rockefeller”, fu intervistato dai “ due maggiori quotidiani Usa: il Washingon Post e il New York Times”, rese omaggio “al cimitero di Harlington, dove riposano i fratelli Kennedy, e al monumento ai caduti del Vietnam”, e poi fu impegnato in “una fitta serie di colloqui con esponenti del Congresso” Usa. Tenne anche “conferenze pubbliche al Carnegie Endowment for Peace di Washington, e al Council on Foreign Relations”. Penso sia inutile precisare che in quel fruttuoso viaggio, Occhetto fu accompagnato da un solo altro esponente del comunismo: Giorgio Napolitano. Ne uscì, lui e il partito, candeggiato e legittimato a prendere il potere in Italia al posto della DC: ovviamente dopo libere elezioni. Aiutato, è vero, dalla valorosa magistratura che, con geometrica sincronicità, gli spazzò via i partiti potenzialmente concorrenti, la DC di Andreotti e Forlani e il Psi di Craxi con la leggendaria operazione “Mani Pulite”.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/05/16/la-missione-di-occhetto.html
Fu il più acrobatico e ammirevole salto sul carro del vincitore cui abbia assistito nella mia vita. Abbandonata la classe operaia alla grandine della globalizzazione e alla concorrenza dei salari cinesi messicani, romeni – la deindustrializzazione, il massacro salariale del ‘proletariato’ – , il PCI si dedicò a difendere “minoranze oppresse” più comode: i finocchi, e i parassiti pubblici, anzitutto. Ma il punto veramente stupefacente fu il nuovo atteggiamento dei dirigenti e della “cultura di sinistra” al completo: il comunismo e la sua storia di sangue e di gloria, non li riguardava più. I suoi delitti, i milioni di morti – crimini che i dirigenti PCI e i suoi intellettuali organici avevano giustificato, anzi rivendicato come necessari passi della “dittatura del proletariato” nell’avanzata verso la “società senza classi” in mezzo secolo di dibattiti e scontri dialettici (e fisici) con noi anticomunisti – non avevano più niente a che fare con loro. Da allora, a nessuno di essi è mai capitato di usare il linguaggio marxiano: ed è gente che per anni ha frequentato la “scuola di formazione politica alle Frattocchie”, dove di quel linguaggio, e di quella filosofia si veniva imbevuti. Erano diventati un foglio bianco. A me è capitato di citare Marx, di difendere la sua critica al capitalismo globale (una pars destruens veramente profetica); a loro, mai. D’Alema bombardava l’antico compagno Milosevic con la NATO, e si comprava lo yacht da regate da un paio di miliardi di lire, come se mai avesse letto la sardonica frase di Karl sul “modo di esistenza che crea la coscienza” (traduco: chi vive da ricco, pensa e giudica da ricco e difende il sistema sociale anche più ingiusto, perché lo sente naturale e meritevole). E Walter Veltroni? “Mai stato comunista”, disse. Ed era iscritto al Pci dall’età di 14 anni. Credeva d’essersi iscritto ad una bocciofila.
Mai le idee hanno avuto un ruolo
Insisto, per i lettori più giovani: mai in questa metamorfosi è stata questione di “idee”. Di revisione di idee sbagliate, di riconoscimento di idee vere e giuste. Mai. Le idee sono semplicemente state abbandonate, come si abbandona un vestito fuori moda. Come i pantaloni a zampa d’elefante, il marxismo-leninismo “non si portava più”.
Il fenomeno, più che nei politici, fu sbalorditivo negli intellettuali, quelli che vivevano di idee, e di “quelle” idee – o almeno così credevamo noi. Fu chiarissimo che quelle idee le avevano sostenute finché aiutavano alla carriera. Peggio: noi anticomunisti dovemmo constatare che gli avversari intellettuali avevano seguito, massicciamente, “la moda”. Per anni ed anni, essere comunisti o compagni di strada, è stato di moda. Era “attuale” e moderno, faceva stile essere rosso. Era “la tendenza del momento” per cui si veniva invitati nelle tv, a scrivere opinioni sui grandi giornali, nei salotti buoni, negli ambienti che contano, e nelle direzioni mediatiche potenti. Di colpo, con sicuro istinto, gli intellettuali di sinistra sentirono che il marxismo non “non è più in voga”; e mai si son fatti cogliere, da allora, a portare una cosa così vecchio stile, così poco fine, come il “socialismo reale”; quello “sovietico” poi, figurarsi.
S’intende che sono rimasti di moda, adottando le mode sociali della sinistra “attuale”: non più quella totalitaria (su cui avevano giurato, e che volevano imporre al Paese), ma quella libertaria. Radical-chic. Sessantottina. Edonista. Paolo Mieli, allora direttore del Corriere, indicò la strada:con articoli che proclamavano “il ritorno al Privato”. Prima, era stato di moda il contrario: “Il Privato è politico”, “Tutto è politica”, la ”rivoluzione sociale, il collettivismo” richiedevano il sacrificio di ogni intimità. Adesso, contrordine compagni: tornate al privato. Agli amori, agli ed alle amanti dei vari sessi, alle regate, alle cene sulle terrazze romane immortalate da Ettore Scola, alle vacanze intelligenti fra “noi che siamo à la page”. I Vip Non aspettavano altro, gli intellettuali rossi.
S’intende che noi anticomunisti, non siamo divenuti di moda. Mai. Eravamo fuori moda quando denunciavamo che i milioni di morti erano prodotti di un sistema politico-ideologico radicalmente sbagliato, che aveva idee errate sull’uomo e la natura; siamo rimasti fuori moda anche dopo che il crollo del socialismo sovietico e quello maoista dava ragione alle nostre idee. Siamo rimasti la minoranza “noiosa”, passatista, “reazionaria” e peggio “clerico-fascista” di prima. Da questi insulti era chiaro il vero motivo per cui non ci invitavano nelle terrazze romane immortalate da Scola: ai loro occhi, vestivamo gli abiti di una moda passata da un secolo, forse da secoli. I secoli di quel passato in cui ciò che importavano, erano i concetti di “vero” e di “falso”, non di “attuale e inattuale”.
Non che, personalmente, me ne lamenti. Essere eternamente “inattuale” e fuori moda è il destino che ho scelto, perché per me è insopportabile “vivere nella menzogna” (come diceva Solgenitsyn). So che in questo sono in migliore compagnia di quella che si spartisce i posti nei salotti e nelle terrazze, e mi rallegro dei pochi amici e di qualche lettore che condivide la stessa passione.
Però l’esperienza di una vita mi ha insegnato – tardi – il mio, il nostro errore: ci siamo battuti per le idee, illudendoci che queste fossero gli strumenti per influire sulle convinzioni collettive. Dovevamo invece cercare di influenzare “le mode” e “le credenze”.
Abbiamo fatto appello all’intelligenza, alla ragione: si poteva essere più scemi? Ci ha ingannato l’antica definizione di Aristotile: l’uomo è un animale pensante. Che esista vita intelligente sulla Terra, è una illusione difficile da vincere, perché ci auto-celebra. Come disse Mark Twain dopo aver letto il proprio necrologio sui giornali, “la notizia è grandemente esagerata”.
In genere, l’uomo – inteso come specie – non pensa affatto. A meno che non ci venga forzato. Considera ‘pensiero’ quello funzionale, utile al lavoro, meccanico; non a caso simulabile da un computer. Le idee generali gli sono estranee, capirle gli richiede troppo studio, applicazione – una perdita di tempo. La sua incapacità di vedere i nessi causali fra fenomeni apparentemente distanti è impressionante; in specie, delle piaghe sociali presenti gli sfuggono le cause che sono nel passato. Anzi, come scoprì a sue spese già Socrate, chi gli pone “le grandi domande” lo irrita, tanto da voler chiamare la forza pubblica perché faccia tacere il disturbatore con la cicuta; oggi, invocando la psico-polizia.
La faccio breve: l’uomo in genere, vive di credenze. Oggi come nel sesto secolo avanti Cristo, o come ai tempi di Tommaso d’Aquino. Ricordo la distinzione di Ortega y Gasset: “Per le idee ci si batte, si discute per affermarle, magari si puo’ perfino morire per le idee – nelle credenze, semplicemente, si sta”. Vuol dire: nelle credenze, l’uomo ci abita. Sono il paesaggio mentale che trova attorno a sé dalla nascita, e in ogni dato tempo gli paiono la realtà stessa. Non si rende conto di quanto siano cambiate dai tempi di Socrate; gli sembra che siano sempre esistite quelle di oggi. E quelle d’oggi gli paiono indiscutibili, solide come l’acciaio. O come le montagne del suo paese natìo.
Meglio la repressione…
Come dicevo, oggi l’uomo posto moderno vive di credenze esattamente come l’uomo medievale. Solo, le sue credenze sono cambiate: oggi, per esempio, crede nell’evoluzionismo, come ieri credeva in Dio, e prima ancora negli dèi dell’Olimpo. Crede nella scienza (di cui non sa quasi nulla) con fede superstiziosa. Crede al “pluralismo delle opinioni”, anche se non ne ha che di quale permesse dal conformismo vigente. Sicché, oggi devo ammettere: fece bene la Chiesa, che per secoli, invece di fare appello all’intelligenza dell’uomo, gli ha imposto sì, anche imposto con le brutte, se occorreva – le credenze. Ha fatto bene perché doveva salvare l’uomo dalla dannazione eterna;e quanti più uomini possibile; non c’era spazio per il dubbio, il dubbio che è “sempre” implicito nel dibattito delle idee, e che l’uomo-massa non sa tollerare e maneggiare, anzi non sopporta, da cui viene devastato.
Dominavano allora credenze che miravano al bene dell’individuo e della società, imponendo l’onestà, i dieci comandamenti, il diritto romano, la cura del debole e del povero e la vergogna per l’egoismo edonista. Credenze per le quali valeva la pena di mantenerle ed imporle esercitando anche la giusta “repressione”, anche accendendo qualche rogo ogni tanto. Le credenze che si fanno dominare oggi, sono al contrario rovinose per l’individuo e la società: il darwinismo, il capitalismo come sistema “oggettivo” al quale “non ci sono alternative”, il libertarismo, l’illusione della felicità nel sesso. Non solo queste credenze procurano la dannazione eterna (a cui potete permettervi di non credere), ma fanno degli esseri umani delle amebe vili e crudeli, insensibili al prossimo e al povero, e delle società delle poltiglie incapaci di sopravvivere e di battersi contro la propria dissoluzione.
Il contrario della “libertà di pensiero”, ci viene oggi insegnato, è il “principio di autorità”: basare le proprie convinzioni sull’autorità di Aristotile, San Tommaso o Cristo, è oscurantismo e dogmatismo. E lo dicono folle ed intellettuali “progressisti” che fanno continuamente appello a principio di autorità. E su quali ”autorità” confidano! Certe “autorità” che, se le masse avessero ancora un istinto di conservazione, ne starebbero bene alla larga. Enzo Veronesi per la cancerologia, Draghi per la politica monetaria, Mario Monti per l’economia. Tributano il massimo rispetto per Eugenio Scalfari, per Saviano, per il residente Obama; credono all’autorità di Umberto Eco. Alla Bonino e Pannella. Gli operatori di Borsa fidano nell’autorità al Fondo Monetario, al Financial Times, al Wall Street Journal. L’autorità della NATO, e dell’UE, strappano genuflessioni alla gran massa dei cittadini: non si discute, “ce lo chiede l’Europa!” (per poi scoprire che i nostri governanti hanno firmato trattati come quello di Dublino senza prevedere che ci avrebbe incastrato con un milione di profughi sul territorio, e l’adesione alla moneta unica ci avrebbe asservito a Berlino: cosa non del tutto imprevedibile, se si sanno collegare cause ed effetti). Sempre più intellettuali laicisti esaltano addirittura l’autorità di Papa Bergoglio, pensate a che punti si son ridotti.
Da quando hanno dismesso la dogmatica bolscevica, gli intellettuali progressisti hanno adottato il nuovo insieme di dogmi annesso al capitalismo terminale, che riduce la democrazia al mercato e il cittadino al consumatore-standard; il politicamente corretto è ovviamene l’indizio più forte del sistema di censura che rivela il totalitarismo – anche nel socialismo reale vigeva la proibizione di chiamare le cose col loro nome, e c’era “il divieto di far domande”.
Il sistema di credenze dell’uomo antico, e di quello cristiano, avevano un rigore e una logica; quello dell’uomo post-moderno è sgangherato. Specialmente quello dell’uomo italiano, che ha sempre usato pochissimo le facoltà intellettuali; adesso che crede di essersi “liberato dall’Autorità”, e anche dagli obblighi “culturali” che gli imponeva il Partito – come visione ripetuta e precettata della Corazzata Potiomkin del giudeo bolscevico Eisenstein nei cineforum comandati, vive come in una vacanza mentale perpetua – agevolata dalla scomparsa del lavoro industriale, che obbligava le masse senza testa a rigore di atti, coordinamenti, orari, apprendimenti, in una parola disciplina e dignità. Parte integrale della nuova dogmatica – delle nuove credenze – è la “emancipazione” dalle credenze antiche, che si devono vivere non tanto come false, quanto “superate”, fuori moda. Si dà il caso che per duemila anni, le credenze dell’italiano lo abbiano indotto a produrre arte, bellezza artigianale, cattedrali romaniche, musica, pittura – tutte attorno al tema centrale, quello della chiesa e del palazzo (umanistico). Oggi, le sue credenze lo rendono sterile e afasico, privo di parola e di espressione. E’ o non è un indizio preoccupante?
Ma inutile lottare con lui, cercare di far appello alla sua intelligenza. Lo so per lunga fallimentare esperienza. Se potessi tornare indietro, punterei sulle mode, su come crearle e influenzarle. Perché le “credenze”, quelle in cui si sta, sono ovviamente, all’inizio delle mode, così si impongono. Come sono, come siamo stati sciocchi.