Giustamente fiero, il governo di Reykiavik ha dato la notizia: l’Islanda è tornata più o meno al livello di disoccupazione del 2007, prima della grande crisi delle sue banche. I disoccupati sono l’1,9 per cento della popolazione attiva. D’accordo, l’Islanda ha solo 320 mila abitanti, ma la crisi che ha subìto era proporzionalmente catastrofica, come ha riconosciuto il Fondo Monetario: le tre banche maggiori fallite tutte nel giro di pochi giorni, avevano “attivi” (ossia: erano esposte) per 10 volte il Pil nazionale; per lo più con creditori esteri, per lo più britannici e olandesi; e simultaneamente alla crisi dei subprime che ha trascinato a fondo le banche di Europa ed America. L’economia crollò, la disoccupazione salì al 10 per cento (con punte di 12). Come ce l’hanno fatta gli islandesi?
Semplice. “Non avremmo potuto uscire dal disastro se fossimo stati nembri dell’Unione Europea”, ha spiegato il primo ministro Sigmundur Davíð Gunnlaugsson. La fortuna aggiuntiva è di non essere entrati nell’euro ma aver la loro moneta sovrana. “Se i debiti fossero stati in euro, se fossimo stati obbligati (dalla UE) a fare come l’Irlanda o la Grecia, e prenderci carico delle banche fallite, ciò avrebbe affondato la nostra economia”.
Sostenuto dalla popolazione (he aveva cacciato i politici colpevoli), il nuovo governo ha fatto il contrario di quel che raccomandano la BCE e Bruxelles. Invece del salvataggio a spese dei contribuenti (bail-out) ha cominciato con lo sbattere i galera i banchieri responsabili; ha lasciato fallire le banche, limitandosi a preservare i depositi dei residenti, ossia i risparmiatori e le famiglie islandesi; i depositanti esteri hanno niente, in fondo sapevano che stavano partecipando a speculazioni azzardate. Hanno perso tutto col fallimento delle tre banche.
Poi, il piano di risanamento. Un piano cui la popolazione (ovviamente con alto tasso d’istruzione) ha partecipato consapevolmente, assumendone in coscienza le pari sgradevoli: qualche anno di cinghia tirata (austerità di bilancio) e aumento di tasse, sacrifici accettabili se ciò avesse portato alla ripresa. Ma anche qui, ecco alcune misure che l’Europa vieta: 1) controllo dei capitali (orrore orrore!), 2) procrastinazione dell’aggiustamento di bilancio (ossia “sforare il deficit”) e 3) e svalutazione della moneta. Una svalutazione forte – 60% – che ha innescato una fiammata d’inflazione non indifferente; oggi padroneggiata per la ripresa economica conseguente. Reykiavik ha rimborsato tutto il prestito del Fondo Monetario (oltre 2 miliardi di dollari), e non ha sacrificato lo stato sociale. Il debito pubblico è oggi al 100 per cento del Pil, ma non provoca alcuna inquietudine sui mercati. Tanto che l’Islanda è tornata su detti mercati con una emissione di 2 miliardi, che è stata tutta assorbita.
Aziende hanno smesso di fallire, altre ne sono nate, e i giovani islandesi non hanno dovuto emigrare come i giovani portoghesi, i giovani spagnoli , greci o italiani.
Nel marzo 2015 ha ritirato la sua candidatura ad entrare nella UE, “stimando che i suoi interessi siano meglio difesi standone fuori”.
Dunque, uscire dalla recessione si può. Non stando nell’euro e non sottostando alle “regole” europee e ai diktat di Berlino. Ci diranno: l’esperimento è riuscito perché il paese è microscopico. L’obiezione può avere una parte di verità, in questo senso: per il fatto d’essere piccola, i padroni del sistema finanziario hanno trascurato il paese. Alla Grecia e ancor più all’Italia non lo permetterebbero, metterebbe in atto misure punitive e vendicative (con Atene l’hanno fatto ) perché misure eterodosse non “devono” portare al successo, non “possono” diventare un modello che altri sarebbero tentati di imitare.
La dimostra la frasetta con cui il FMI si congratula a denti stretti del successo islandese : “L’insieme eclettico di misure ortodosse ha funzionato nel caso dell’Islanda, è tutt’altro che certo che siano trasferibili altrove, come nella zona euro in crisi”. Certo che no.
Gesell per miliardari
Infatti, mentre il sistema finanziario mondiale collassa e il capitalismo terminale ha innescato quella che forse è “la crisi più grande crisi della storia” , il ministro Padoan annuncia la cura: il governo farà nuove privatizzazioni , Poste, Eni (è nella perfetta ortodossia), e le banche centrali sperimentano i tassi negativi. Per obbligare i depositanti a “investire”, ufficialmente. In realtà per portar via i risparmi alle famiglie, visto che ai contribuenti spremuti dalla depressione economica e disoccupati non possono estrarre tributi ancor maggiori, e gettarle nel calderone (“risanamento delle banche”, lo chiameranno).
Lo dimostra uno strano comunicato della J P. Morgan, la quale riferisce che a Davos, un banchiere centrale non nominato ha detto: “facciamo in fretta ad eliminare il contante, così le autorità monetarie saranno libere di imporre tassi d’interesse negativi molto al disotto dell’1 per cento”. Insomma se hai 100 mila euro in banca, in un anno loro se ne prendono diciamo 3, diciamo 4 mila. E non potrai farci niente, perché non potrai farti restituire il conto corrente in contanti.
Questa dei tassi negativi è una misura “non ortodossa” – quando vogliono, lorsignori se lo consentono. Non è un’idea loro. E’ la famosa “moneta deperibile” che Silvius Gesell (morto nel 1930) propose (sputacchiato e deriso) come cura per la deflazione estrema – quale quella che lorsignori hanno instaurato oggi con le loro politiche. In deflazione, la gente tesaurizza i soldi,ritarda gli acquisti sperando in ulteriori cali dei prezzi; ciò aggrava la deflazione e l’avvita su se stessa. Gesell propose l’emissione di banconote a cui andava incollato un bollo mensile per tenerle in corso: il costo del bollo faceva”deperire” la moneta a poco a poco, come una inflazione controllata, che obbligava i risparmiatori e spendere ed investire invece che tenere i soldi sotto il materasso.
Le banche centrali imitano dunque Gesell? Non proprio. Anzi per niente. Gesell aveva in mente di aiutare i disoccupati, riportando in circolo il denaro congelato; i tassi negativi dei banchieri non sono fatti per dar lavoro ai poveri, ma per espropriare l’ultima liquidità rimasta in mani private, e impedire in tutti i modi che la gente si sottragga alla tosatura, magari ritirando i soldi e mettendoli sotto il mattone (dove “rendono di più” che in banca: lo zero per cento). L’effetto quasi certo sarà di aggravare la deflazione, invece che vincerla.
E’ singolare come le banche centrali, adesso che sono completamente in mano alla speculazione privata, riprendano a loro favore misure che la finanza speculativa ha combattuto. Dopo aver combattuto l’accordo fra Tesoro e Banca centrale nazionale, per cui questa si obbligava a comprare la quota di titoli di debito pubblico che il “mercato” non assorbiva; dopo aver abbandonato completamente al “mercato” la fissazione degli interessi per il debito di stati (che prima non fallivano mai), adesso – nella fase terminale – ecco che le banche centrali ricorrono alla stesso trucco, comprando titoli di stati per cui il “mercato” richiederebbe interessi proibitivi. Ma la differenza c’è ed è grossa: prima, l’effetto calmiere prodotto dal “matrimonio” fra banca centrale e Tesoro aveva come mira di consentire allo Stato investimenti pubblici infrastrutturali indebitandosi ad interessi modesti; oggi, lo scopo della “repressione finanziaria” è consentire ancora un giro nella giostra delle borse. Se il denaro non rende più niente, anzi dà interessi -2 o -4, bisogna cercare di speculare in Borsa per ottenere un rendimento . A rischio di perdere tutto.