Da mezzo secolo ormai non si sente più parlare la Chiesa del destino post-mortem dell’uomo. Ma anche prima, bisogna ammettere, l’insegnamento cattolico era così piatto e sommario su le cose ultime, da farle svanire nella coscienza dei fedeli come miti superati e puerili. Peggio, da far spegnere l’interesse per il Paradiso e l’aspirazione ad entrarvi. “A far che, a parlare con Don Bosco e Bernadette? Sai che noia”, è stata a lungo una scipita freddura dei miscredenti da caffè.
Gianluca Marletta, nel suo saggio “, L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi – Considerazioni sull’Origine e il Fine dell’essere umano” (Irfan Edizioni, 130 pagine, 12 euro) ha recuperato nella sua affascinante complessità l’integralità della conoscenze di cui la Chiesa è tuttora depositaria, magari a sua insaputa. Lo ha fatto ricorrendo spesso a tradizioni di altre culture, con ampie citazioni di René Guénon (che piaccia o no, è un riferimento obbligato in questa sfera delle religioni comparate), il che lo espone, credo, ad accuse di gnosticismo o esoterismo. Errore: le conoscenze sul destino ulteriore dell’uomo, prima della sua attuale estrema materializzazione, erano un patrimonio comune e perenne di tutte le culture tradizionali; espresse in linguaggi diversi ma in simboli spesso convergenti, conoscenze “di derivazione germanica, celtica e orientale” diventano utili e persino necessarie per illuminare e recuperare le dottrine “perfettamente cristiane” che continuano ad esistere, ormai mal comprese, nel cattolicesimo e che nei suoi testi sono ben esplicite – purchè li si sappia leggere con l’occhio spirituale.
Voglio fare un esempio che Marletta non fa: vedere come un pagano, Lucrezio, sia stato capace di sintetizzare, in quattro limpidi eleganti esametri, una intera sapienza – allora comune e condivisa – sullo “stato umano” e le sue diverse “modalità”:
“Bis duo sunt homines, caro, umbra, manes, spiritus; quator ista loci bis duo suspiciunt; terra tegit carnem, tumulum circumvolat umbra, orcus habet manes, spiritus astra petit”.
La carne finisce sotto terra; l’ombra che svolazza attorno al sepolcro, corrisponde a ciò che la dottrina rabbinica chiama “respiro delle ossa”, gli “obot”, legati al cadavere, e forse il Ka egizio; l’Orco è palesemente quel che gli ebrei chiamano Sheòl, il luogo in cui “le anime” finiscono quando hanno esaurito le loro possibilità materiali con la vita fisica. E’ bene sottolineare che lo Sheòl, benché “infero”, non è necessariamente coincidente con l’inferno, ossia la Gheenna, luogo della “seconda morte” dove il “verme non muore”. Quanto poi a cosa intenda Lucrezio per “manes”, lasciamo la parola a Sant’Agostino, che non si fa alcuno scrupolo a citare un altro pagano, e particolarmente sospetto, perché misteriosofo, iniziato ad Iside e processato per magia: Apuleio.
“ [Apuleio] afferma che anche l’anima umana è un daimon e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione. » La città di Dio IX,11
Personalmente sono stato ancor più colpito da come Lucrezio smentisce la vera e propria superstizione dell’uomo d’oggi – quella di avere, anzi di essere un “Io” – mostrando come l’Io empirico sia un aggregato che si decomporrà dopo la morte, posizione che lo avvicina vistosamente al Buddhismo. Stupefacente poi il fatto che Lucrezio, un epicureo, ossia in teoria un ateo materialista del tempo, sappia che “spiritus astra petit”: dopo la morte, lo Spirito torna al Cielo. Lo Spirito che è la vera scintilla divina, quando l’aggregato si scompone, torna da dove è venuto, perché non appartiene all’individualità umana – a meno che essa non possa dire, come Paolo di Tarso, “non sono più ‘io’ che vivo, ma Dio vive in me”: con l’estinzione eroica dell’io empirico, infatti, il singolo, alcuni grandi santi conseguono l’Identità suprema, l’identificazione senza residui con Dio.
Marletta distingue questo stato supremo dalla “Salvezza”, condividendo l’affermazione di “alcuni maestri dell’Oriente cristiano per i quali “il Paradiso è solo l’inizio del cammino”, intendendo per Paradiso solamente i ritorno dell’essere allo stato primordiale”, ossia lo stato edenico che Adamo aveva prima della caduta; “oltre, infatti, ci sono tutti gli stati superiori dell’essere, simboleggiati dai Cieli, ed oltre gli stessi Cieli vi è la perfetta unione con Dio simboleggiata dall’Empireo”. Una nozione condivisa da Dante, che conosce i vari “gradi” del Cielo, anche se avverte “Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piova”.
Se ciò sembri strano al cristiano d’oggi, c’è un motivo, che non conoscevo e di cui Marletta informa: un Concilio di Costantinopoli, risalente all’870, ridusse obbligatoriamente l’uomo a ”corpo e una sola anima razionale e intellettuale” condannando come empia la nozione che in esso viva lo Spirito, inteso come una “seconda anima”. Interessante apprendere che non solo la Chiesa d’Oriente non accettò quel concilio; ma anche Tomaso d’Aquino pare non conoscerlo, in quanto riconosce un’anima “trascendente e universale” (lo Spiritus astra petit di Lucrezio), e Teresa d’Avila, in forza delle sue esperienze mistiche, nota: “Si vedono cose interiori che mostrano in modo sicuro che, sotto un certo rapporto, c’è un’evidente differenza tra l’anima e lo spirito” . Per tacere di San Paolo e dei molti luoghi in cui distingue il soma (corpo) l’anima (psyché) e lo spirito (pneuma).
In Regno esistono “molte dimore”, disse Cristo ai discepoli, aggiungendo che andava “a preparare un posto” apposta per loro. E’ lecito chiedersi dunque se una dimora della Salvezza chiamata “il seno di Abramo” non sia quella “fatta apposta” per ebrei ed arabi, discendenza del patriarca antico che lasciò la sua terra ad Ur in millenni immemorabili, e del canale di grazia che si aprì, grazie alla sua fede, un antico meriggio alle querce di Mamre. Sembrava crederlo Papa Gregorio VII nella lettera che scrisse al principe di Mauritania Anazir, musulmano:
“Noi e voi crediamo e confidiamo nell’unico Dio, per quanto in modo diverso, il quale quotidianamente lodiamo e veneriamo […] E chiediamo a Dio che, dopo una lunga e felice vita,tu possa essere condotto beatamente nel seno del santissimo patriarca Abramo”.
Se poi qualche “tradizionalista” si voglia scandalizzare, Marletta gli dà un’altra occasione provocatoria maggiore. Abbiamo giustamente schernito le concezioni del paradiso islamico, la promessa dei piaceri con le numerose vergini Uri. Ebbene, ecco cosa scriveva Efrem il Siro, santo, vescovo e dottore della Chiesa, morto nel 373, secoli prima di Maometto:
“Pensa al paradiso! Al suo aroma ristoratore e ai suoi piacevoli profumi, la tua giovinezza si rinnova, svaniscono le tue imperfezioni Chi si è astenuto dal vino sulla terra, per lui abbondano i vini in paradiso…E chi visse in continenza, lo accolgono donne nel loro casto grembo, poiché da monaco non cadde fra le braccia e nel letto dell’amore terreno”
E questo, in uno degli “Inni del Paradiso” che il santo cristiano compose! In questa evocazioni della carnalità è una perenne sapienza, il simbolo coincide con il reale: nell’uomo che ha conseguito la Salvazione, nell’uomo ridiventato integrale, nulla di ciò che è suo mancherà, come il “meno” è contenuto nel “più”- questo vuol significare sant’Efrem il Siro. Bisogna recuperare la coscienza, come dice Marletta, che la condizione edenica è lo stato in cui “tutte le possibilità sono co-presenti e l’essere può disporne a suo piacimento. L’Adamo dell’’Eden è simultaneamente bambino e adulto, corporeo e sottile, fermo e in movimento, perché il frutto della ‘dualità’ non ha più potere su di lui, tutte le possibilità dello stato umano sono a sua disposizione e sono per lui uno”. E chissà, forse lo stesso vuol dire il Corano con le sue favolose Urì.
E’ uno stato inimmaginabile a noi poveri coinvolti nel tempo (il tempo che è sinonimo di morte, come ci ricorda l’autore). Marletta ci ricorda sapienze che sono appartenute all’ortodossia cristiana, anche se oggi sembrano “gnostiche”; fornisce una utile mappa per l’aldilà, di cui – data la mia età – non posso che essergli grato. Soprattutto, fa ben capire l’urgenza della necessità di non cadere là dove “il verme non muore”, in quella in A-temporalità maligna cui corrisponde, nella atemporale Salvezza, “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”, perché per ciascuno di noi “le vostre opere vi seguono”. Non suo piccolo merito, rende gli stati paradisiaci affascinanti nella loro accurata complessità, e dà la voglia di andarci, il che non è da poco – specie per uno della mia età.
Penso infine che il suo libro sarà essenziale per coloro che vivranno “dopo” . Dopo che “questa generazione” sarà passata, cogliendo i frutti delle sue apostasie, e il Cuore Immacolato avrà trionfato.
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…io ho trovato molto bella la lettura de ” Apparecchio alla morte”; una delle moltissime opere di Sant’Alfonso Maria de Liquori..
pensare che – del Santo – i più forse ricordano solamente la canzoncina ” Tu scendi dalle stelle” dedicata a Gesù Bambino…
Apparecchio alla morte – come scrive Wikipedia – è un’opera ascetica e classica di spiritualità cristiana scritta da Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, dottore della Chiesa, nel 1758. Il libro può essere considerato uno sviluppo delle Massime Eterne, scritto precedentemente dallo stesso autore.
Nell’opera scritta dal Santo, non manca la sezione dedicata al Paradiso, sottotitolo ” Tristitia vestra vertetur in gaudium” ovvero, Il vostro dolore sarà mutato in gioia.
Penso che andrebbe fatto leggere a tutti i ragazzi delle medie…
o, forse anche prima…
http://www.santorosario.net/apparecchio.htm
(naturalmente per i “cattolici adulti, una copia sempre presente in casa ed una in Ufficio, se tascabile, meglio ancora )
Anche per tanti sedicenti professori, che possano in ogni momento, attraverso la lettura, sgonfiare il proprio egotismo mascherato da buone maniere.
[ io per primo]
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Vorrei aggiungere una breve nota a margine a quanto Lei scrive, e che condivido in toto.
“(nello stato edenico) tutte le possibilità sono co-presenti e l’essere può disporne a suo piacimento. L’Adamo dell’Eden è simultaneamente bambino e adulto, corporeo e sottile, fermo e in movimento, perché il frutto della ‘dualità’ non ha più potere su di lui, tutte le possibilità dello stato umano sono a sua disposizione
e sono per lui uno” ma “le vostre opere vi seguono” e quindi
se lo spirito ha mal vissuto, le possibilità a sua disposizione
continueranno a farlo vivere male; è questo l’inferno.
Simmetricamente per quanto concerne il paradiso.
Inferno e Paradiso non sono altro che lo specchio di come abbiamo vissuto.
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Una lettura consigliata indubbiamente affascinante.
Anni fa fui colto da guenonite acuta e lessi molte opere di colui che consideravo, dopo il maestro di color che sanno, uno dei pochi autori che valesse la pena leggere.
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” Inferno e Paradiso non sono altro che lo specchio di come abbiamo vissuto”
Non credo proprio alla sua visione infernale.
Mi consenta ma l’inferno è una REALTA’ concreta.
Basta scorrere i Salmi, i Libri Sapienziali, i Profeti,
dove si accenna al «Tarlo che rode e non muore», al «fuoco che non si spegnerà», al «fuoco che li divorerà», e in molti altri passi, come questi: Salmo 138-I; Eccl. VII, 40; Deut. XXXII, 22; Sap. XI, 17; Is. XXXIII, 14; Ps. LVIII, 5; Is. XXXIV, 3; Deut. XXXII, 33; Job.XX,
22; X, 22; Mal.I, 4; Apoc. IX, 6; Ps. LXXVI, 6; Ebr. X,31; Job. VIII, 14; Is. XXX, 33, ecc.. e, nel Nuovo Testamento:
S. Giovanni Battista: «Ogni albero che non dà frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco». «… raccoglierà il frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco inestinguibile».
E Gesù quanto ha predicato sull’Inferno!
(Vedi: Lc. XVI,22 (si tratta del ricco Epulone); Lc. 19-31; Mt. XIII, 50; Mt. XXV, 41; Mt. XXV, 46; 2 Tess. 1,9;Mc. IX, 45; Mt. VII, 13; Jo. II, 47-53; Rom. 5, 12 e 7, 14-25; Mt. 25, 34-41; Mc. 25, 46).
Gli Apostoli: San Pietro: 2 pt. 2, 4; San Paolo: 2 tess. 1,8; 1 Cor. 9, 27; S. Giovanni evangelista. Apoc. 14, 9-11 – Apoc. 20, 15; Apoc. 21, 8.
Gesù per far intendere la gravità della situazione all’inferno,
ha parlato di “fuoco eterno” (Mt. 3,12; 18,8, 8;25, 41), ricordando
la Geenna1, “dove il verme non muore e il fuoco non si spegne” (Mc. 9, 47 11)
Questa immagine del “fuoco”, come pena dei dannati, fu ripresa
da Gesù molte volte, come quando parlò della «consumazione
dei secoli, quando gli Angeli usciranno e separeranno i cattivi dai giusti, e li getteranno nella fornace di fuoco»
(Mt. 13, 47-50 – Apoc. 1, 15; 9, 2). Ancora: nell’Apocalisse, si parla
di “stagno di fuoco” (Apoc. 19,20; 20, 9-10, 15; 21, 8).
La Tradizione cattolica fu sempre ferma e chiara e indiscutibile,
sia sulla “eternità” dell’Inferno, sia sulle pene dell’inferno, in primis il “fuoco”.
E questo perché la Sacra Scrittura non ha mai insinuato che il “fuoco” dell’inferno sia solo metaforico, ma anzi lo ha paragonato col “fuoco” di Sodoma e Gomorra (2 Petri, 2, 6), e ha sempre affermato, claris verbis, che, dopo la risurrezione, i reprobi saranno gettati nel “fuoco” che fu preparato per il diavolo e i suoi angeli (Mt. 25,41).
L’Infermo, è più propriamente un luogo fisico e, soprattutto Reale.
Nel Catechismo di Pio X si legge :
«Per quale fine Dio ci ha creati?».. , con imbattibile sicurezza ci risponde: «Dio ci ha creati per conoscerLo, amarLo e servirLo
in questa vita, e per goderLo, poi, nell’altra, in Paradiso».
È quindi dottrina certa che l’inferno non è solo uno
“stato”, ma è anche un “luogo”
[ Fonte : Chiesaviva – Novembre 2010 – L’Inferno ]
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sono d’accordoo col sig. Rossi
L’inferno esiste e la storia del ricco e di Lazzaro in Luca 16 non è una parabola ma una storia vera.
Aggiungo:
Non vi è alcun “purgatorio”. Non vi è nemmeno giudizio, perchè chi non crede è già giudicato. Dopo la venuta del Salvatore impossibile salvarsi senza di Lui. Il giudizio è solo per la casa di Dio per affinare i (già) santi.
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MI fa piacere la sicurezza con cui afferma la “sua” verità. Ne sa più di San Paolo, che spiega cosa è il purgatorio nella 1 Corinti, 3.
“Ma badi ciascuno com’egli vi edifica sopra; poiché nessuno può porre altro fondamento che quello già posto, cioè Cristo Gesù. Ora, se uno edifica su questo fondamento oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia, l’opera d’ognuno sarà manifestata, perché il giorno di Cristo la paleserà; poiché quel giorno ha da apparire qual fuoco; e il fuoco farà la prova di quel che sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificata sul fondamento sussiste, ei ne riceverà ricompensa; se l’opera sua sarà arsa, ei ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco”.
Ma noi moderni ne sappiamo di più: il “secondo me” trionfa. Specie se si è ignoranti, si ha diritto alla propria opinione.
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…senza offesa per la sua discutibile – a mio giudizio – affermazione, io preferisco attenermi alla parole scritte dall’Angelico, padre della Chiesa Cattolica, San Tommaso D’Aquino, il quale, nella S.T. scrive :
Articolo 1
Se dopo questa vita ci sia un purgatorio
Sembra che dopo questa vita non ci sia un purgatorio. Infatti:
1. Nell‘Apocalisse [14, 13] si legge: «Beati i morti che muoiono nel Signore.
Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche». Così dunque per quelli che muoiono nel Signore non rimane da compiere alcuna opera di purgazione dopo la vita presente. E neppure rimane per quelli che non muoiono nel Signore: poiché questi non possono purificarsi. Quindi dopo la vita presente non c‘è un purgatorio.
2. La carità sta al premio eterno come il peccato mortale sta alla pena eterna.
Ora, coloro che muoiono in peccato mortale sono colpiti immediatamente dalla pena eterna. Perciò coloro che muoiono nella carità sono subito ammessi al premio eterno. Quindi per essi non c‘è un purgatorio dopo questa vita.
3. Dio, che è sommamente misericordioso, è più incline a premiare il bene che a punire il male. Ora, come coloro che vivono nella carità possono compiere del male che non è degno della pena eterna, così coloro che sono in
peccato mortale talora fanno oggettivamente del bene, che però non è degno del premio eterno. Perciò come questo bene non viene premiato nei dannati dopo la vita presente, così dopo questa vita non deve essere punito neppure il male suddetto. Da cui la conclusione precedente.
In contrario: 1. Nel libro dei Maccabei [2 Mac 12, 46 Vg] si legge: «Santo e salutare è il pensiero di pregare per i morti, affinché siano liberati dai loro peccati». Ma per i defunti che sono in paradiso non si deve pregare, poiché
essi non hanno bisogno di nulla. E neppure si può pregare per quelli che sono all‘inferno, poiché questi non possono essere liberati dai loro peccati. Perciò dopo questa vita ci sono alcuni non ancora liberati dai peccati, ma capaci di
esserne liberati. E costoro hanno la carità, senza la quale non c‘è remissione dei peccati: poiché, come dicono i Proverbi [10, 12], «l‘amore ricopre ogni colpa». Quindi essi non sono destinati alla morte eterna: poiché, come dice il
Signore [Gv 11, 26], «chi vive e crede in me non morirà in eterno». Essi però non verranno introdotti nella gloria se non purificati: poiché nulla di impuro vi può giungere, come risulta dall‘Apocalisse [21, 27]. Quindi non resta che
compiere un purgatorio dopo la vita presente.
2. S. Gregorio Nisseno [Orat. de mortuis] ha scritto: «Se uno, in rapporto di amicizia con Cristo, non può in questa vita purificarsi del tutto dai suoi peccati,potrà farlo dopo la morte mediante il fuoco del purgatorio». Quindi
dopo la vita presente rimane ancora un‘eventuale purificazione.
Dimostrazione: In base a quanto si è spiegato sopra [III, q. 86, a. 4], risulta già a sufficienza che dopo questa vita ci deve essere un purgatorio. Se è vero infatti che la contrizione cancella la colpa, tuttavia non [sempre] viene eliminato del tutto il reato o debito della pena; inoltre con la cancellazione dei peccati mortali non sempre viene compiuta anche quella dei veniali, e d‘altra parte la
giustizia di Dio esige che ogni peccato venga ricondotto all‘ordine dalla debita pena. Perciò è necessario che chi muore dopo essersi pentito dei peccati e dopo l‘assoluzione, prima però della dovuta soddisfazione, venga punito dopo la vita presente.
Perciò coloro che negano il purgatorio parlano contro la divina giustizia.
Quindi la loro opinione è erronea e contraria alla fede. Da cui le altre parole di S. Gregorio Nisseno [cf. s. c. 2]: «Questo noi predichiamo per custodire il
dogma della verità, e così crediamo ».
Ciò inoltre è ritenuto dalla Chiesa universale, la quale «prega per i morti affinché siano liberati dai loro peccati» [cf. s. c. 1]: il che non può intendersi se non di coloro che sono in purgatorio. Ora, chi si oppone all‘autorità della
Chiesa cade nell‘eresia.
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Gentile Blondet,
volevo solo segnalarLe che benché i versi da Lei riportati siano stati effettivamente attribuiti da alcuni, nel recente passato, a Lucrezio, tale attribuzione è sfortunatamente erronea: infatti, ci sono in realtà pervenuti insieme al corpus ovidiano in diverse lezioni* e non sono quattro esametri, bensì una coppia di distici elegiaci (ciascuno costituito da un esametro e un pentametro in successione) che i più pensano, quamvis dubitanter, siano un frammento di qualche componimento perduto di Ovidio.
*Ad esempio, in una lectio facilior abbiamo “Terra tenet corpus” anziché “Terra tegit carnem”
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La dualita’ dello stato edenico, il non compiuto e potenziale inteso come possibile, e’ lo stato di superposizione secondo quanto scoperto (e certo non compreso) dalla meccanica quantistica. Ah che tempo sara’ quando ogni conoscenza confluira’ nell’Unica verita’. Direttore, un caro abbraccio ed auguri di Buona Pasqua di Resurrezione a Lei e a tutti coloro che seguono il suo lavoro e si emozionano ogni volta.
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Grazie, Maurizio, per questa bellissima recensione. E soprattutto grazie all’amico Gianluca Marletta per la sua ottima fatica.
Tuttavia c’è qualcosa di fondamentale da chiarire. Non – sia chiaro! – per restare intrappolati nell’apodittico rifiuto dello gnosticismo, dato che esiste, senza dubbio, una “gnosi pura”, perfettamente cristiana, ed una “gnosi spuria”, luciferina, sicché un cristiano è chiamato a discernere il grano dal loglio e non ad atteggiamenti di chiusura o rifiuto assoluto in nome di un non ben distinto e onnicomprensivo “gnosticismo”.
Visto che siamo alla vigilia di Pasqua la domanda da porre è la seguente: Nostro Signore Gesù Cristo è risorto con il suo corpo – benché trasfigurato – oppure ha lasciato il corpo nella tomba, l’anima/ombra a svolazzare intorno al cadavere, lo spirito (quale quello personale oppure quello universale? Ossia lo “spirito” o lo “Spirito”?) a vagare nell’oltretomba fino a giungere al Cielo OPPURE è risorto in spirito, anima e corpo – ossia anche con il suo corpo santissimo – ipostaticamente uniti alla Sua Divinità?
Non sto parlando in “termini teologici” come direbbe, forse, l’amico Marletta ma soltanto nei termini della Rivelazione cristiana che è il ripristino della Rivelazione originaria (l’Incarnazione del Verbo era prevista nel disegno divino sin dagli inizi e non è stata conseguenza del peccato umano, quella è stata la Passione. Anzi, secondo una antichissima tradizione, fu proprio lo “scandalo” di Lucifero – quando Dio sottopose gli angeli viatori alla prova –, davanti alla prospettiva che il Verbo di Dio si incarnasse, si “sporcasse” con la carne, ad indurlo al “non serviam”, a non servire un Dio che voleva umiliarsi fino ad incarnarsi: Lucifero fu il primo tra gli gnostici spuri!).
Perché qui è chiaro che è in gioco la questione della bontà o meno del creato. Ossia se la creazione, come rivelato in Genesi, è l’Opus Magnum dell’Amore di Dio, dunque opera buona, oppure se la creazione, perché materiale, è solo “caduta”, “degradazione”, “frammentazione” di una indistinta unità primordiale, che poi un “cattivo demiurgo” (che, non a caso, le correnti dello gnosticismo spurio hanno identificato, in polemica con il cristianesimo, nel Dio biblico: vedasi l’eresia di Marcione) avrebbe distrutto.
Sto dicendo che lo stato adamitico, l’Eden, non era “sottile”, come se la materia, il corpo, fosse impura, fosse prigione di una scintilla divina caduta dal pleroma indistinto delle origini e quindi da liberare dal contatto con la carne corrotta per sua essenza.
Questa fu la concezione del catarismo e poi, non a caso, del luteranesimo, per i quali l’uomo, nella sua natura, quindi anche in quella corporea, sarebbe solo una “cloaca di corruzione”.
Al contrario, Francesco d’Assisi cantava le lodi alla Bontà dell’Altissimo per la sua creazione, ontologicamente buona come tutte le sue opere.
Pensare ad un Eden immateriale, “sottile”, dal quale l’Adamo primordiale, in origine senza coprpo o con un “corpo immateriale”, sarebbe “caduto” nella tenebra della materia “cattiva”, mi dispiace, non è cristiano, non è “gnosticamente cristiano”.
L’Eden era una realtà concreta, materiale, corporea, era questa stessa creazione attuale “come vissuta” dall’uomo partecipe, in spirito anima e corpo, dell’Amore di Dio, prima del suo atto di orgoglio prometeico ossia prima che egli tentasse l’auto-deificazione indottovi dal suo abbandonare la “gnosi pura”, rivelatagli da Dio, per la “gnosi spuria”, quella dell’ourobourus, il “serpente che si morde la coda”, presente nei miti della fecondità ciclica.
“Come vissuta dall’uomo” ossia in modo del tutto diverso da come egli la vive oggi, sottoposto alle leggi temporali del divenire e della nascita-morte dalle quali Dio, pur avendolo creato in spirito anima e corpo, lo aveva preservato nella partecipazione a Sè, alla Divinità (esattamente quella partecipazione che con il peccato l’uomo ha perso). Lo aveva da esse preservato in attesa del passaggio al Cielo: la “morte” dell’uomo adamitico altro non sarebbe stata, come è accaduto per la Vergine Maria la quale infatti sin dal primo istante della sua concezione è immune dal peccato originale, che l’assunzione di tutto l’uomo, spirito anima e corpo, al Cielo. Alla fine, anche l’intera creazione sarà “assunta” nella forma dei “nuovi cieli e nuove terre”, ossia trasfigurata ma non negata nella sua materialità, come appunto ci dice l’Apocalisse, ossia la Rivelazione.
Per comprendere, almeno un po’, la condizione ontologica e fenomenica dell’uomo adamitico non si deve far altro che esaminare la condizione ontologica e fenomenologica dei mistici attuali. Nella vita dei mistici si manifestano tutta una serie di fenomeni che denotano la loro non soggezione, per Grazia di Dio ossia per opera dello Spirito Santo, alle leggi caduche della creazione. Dal digiuno ininterrotto e senza conseguenze di debilitazione fisica alla “insonnia continua” ossia il non dormire, dalla cardiognosi, la capacità di leggere nei cuori, alla bilocazione, dalla mancanza di patimento del freddo per via del “Fuoco dello Spirito” acceso nei loro cuori alla non soggezione ai richiami erotici. E via dicendo. Ma tutto questo con il corpo e nel corpo, non senza di esso o liberandosi di esso.
C’è poi da chiarire se l’uomo ha un “io” che non è certo da identificare con i moti della sua psiche e neanche con il suo pensiero sempre in movimento ma piuttosto con quanto di imperituro c’è in lui e che gli permette di avere coscienza di sé nonostante tutto in lui muti in continuazione, anche a livello biologico e cerebrale. Sicché, se non ci fosse un “io”, che poi è lo “spirito”, che ha sede nel cuore, egli non potrebbe avere alcuna consapevolezza di sé e del mondo, come infatti non ne hanno gli animali del tutto determinati dall’istinto ossia dal divenire dell’immanenza nella quale sono del tutto ricompresi.
Perché è chiaro che c’è una distinzione – altrimenti saremmo nel totale panteismo – tra lo “spirito” e lo “Spirito”, ossia tra lo spirito personale, il “ruach” infuso da Dio nell’Adamo, spirito creato e dunque buono ed amato dall’Altissimo perché sua icona, e lo Spirito Santo, ossia lo Spirito Universale, lo Spirito di Dio, al quale lo spirito umano era in origine unito per partecipazione (non per identificazione: altrimenti si ripete sarebbe panteismo).
Santa Teresa d’Avila e san Paolo, infatti, distinguono tra “spirito” e “Spirito Santo”.
Infine, vorrei segnalare (cfr. Luigi Walt “Gnosi e gnosticismo: appunti per una definizione” in http://www.paulus2.0) questa definizione della gnosi nel contesto storico-religioso:
“Non ogni ‘gnosi’, quindi, può essere considerata ‘gnostica’ (autori decisamente ortodossi, come Clemente Alessandrino o Massimo il Confessore, parlano tranquillamente di una “gnosi” cristiana). I tratti salenti dello ‘gnosticismo’, esposti schematicamente, sarebbero allora i seguenti: a) la presenza di un complesso schema mitologico-cosmologico fondato sull’idea di ‘caduta’ (rottura originaria di un ordine divino del cosmo, talora coincidente con la creazione del mondo sensibile ad opera di un demiurgo), cui corrisponderebbe sul piano antropologico b) un acceso dualismo tra mondo materiale e mondo spirituale e c) l’idea di un patrimonio sapienziale esclusivo, trasmissibile per via esoterica, in grado di condurre il gruppo ristretto che lo possiede alla salvezza e alla liberazione dai lacci della vita carnale. Un ulteriore tratto, tipico delle dottrine gnostiche, è ravvisabile nella mescolanza di elementi provenienti da tradizioni religiose eterogenee, spesso amalgamati senz’alcuna pretesa di coerenza. Molto frequente, infine, è una rigida classificazione dell’umanità secondo tre categorie: gli spirituali (o pneumatici, ossia coloro che posseggono la ‘gnosi’ e sono già redenti), gli psichici (ossia gli uomini che, con l’aiuto dei ‘perfetti’, possono accedere alla ‘gnosi’) e gli ilici (nei quali predomina la hyle, cioè la materia, e che perciò sono destinati alla dissoluzione). Oltre al consueto richiamo ad insegnamenti nascosti, che sarebbero stati impartiti segretamente a personaggi della storia biblica o delle origini cristiane”.
C’è poi, su un piano più teoretico, un’altra appropriata definizione della gnosi e la si deve ad Ennio Innocenti (Cfr. E. Innocenti “La gnosi spuria” in tre volumi per la Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma) molto utile per il necessario discernimento – attenzione: CASO PER CASO e non in modo troppo sbrigativo come usano fare i “cattolici tradizionalisti” – tra il grano autentico e il loglio luciferino:
“L’Apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, offre loro il criterio interpretativo della storia universale: essa, innegabilmente, indica una decadenza del valore umano e la causa di tale disgrazia è un difetto d’apprezzamento dell’Infinito (e questo difetto è colpevole perché all’uomo non manca il potere intellettuale del giusto giudizio). Non riconoscendo l’Infinito per quel che è, l’uomo sbaglia anche nella stima di se stesso: da qui discendono tutti gli altri suoi errori. L’Apostolo sottolinea che l’uomo inizia il suo processo conoscitivo (gnosi) dalla sfera sensibile, ma assurge – di lì – fino alla realtà suprema: la sua conoscenza giunge proprio alla infinita perfezione della Divinità (mediatamente, come abbiamo rilevato). Approda, dunque, all’Infinito almeno quanto basta per apprezzarlo come assolutamente trascendente tutte le perfezioni limitate, ma – qui è la colpa da cui derivano tutti i suoi mali – egli non riconosce all’Infinito quel che gli spetta; tentando di diminuire l’Infinito, finisce per annientare se stesso. Il prevalere dell’uomo sul bruto è fondato sulla superiorità della conoscenza di cui l’uomo è capace: egli, infatti, è il solo essere, su questa terra, che si domandi il perché del vivere, cercandolo fin sopra le stelle. Potere immenso, ma non immune da gravi errori. Nell’interpretare la realtà due soltanto sono i giudizi sull’essere: l’essere, infatti, o è dall’intelligenza umana interpretato come partecipazione, oppure è interpretato come caduta. Sia nel primo che nel secondo giudizio le conseguenze sono di grandissima importanza e tali da influenzare tutto il vivere umano. L’essere è partecipato da una fonte sapiente, libera ed amante: l’Infinito Iddio. Egli, pienezza di coscienza bontà e bellezza, partecipa il suo essere amando gli esseri che crea, ordinandoli in una collaborazione che rispecchia la sua perfezione, cui tutti – e l’uomo consapevolmente e liberamente – tendono. L’essere, invece, cade, primordialmente e necessariamente, da una oscurità inconscia innominabile informe ed indeterminata, e tale caduta, che comporta la degradazione e la differenziazione degli esseri, dev’esser riassorbita nell’unità indifferenziata del tutto. Nella prima interpretazione l’uomo s’innalza per dono divino. Nella seconda, invece, l’uomo s’illude d’erigersi immedesimandosi nel tutto. Vi sono altre caratteristiche che differenziano inconfondibilmente questi due tipi di gnosi: la prima suppone la irriducibilità fra essere e non essere, Dio e gli esseri creati, lo spirito e la materia, la verità e l’errore, il bene e il male; la seconda no. Inoltre: nella prima ordine, gerarchia, obbedienza sono le direttive che discendono dai presupposti; nella seconda il caos, l’anarchia, l’individuo eslege sono armonici con le premesse. Ancora: la prima progredisce aprendosi al dono e all’influsso divino; la seconda maturando la consapevolezza di sé e della propria fonte (or ora indicata: caduta e degradazione). La prima gnosi la chiamiamo “pura”, la seconda “spuria”. Solo di quest’ultima qui ci occupiamo. Essa è rintracciabile nei documenti scritti di molti popoli fin dall’antichità». (La gnosi spuria, vol. I, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1993).
Auguri a tutti per una Santa Pasqua di Resurrezione – spirito anima e corpo – di Nostro Signore Gesù Cristo.
Luigi Copertino
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Bello trovare consonanza di pensieri e desiderio di spiritualità in un’epoca così agnostica, che rifiuta ogni idea del sacro. Evidentemente in questi momenti si serrano i ranghi.
A proposito del termine gnosi, va detto che l’utilizzarlo nell’ambito cristiano è riduttivo e fuorviante, in misura tale che esso finisce per prestare il fianco a chi lo ritiene via della c.d. “autodeificazione”, cioè di chi si vuol farsi simile al “non serviam” di nota memoria.
Nell’Ortodossia si parla molto più propriamente di “Sapienza”. Solomone dice: “Amate la Sapienza, o voi che giudicate la terra; pensate al Signore con bontà e cercatelo in semplicità di cuore, poiché lo scopre chi non lo mette alla prova, e si manifesta a chi non gli è infedele”.
Ma a coloro che ritengono che la “Salvezza” promessa da Cristo a coloro che crederanno in lui sia solo un gradino verso i Cieli, e che pertanto si debba cercare oltre, rispondiamo citando per intero il passo del III Canto del Paradiso, appena ricordato da Blondet, ove Piccarda Donati fornisce al Poeta una somma lezione:
Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi più alto loco per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.
E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’ io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola”.
Prima regola: pulire il proprio vetro, poi il posto a tavola non ce lo concediamo da soli.
Buona Santa Pasqua a tutti.
Sia lode a Gesù Cristo.
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Rifuggo ogni polemica, solo dichiaro che in fatto di morte e vita meglio non fidarsi di nulla se non che provenga dall’alto e non dalla sapienza pur eccellente dell’uomo.
L’esempio di Eliseo ci indica che non ci vediamo bene, ora.
…Ed Eliseo pregò e disse: ‘O Eterno, ti prego, aprigli
gli occhi, affinché vegga!’ E l’Eterno aperse gli occhi…
del servo, che vide a un tratto il monte pieno di cavalli e
di carri di fuoco intorno ad Eliseo….
Tuttavia riconosco che per degli effettivi grandi sapienti, come ci riteniamo, sia scocciante dover fare tutto ora mentre siamo in vita, avendo affari con un dio vivo e che ama accordarsi con i vivi.
Accettiamolo e facciamo qualcosa, se non vogliamo ricadere nel salmo 88
….Prostrato sto fra i morti, come gli uccisi che giacciono nella tomba, de’ quali tu non ti ricordi più, e che son fuor della
portata della tua mano….