Sono diciotto mesi che la BCE “crea denaro”, e niente: né rilancio dell’economia, né crescita del credito, né l’auspicato aumento dell’inflazione, che in questa fase è necessario perché l’inflazione è come il lubrificante nel motore. Diciotto mesi di interessi negativi sui depositi, acquisto a manetta di titoli di debito pubblico e privato, rifinanziamento a lungo termine di banche, e la ripresa economica non c’è. O, diciamo, è timida, ineguale (l’Italia resta a zero), insufficiente e imperfetta.
Oggi il denaro costa straordinariamente poco, ossia conviene indebitarsi. Rispetto a marzo 2014 – ossia a prima che venisse lanciato il quantitative easing (QE) di Draghi – il tasso d’interesse per indebitarsi è passato dal 3% all’1,92, un taglio del 36%; per le imprese è stato un taglio ancor più favorevole, del 37,8%; anche se, bisogna subito aggiungere, in modo molto diseguale nei 18 paesi dell’eurozona, dove la riduzione del costo del denaro ai privati va dal 3,5% al 47 per cento, e quella alle imprese dal 9, 8 al 54%.
Ma col denaro così conveniente, chi ha voglia di indebitarsi, e per fare cosa? Nell’eurozona, calcola l’economista Romaric Godin, il monte dei crediti alle famiglie è cresciuto nel periodo indicato di 150 miliardi, ma quello alle imprese – ahi ahi – è calato di 130 miliardi di euro. Segno sinistro: le banche hanno aumentato il credito al consumo o per gli immobili, ma il credito alle imprese, essenziale per sperare nel rilancio, invece è caduto.
L’Italia, sulla carta, è uno dei grandi beneficiari dell’allentamento di Draghi. Qui, il tasso chiesto dalle banche alle imprese è quasi dimezzato (sceso del 46,55%) rispetto al 2014; è il calo del costo del denaro più notevole, dopo la Slovenia. Il tasso chiesto ai privati è sceso da noi del 41,4 per cento.
Da noi il credito continua a contrarsi
In teoria, gli italiani, famiglie e aziende, dovrebbero correre a indebitarsi. Invece l’espansione del credito non s’è vista. La BCE è riuscita solo a rallentare la contrazione del credito in Italia: da -4,6 per cento annuo di calo del credito alle imprese, siamo a – 0,2 di calo nel luglio 2016. Ma è sempre calo, siamo sempre in territorio negativo, non c’è il segno più. E lo stesso accade in Spagna, dove il crollo tremendo del credito è stato contenuto (da -10,3% a -0,8%), ma non rovesciato.
Ovviamente c’entra il fatto che le banche italiane, mal gestite e ingombre di crediti andati a male, non ardono dal desiderio di trasferire il calo dei tassi d’interesse all’economia reale, alle imprese che – oggi – sono in crisi profonda per l’inefficienza del settore pubblico, la tassazione esosa, l’euro forte, la scarsa produttività. Le imprese nemmeno hanno gran desiderio di indebitarsi. Intanto, sono in numero inferiore di prima della crisi – che ha ridotto l’apparato produttivo nazionale del 25% – e poi, la crisi favorisce l’autofinanziamento di quelle rimaste, che domandano meno prestiti. Per i prestiti alle famiglie italiane, l’allentamento della BCE ha fatto sì che in Italia passasse dal negativo (1,1% nel marzo 2014) a positivo, +1,5%; ma restiamo ad un livello inferiore alla media della zona euro (+1,8%).
In Spagna il credito ai privati è resta ancor più decisamente in territorio negativo (-1,6 a luglio) anche se rallentato rispetto a marzo 2014 (-4,8); in Portogallo è peggio ancora, il credito a imprese e famiglie non fa’ che scendere, QE o non QE.
Qui per vedere, nell’interessante mappa interattiva, come ha funzionato il QE:
Ma allora chi profitta davvero del costo del denaro così a buon prezzo? Chi si indebita quasi gratis approfittando della creazione di moneta della BCE? Indovinato: Germania e Francia.
“In Germania la crescita dei crediti ai privati ha assunto un ritmo mai visto da dodici anni”, riferisce Romaric Godin: se nel marzo del 2014 saliva di 1,2 % l’anno, oggi è salito al 2,9. Il doppio. I tedeschi hanno aumentato con entusiasmo il proprio indebitamento per il consumo (+4,2%), ma anche per i mutui-casa: +3,8, il che rappresenta un settore molto più grande. Infatti se il cumulo dei crediti al consumo tedeschi fra il 2014 e il luglio 2015 è salito a 5,5 miliardi di euro, lo stock dei mutui immobiliari è pari 13° miliardi. Al punto che c’è chi teme la nascita di una bolla immobiliare prodotta dal denaro facile della BCE. Timori forse eccessivi, dato che la produzione edilizia in Germania, fra il 2014 ed oggi, è addirittura calata: -4,5%. Insomma di fronte a una domanda in espansione, sia per il credito facile sia per ragioni interne – bassi prezzi immobiliari, basso tasso di proprietà, redditi in aumento – la Germania non costruisce, costruisce sempre meno. C’è qualcosa di mostruoso in questo; forse perché le case non sono esportabili, e l’industria germanica è assatanicamente nell’accumulare profitti dall’export?
Anche i francesi hanno approfittato del credito facile, perfino più dei tedeschi. “Nonostante tale crescita del credito”, dice Godin, “la Francia mostra una crescita erratica e poco dinamica. In Italia è ancor più esile. Per contro la Spagna conosce una crescita alquanto più forte senza espansione del credito [effetto del buon governo del settore pubblico, commento io]. Quanto alla Germania, profitta del QE ma la sua crescita è appena più elevata del resto della zona euro. Dovunque l’inflazione soggiacente resta senza dinamismo”, ossia non si esce dall’inflazione.
Fallimento del denaro facile creato dalla BCE, almeno per gli esseri umani, specie quelli del Sud. Come sempre, questa politica “aiuta” chi non ne ha bisogno e abbandona gli altri.
Ma questo per quanto riguarda famiglie e imprese, ossia l’economia reale. Perché il discorso non sarebbe completo se si tacesse il nome di chi veramente si ingolla e tripudia grazie al denaro a costo-zero. I supermanager delle multinazionali, specie le finanziarie, che si finanziano a basso costo per lanciarsi nel riacquisto di azioni proprie – il che aumenta artificialmente il loro “valore” a Wall Street – in fusioni e acquisizioni che eliminano competitori e fanno aumentare i bonus di detti supermanager; o per”investire” in cose come Facebook, Tweet e Uber.
Già, prendiamo Uber, l’applicazione che consente ai borghesi disoccupati di sfruttare come taxi le loro auto private, facendo concorrenza ai taxisti. La grande speculazione se ne strappa di mano le azioni, che sono salite tanto, da attribuire alla “ditta” Uber il valore di 60 miliardi di dollari! Eppure Uber faceva, nel 2015, 663 milioni di giro d’affari, e aveva accumulato un miliardo di perdite. Eppure ha chiesto ed ottenuto a giugno, per finanziare quella che chiama “la nostra forte crescita”, 3,5 miliardi di dollari … indovinate da chi? Dal fondo sovrano dei re sauditi, convinti di aver fatto un bell’investimento. Ma non sono i soli: un mese dopo, la Uber ha raccolto sui “mercati” altri 1 ,15 miliardi. Certo, ad un tasso del 5% – una pacchia comunque, finché dura, per i suoi finanziatori speculativi, che si sono procurati quei fondi a tasso zero dalle banche centrali.
Questo è il gioco: i grandi si finanziano presso BCE e FED a costo zero, e poi “investono” in follie inutili e disonestà varie. Per esempio, le grandi aziende di assicurazione in Europa hanno consacrato il 50% dei loro profitti a dividendi, distribuiti ai loro azionisti. Altre – da Apple a IBM a Walmart, che magari contemporaneamente licenziano i dipendenti – hanno dedicato il denaro preso in prestito a tassi così favorevoli all’acquisto di azioni proprie: per 500 miliardi di dollari. Exxon da sola ne ha “investito” 200 miliardi in questo “investimento” sterile e disonesto, al punto che persino l’Economist, la bibbia del liberismo, s’è allarmata di questa perversione del capitalismo terminale.
Beninteso, per l’Economist non è tutto un male: “Quando le multinazionali ricomprano le loro azioni sul mercato, esse restituiscono il denaro di troppo agli azionisti, in modo analogo ai dividendi”. Naturalmente c’è un altro modo di spiegare la cosa: le multinazionali comprano le loro azioni perché non sanno come meglio investire i soldi che si accaparrano a tasso zero. Non hanno idee imprenditoriali, non hanno idea alcuna tranne i profitti immediati loro. Frattanto il numero dei miliardari non è mai stato così alto (1826 che possiedono 7 mila miliardi, secondo Forbes) e le loro ricchezze aumentano del 10 per cento l’anno, laddove per il resto dell’umanità occidentale i redditi e il potere d’acquisto non fanno che calare. Infatti non a caso anche il cosiddetto”mercato dell’arte” è alle stelle: i cialtroni miliardari, senza idee (né gusto), comprano croste “moderne” strappandosele nelle aste.
Il nuovo krack è imminente
Detto fra noi, costo dell’arte, aumento stellare di fusioni e acquisizioni, arricchimento delle multinazionali in un mondo in deflazione e depressione economica, sono tutti indizi tradizionali del krack prossimo venturo.
Infatti tutti gli operatori speculativi, o almeno i più sperimentati, annunciano l’imminente nuovo collasso, che sarà peggio di quello del 2007-8 da cui la BCE non ci ha fatto uscire. “E’ tempo di abbandonare la pista da ballo”, ha scritto ai suoi clienti Ted Rivelle, gestore del fondo d’investimento TCW, che amministra 195 miliardi di dollari. “E’ il momento più infido per noi investitori professionali. Abbiamo storici titanici flussi di cassa e bassi interessi, non ho mai visto niente del genere”, ha detto Joe Baratta, gestore capo dei 356 miliardi di dollari del Blackstone Group.
Fra gli italiani, come non citare l’elvetico Carlo De Benedetti? Anche lui, intervistato sul Corriere da Cazzullo ha annunciato “la nuova crisi economica imminente”, che “distrugge la borghesia”.
“Siamo alla vigilia di una nuova, grave crisi economica. Che aggraverà il pericolo della fine delle democrazie, così come le abbiamo conosciute».
De Benedetti addita i pericoli: Marine Le Pen in Francia, l’Ungheria “è già passata all’estrema destra”, in Italia “5 Stelle è il primo partito”, all’Est Europa c’è “l’anticamera del fascismo”.
Ma no, non crediate, lettori, alla diagnosi. Che ricalca quella di Soros. Il fascismo fu un fenomeno irripetibile, dovuto ai reduci della Grande Guerra che ne erano usciti armati e organizzati – quindi capaci di abbattere i regimi cosiddetti “democratici”, ossia ultraliberali, che si facevano guidare dai “mercati”, e provocarono la crisi del ’29, simile a quella di oggi. Solo che la nostra è peggiore, e non ci sono in Europa gruppi organizzati, disciplinati dalla guerra e armati per sfidare il regime. Quando De Benedetti annuncia “la fine della democrazia come la conosciamo”, vuol dire che saranno i miliardari con le loro banche centrali a cancellarla. Strapperanno ulteriori porzioni di sovranità e la daranno d’autorità alle entità sovrannazionali non elette, UE o FMI. Aboliranno il contante. Useranno la forza pubblica, dotata di armi da guerra come in Usa, per tenere sotto controllo le possibili rivolte.
Loro, sì, si sono preparati.
Draghi? Continuerà finché potrà a regalare tassi negativi ai piccoli risparmiatori, e denaro a costo zero alla speculazione. Il rilancio tarda? E’ colpa dell’Italia che non fa “le rifoorme”. E qui ha ragione: le riforma da fare, lo sappiamo, sarebbero il troncamento delle Caste parassitarie, magari lasciare che falliscano le Regioni e le municipalizzate in perdita di cui lo Stato ripiana le demenziali spese e ineficienze: con la bancarotta, i fancazziti annidati in questi enti sarebbero sulla strada, e nuove entità potrebbero assumere quelli utili. Ma vi pare si possa fare?
L’altra esortazione che viene dalla UE e dalla BCE è: “fare le privatizzazioni”:Tradotto: mettete in vendita ENI, Agusta, Finmeccanica, gli altri gioielli semipubblici – e “noi” ve li comprimo al prezzo che diciamo noi, con il denaro che Draghi ci fornisce a tasso zero. Naturalmente un governo nazionale si vieterebbe di “privatizzare” in una fase come questa. Ma abbiamo un governo nazionale? Come dicevo: per la fine della democrazia, loro si sono preparati in tempo. Noi abbiamo il 5 Stalle, sai che visione. E che organizzazione.