Pecchioli su l’indiano lasciato morire.

di Roberto Pecchioli

L’episodio dell’immigrato indiano a cui una macchina agricola ha tranciato un braccio, abbandonato e lasciato morire senza cure, ci interroga nel profondo e su più piani. Il primo è quello dell’orrore e della pietà umana. Nessuno può essere consegnato alla morte in maniera così vergognosa, nessuno deve diventare tanto disumano da compiere un atto del genere. Forse la vecchia retorica – in fondo non così  vera- degli italiani brava gente deve essere aggiornata. Tra i mille cambiamenti, registriamo anche la disumanizzazione di una parte della nostra gente, che aveva tra le virtù un approccio alla vita comunitario, solidale, capace di, cura, estraneo alla durezza di altre popolazioni.

La seconda questione è quella dell’immigrazione incontrollata. Il povero bracciante è uno dei tanti “invisibili” delle città e delle campagne, uno di quelli che si sfiancano nei campi per pochi soldi , spesso in condizioni estreme.  Altri, molti, sono facili reclute di una malavita sempre più potente, non pochi- specie donne- diventano schiavi sessuali. Un numero imprecisabile di “minori non accompagnati “ ( ipocrita neolingua al servizio della dissoluzione civile) è preda delle vergogne più indicibili, dalla pedofilia al traffico di organi. Che cosa siamo diventati, noi italiani (ex) brava gente e il pezzo di mondo a cui apparteniamo ? L’ Agenda 2030 dell’ONU si propone di sconfiggere la povertà ma è apertamente immigrazionista. Sostituzione etnica più sostituzione di principi. Non ci guadagna nessuno, tranne i registi e i beneficiari di un’operazione colossale di ingegneria sociale. Intanto gli uomini – indiani o italiani- diventano cose, oggetti di cui ci può disfare. Usa e getta, letteralmente.

L’esercito di riserva del globalismo capitalista è un fiume di schiavi senza nome, senza volto, senza dignità. Noi come loro: pedine fungibili di un grande gioco diretto dall’alto, privati di tutto fuorché dell’interesse soggettivo. Leone e gazzella corrono all’impazzata sin dal mattino, come nel racconto africano. Né la preda né il predatore sfuggono al destino di marionette. Vale anche per il connazionale che ha lasciato davanti casa ( probabilmente un misero tugurio) il lavorante ferito per non assumersi le sue responsabilità. Corre anch’egli per rispettare contratti capestro, per vendere al prezzo fissato da altri i suoi prodotti. Abbatte i costi pagando pochi spiccioli i contadini, che forse non guarda neppure negli occhi, così  come i suoi padroni (grossisti, multinazionali dell’agricoltura) non guardano negli occhi lui. Davvero: che cosa siamo diventati ?

All’inizio degli anni Novanta, appena chiusa l’esperienza del comunismo sovietico, un uomo politico considerato pericoloso per la sua capacità di conquistare l’animo dei giovani militanti, Pino Rauti, invitava a non festeggiare la fine dell’Unione Sovietica. Ci capiterà di peggio, osservava, perché il capitalismo senza più antagonista diventerà quello che è già in potenza: feroce, totalitario, privo di umanità, esattamente come il suo fratello-coltello rosso.  Venne deriso dalla maggior parte del suo stesso ambiente. Quando parlava di immigrazione- all’epoca ancora agli inizi – usava dire “ un dramma per loro, un dramma per noi”. Altre risate stolide, sciocche ironie da parte di una destra italiana pronta a diventare cane da guardia del neo capitalismo. Volevamo poca o nessuna immigrazione non per razzismo, ma nella certezza che l’irruzione di milioni di estranei avrebbe sfigurato le nostre città togliendo l’identità sia a noi sia ai nuovi arrivati, oltreché impoverito entrambe le parti. Unici beneficiari, chi poteva disporre di braccia a basso costo- da contrapporre alle popolazioni originarie- e gli architetti di una società senz’anima, senza centro, senza valori condivisi. Tanti segmenti di società divisi per etnia – intanto stavano preparando la guerra dei sessi e degli ”orientamenti sessuali”- colore della pelle, modi di vivere. Un minestrone multiculturale, multietnico, multitutto su cui regnare indisturbati, un quadro astratto fatto di macchie.

Che ne sapeva di tutto questo il povero indiano ? E che cosa ne sa, probabilmente, il suo aguzzino ? L’imperativo categorico era lavorare la terra di corsa, incuranti di tutto, raccogliere i prodotti, caricarli in gran fretta per la consegna al Dio Mercato.

All’inizio degli anni Novanta – alba della globalizzazione- diventai io stesso un attore del nuovo, gigantesco spettacolo. Funzionario di dogana, guardavo sbigottito l’arrivo di navi intere di frutta –soprattutto mele e pere- provenienti dal Sudamerica. Approdavano la sera e sbarcavano direttamente su centinaia di camion in fila sottobordo i prodotti che la mattina seguente dovevano essere sui mercati ortofrutticoli italiani. Quasi  nessuna possibilità di controllo, dazi ridotti o nulli, le banchine brulicanti di gente frettolosa, litigiosa, ognuno a rincorrere il suo pezzetto di reddito in un meccanismo che non comprendeva e in cuor suo disapprovava. Erano state costruite navi gigantesche con immensi frigoriferi, scavati pozzi di petrolio per trarne carburante, estratto ferro per i grattacieli galleggianti, inquinati i mari e la biosfera per spostare da un capo all’altro del mondo prodotti di cui avevamo abbondanza. Ma avevano vinto la globalizzazione, la legge ferrea di Ricardo, le sue prescrizioni sulla necessità di produrre in loco solo ciò che costa meno, l’economia imperiale e schiavistica praticata dalla Gran Bretagna.

A quale prezzo ? La vita del povero indiano e di molti come lui, deportati per fare gli schiavi del globalismo, la cultura irrimediabilmente perduta di chi lascia la sua terra e la fine contestuale del modo di vivere dei luoghi di immigrazione, l’anima rubata a chi campa solo per il denaro, l’interesse, la corsa verso  l’accumulo, interrotta da effimeri piaceri nel vuoto interiore, nella bruttezza (e nelle bruttura) esteriore. Papa Benedetto XVI disse che, dopo quello alla vita, il primo diritto di un essere umano è quello di vivere nella sua terra, tra la sua gente, parlando la sua lingua e secondo i costumi del suo popolo. Tutti diritti negati a chi parte e sottratti rapidamente a chi vive nei luoghi di arrivo, sfigurati nel paesaggio umano e culturale. Che civiltà è, quali valori incarna, il mondo in cui neppure si soccorre un ferito per sottrarsi ai controlli su contratti e condizioni di lavoro? Che mondo è quello che parla di diritti mentre rende schiave milioni di persone, non solo immigrati?

A noi tocca abbassare le “pretese”, accettare di tutto e di più , diventare “imprenditori di se stessi”, zingari con trolley per inseguire qua e là opportunità da conquistare in furibonda competizione con altri esseri umani. Se “ ce la facciamo “ (si dice così) e diventiamo davvero imprenditori, ci dobbiamo trasformare in Mister Hyde, sfruttatori, sgherri al servizio del piano alto del globalismo capitalista. Ogni anno muoiono sul lavoro in Italia oltre mille persone, tre al giorno. Satnam Singh – restituiamogli l’onore del suo nome- non è che un numero in più della statistica. Trasporti, edilizia, industria, ora anche l’agricoltura, sono i settori più pericolosi.

E poiché la retorica dolciastra dei diritti invade ogni ambito, sappiate che il novanta per cento sono uomini. Non conta nulla il  “maschicidio” quotidiano di chi si guadagna il pane, i tanti invalidi, le sofferenze. Interessa poco perfino il costo economico della carneficina: è inferiore al profitto di un’economia malsana. Quindi, nessun ripensamento, nessun modello sociale in cui gli esseri umani siano protagonisti, non “risorse” sacrificabili, intercambiabili se qualcuno  costa meno o è disponibile un macchinario che sostituisce l’ obsoleto homo sapiens. Ecco un’altra stazione della Via Crucis. Il datore di lavoro ( chiamiamolo così, anche se padrone è più realistico) di Satnam si è difeso dicendo che la macchina responsabile dell’amputazione non doveva essere toccata dal bracciante. Colpa sua: “io glielo avevo detto”. Disgustoso. Gli schiavi possono essere agevolmente sostituiti da altri. A cura di miliardari “filantropi””, finanziatori di carrette del mare, “viaggi della speranza” e del variegato universo di organizzazioni di sostegno “umanitario “ ( qualche volta lo sono davvero) altri capi di bestiame umano saranno lieti di occupare i posti lasciati liberi, meglio se con paga inferiore o condizioni peggiori.

Oltre le responsabilità personali dell’ imprenditore agricolo, il problema è più vasto. O usciamo dalla spirale disumana, schiavistica, dei padroni del mondo, ossia mettiamo finalmente in discussione il modello economico, sociale, produttivo globalista, liberista, privatistico, oligarchico, combattendo senza quartiere le sue derive antropologiche, oppure nulla cambierà. Il modello della competizione sfrenata, del minor costo, degli esseri umani schiavi e concorrenti, rende tutti peggiori. Più feroci i predatori,  più individualiste, più disinteressate agli altri, disumanizzate anche le prede. Tutti, italiani e stranieri, cessiamo di essere brava gente e ci trasformiamo in esseri chiusi, violenti, lupi di noi stessi in continua competizione per disputarci le briciole del banchetto dei signori.

Che la terra sia lieve al povero Satnam Singh. Un mondo così è un dramma per tutti, perfino per il carnefice, in fondo un semplice caporale del sistema criminale e criminogeno a cui ha venduto l’anima. Aveva ragione Baudelaire: il più grande successo di Satana è averci fatto credere che non esiste.

Non si tratta di lavori che gli italiani non vogliono più fare come blatera Mentana. Si tratta di salari che non vogliamo più accettare. Nel 1987 una busta paga di 20 giorni per la stagione della raccolta e lavorazione dei pomodori era di 1.613.300 Lire, più di 2.200 euro netti di oggi. Quando dicono che seve più immigrazione, in realtà intendono che servono più schiavi.