Reddito di cittadinanza: l’errore di Auriti

di Andrea Cavalleri

Sollecitato dall’articolo dell’amico Blondet, vorrei offrire una chiarificazione teorica sull’argomento.

 

Che io sappia, l’allocuzione “reddito di cittadinanza” nasce in epoca moderna ne “Il paese dell’utopia” di Giacinto Auriti.

Il motivo per cui il professore Abruzzese lo propose (insieme all’abolizione delle tasse) fu che considerava il denaro ricchezza, pertanto lo Stato, stampando denaro, avrebbe prodotto tutta la ricchezza necessaria per tutti.

Questo svarione nasce dal fatto che Auriti accettò l’antiquata ed errata definizione del denaro come unità di misura del valore ed elaborò a riguardo la bislacca teoria del valore indotto della moneta.

Il valore tuttavia è soggettivo e non misurabile perché cambia in relazione alle situazioni personali e al contesto ed è quindi un parametro del tutto inadeguato per definire alcunché.

 

Per inciso va detto che l’Auriti non fu l’unico a cadere in questo errore di spiegare il denaro con una teoria del valore, ma anzi lo condivide con quasi tutte le scuole economiche moderne (marginalisti, liberisti della scuola austriaca…) solo che fu il più coerente nel trarne delle conseguenze estreme.

Silvio Gesell, soprattutto nel terzo libro del suo “Sistema economico a misura d’uomo” (1917) discutendo la natura del denaro, all’interno delle dispute tra metallisti e cartamonetisti allora di grande attualità, si fa beffe delle teorie del valore e le smonta completamente, anche se non propone una definizione alternativa.

 

Questo lo faccio io, da alcuni anni, proprio sulla scorta delle impeccabili analisi di Gesell sulla divisione del lavoro.

Egli rileva che facendo ciascuno una cosa sola e avendo bisogno di tutto, entra in questa dinamica: 1) cede tutto il proprio lavoro in cambio di una quota di denaro, 2) con il denaro ricevuto si appropria di una minuscola frazione del lavoro di tutti gli altri.

Allora, sostengo io, dato che l’entità del mio stipendio determina quanto del prodotto del lavoro altrui può diventare mio, il denaro esercita la funzione di unità di misura della proprietà.

 

Utilizzando questa definizione anche il discorso dei redditi, privati o di cittadinanza, diventa chiarissimo.

Il sistema attuale è impostato in modo tale che le persone per vivere siano obbligate a procurarsi del denaro, cioè dei titoli di proprietà in bianco che si trasformeranno in proprietà effettiva di beni e servizi necessari nel momento in cui verranno spesi . Poiché il modo più semplice e tranquillizzante per procurarsi del denaro è lavorare, le persone vengono in qualche modo costrette a lavorare e con ciò a produrre quella ricchezza che potrà essere comprata col denaro (senza ricchezza, cioè beni e servizi, il denaro non serve a niente).

I punti deboli di questo nostro sistema stanno nel fatto che è possibile procurarsi il denaro (unico obbligo imposto) anche in modi che non creano nessuna ricchezza: per eredità, assistenzialismo, usura, speculazione finanziaria, gioco d’azzardo, nonché furto e delinquenza. Inoltre, cosa a cui stiamo assistendo in questi tempi, la manipolazione di prezzi e dei salari, anziché realizzare una meritocrazia, porta a disincentivare dei lavori utili e indispensabili e a premiare quelli meno utili e più parassitari.

 

Se invece si utilizza un sistema che distribuisce i soldi a tutti, si ottiene una situazione simmetrica con problemi opposti.

Ovvero, se tutti hanno i soldi, chi è il fesso che lavora per creare i beni e servizi necessari? (Quando si arriva alla fame poi si inizia a litigare).

Se il denaro è un titolo virtuale di proprietà ci deve essere qualcosa da possedere e se non si crea niente non si può possedere niente.

In questo secondo sistema dunque si dovrebbe imporre l’obbligo di lavorare.

Per certi versi, questo sistema sarebbe molto simile al comunismo sovietico, con i noti deficit di meritocrazia, di demotivazione per il lavoro, e di elefantiasi burocratica.

Tuttavia, considerando soprattutto le rivoluzioni tecnologiche prodottesi nell’ultimo secolo, si potrebbero sfruttare delle opportunità finora poco considerate.

Mi riferisco al problema, sempre più attuale, delle accresciute capacità produttive e robotizzate dell’industria moderna, che riduce costantemente il bisogno di personale.

Grazie al reddito di cittadinanza e al lavoro prestato come corvée obbligatoria, sarebbe superato l’attuale impasse per cui un piccolo gruppo di lavoratori deve correre sudare e fare gli straordinari, mentre un crescente numero di disoccupati entra in regime di povertà.

Per quanto riguarda la meritocrazia vedo due categorie di situazioni: per i lavoratori generici, fissato un obiettivo minimo di produzione mensile nel giusto standard di qualità, l’incentivo consisterebbe nella crescita del tempo libero: prima finite il lavoro senza sbagliare e prima andate a casa, o a fare sport, o quello che volete. Finché non avete raggiunto il minimo o se ci sono scarti da rimpiazzare, state al lavoro.

Per le professioni di concetto o di qualità, il premio per chi lavora meglio potrebbe consistere nel ricoprire le mansioni che più gli piacciono, lasciando le più noiose ai meno bravi.

Ma c’è un altro aspetto del mondo contemporaneo che trarrebbe giovamento dal ribaltamento del sistema.

Mi riferisco ai crescenti problemi dell’ambiente naturale.

Dato che scaricare sostanze inquinanti nel suolo, nelle acque e nell’aria “costa meno” che depurarle o cambiare metodi produttivi, l’attuale sistema incentiva la distruzione dell’ambiente. La riprova la si ha nella prima economia industriale del pianeta, cioè in Cina, dove gli abitanti delle maggiori città non sanno più che colore abbiano il cielo, i prati e i fiumi, avvolti come sono da una cappa di fumo grigio, al punto che il governo ha eretto maxischermi che illustrano agli ignari cittadini come sarebbero queste cose: cieli azzurri, alberi verdi e acque chiare.

La dottrina liberista propone di attribuire titoli di proprietà  alle porzioni di territorio, in modo che i padroni abbiano il movente per tutelarli. Ma vediamo che emergono due ordini di problemi: da un lato un proprietario potrebbe accettare soldi per inquinare il terreno, tanto è”suo”. Dall’altro il controllo dell’acqua e dell’aria conferirebbe un potere di ricatto enorme ai possessori di questi che sono sempre stati considerati, e giustamente, beni comuni.

L’ordoliberismo, che più o meno si applica oggi, consiste nell’imporre delle regole di tutela dell’ambiente, che più o meno aiutano a preservarlo, mentre la bonifica o la riqualifica restano spesso “un costo insostenibile” (le virgolette perché si tratta di costo insostenibile in denaro, ma non in energia, lavoro, o altre risorse reali).

Lo stesso problema si applica ai metodi di coltivazione, biologica o chimica, tutti condizionati dalla convenienza calcolata in soldi che sovente si contrappone frontalmente alla convenienza in salute e benessere, tanto personale, quanto ambientale.

L’attribuzione del reddito, con obbligo di lavoro, ovviamente produrrebbe la piena occupazione (per legge!) e garantirebbe le risorse lavorative per affrontare le opere di risanamento ambientale.

 

Mi fermo qui, senza aprire il vaso di Pandora delle differenze di reddito, dell’imprenditoria e altre questioni sempre di tipo moraleggiante, che sono affrontabili al dettaglio previa lunghe disquisizioni tecniche che ora non interessano.

Invece rilevo e ammetto francamente, che un simile sistema sarebbe forzatamente molto più dirigista di quello attuale.

Però, visti i risultati del mercato negli ultimi tre secoli, direi che una consistente limitazione della sua libertà debba essere giudicata non con timore, ma piuttosto con sollievo, da parte dei cittadini.