“Londra ha scelto la speranza sulla paura!” si è estasiata Repubblica. “Il primo sindaco musulmano della capitale inglese, il 56,8% dei voti!”. E giù fiumi di verbosità sulla “integrazione”-modello di extracomunitari da cui dovremmo prendere esempio in Italia, “come insegna Francesco”.
Certo, certo. Ma l’avete sentito parlare, il neo-sindaco Sadiq Khan? Pochi secondi della sua allocuzione d’esordio, ed è chiaro: upper class.
Perché la lingua, in una nazione classista (del resto è quasi la sola monarchia rimasta) rivela immediatamente la classe sociale. La pronuncia. In Italia, uno si laurea alla Sapienza di Roma ed esce col suo accento dialettale che ha succhiato col latte di mamma – abbiamo avuto banchieri centrali con l’accento di Totò, avvocati di grido romaneschi, scienziati con la parlata bolognese o di Ciccio Ingrassia. Nei paesi anglosassoni, è impensabile. Persino in America – ‘democrazia” ferocemente classista se mai ce n’è – c’è la pronuncia Harvard, la pronuncia Yale, la bostoniana, che ti assegnano, appena apri bocca, al patriziato (e magari Skull & Bones). Nel Regno Unito ancor di più, ovviamente.
Quello del “primo sindaco musulmano” è l’eloquio e la pronuncia che si ascolta ad Eaton, nella Camera Alta, dei letterati, dei Tories, degli avvocati. Una mia antica fidanzata, infatti, per imparare quella pronuncia e quell’oratoria, passava le giornate all’Old Bailey ad ascoltare i processi, i dibattiti fra accusa e difesa, pieni di spirito e di idioms. E faceva benissimo, perché ‘quella’ pronuncia apre delle porte. Dei club, dei salotti buoni, del potere. E’ vero naturalmente anche il contrario: un accento ‘basso’, cockney, o da immigrato italiano, le porte le chiude. Con quelle pronunce, puoi diventare cuoco e designer, financo capitano del Chelsea; molti dirigenti di Scotland Yard parlano cockney; più in alto, non si va. Non dove agisce il potere vero, lo speciale stato profondo britannico con le sue regole non scritte e le forme sottintese. Là è semplicemente impensabile che il banchiere centrale, o ancor meno il capo dell’MI5, abbia mai l’accento dell’omologo di Checco Zalone.
Con ciò, non intendo sminuire l’esempio di integrazione che l’elezione a Londra del “primo sindaco musulmano” da parte di oltre 13, milioni di votanti ci offre; anzi al contrario: sarebbe bellissimo se noi italiani fossimo capaci di integrare così negri africani e ‘profughi’ siriani, afghani, pakistani; ma non siamo in grado, ed è per questa incapacità che l’inondazione di immigrati sarà per noi gravemente difettosa, e alla fine rovinosa e degradante.
Chiedete “come”? Per favore: non vedete che la letteratura inglese contemporanea è opera di gente delle colonie e dei dominions? Hanif Kureishi, Salman Rushdie, Arundhati Roy, Kazuo Ishiguro, il grandissimo Shiva Naipaul: romanzieri, drammaturghi, inviati speciali di grande finezza e profondità, sceneggiatori, che siano nati in Pakistan o a Trinidad da genitori indù, scrivono in inglese: e che inglese. L’inglese magistrale, nelle finezze dei suoi registri doppi – sassone e neolatino – nelle ironie e malinconie, di chi è imbevuto, nato e cresciuto con Donne e con Shakespeare e l’ha nel sangue. E non dimentico gli attori scespiriani di pelle olivastra. Se, senza vederlo senti parlare Ben Kinsley, subito pensi, come per il sindaco Khan: upper class.
Perché quel linguaggio, con quell’accento, si impara – si deve imparare per recitare Calibano o Polonio – e loro, anglo-indiani o nigeriani, hanno voluto impararlo. Hanno “lavorato sulla loro pronuncia”, per diventare degni di avere una parte Riccardo III. In Italia, il solo attore che, a memoria d’uomo, abbia “lavorato sulla sua parlata” è stato Vittorio Gassman, e nell’ambiente lo ricordano come un esempio di forza di volontà da ammirare (“un tedesco”) e da deridere sotto i baffi (“a fanatico!”, in romanesco). Qui a Milano, al Piccolo Teatro, ridanno l’ennesima replica di “L’opera da tre soldi” di Brecht (un obbligo del cialtronume ‘intellettuale’ di sinistra); l’altro giorno una spettatrice confessava ad un’amica di essersi non solo annoiata, ma di essere urtata dal fatto che il protagonista avesse accento napoletano. Attori italiani che “non lavorano sulla pronuncia” rivelano fin troppo della loro essenza: dilettantismo e provincialismo. Possono fare solo “commedia all’italiana” ed hanno un solo registro, il comico fescennino.
La lingua è la prima Istituzione
No, non sto uscendo dal tema. Roma, la grande integratrice di genti diverse (Mommsen definì la politica romana “un vasto sistema di incorporazione”) fino ad estendere la cittadinanza, sotto Caracalla, a tutti gli abitanti dell’impero, integrò i diversi sì, ma nel proprio sistema di istituzioni, ossia alle proprie condizioni esigenti. Ora, la lingua è appunto una istituzione; e pubblica, come dimostra il fatto che la sua vigenza è obbligatoria entro i confini dello Stato, nel pubblico insegnamento, nei tribunali. Anzi, è l’istituzione fondamentale, che raccorda ed articola le altre; la trovate lì quando nascete; non siete stata voi a inventarla; l’avete ricevuta dal fondo della storia nazionale, è il raccordo che unisce la generazione presente alle molte generazioni del passato, caricata di tutta la cultura, i caratteri psicologici, anche le scorie mentali, che compongono la vostra “identità” nazionale, nel bene e nel male, distinta dalle altre.
Ora, gli attori che recitano un testo internazionale senza curarsi di correggere il loro accento vernacolare, bastano a rivelare come noi italiani trattiamo le nostre istituzioni, con quale stracca, plebea mancanza di rispetto e di rigore; non siamo esigenti con esse, e quindi con noi stessi. Gli inglesi sono aiutati dal fatto che il loro scrittore “di fondazione”, il loro Dante Alighieri, fu un teatrante, e di grande successo – ossia popolare; che viene continuamente rappresentato, nonostante la difficoltà dell’antichità linguistica, con le sue fioriture rinascimentali. Ma è commovente, benché un po’ comico, vedere come un attore italo-americano, Al Pacino, si sia sforzato di produrre nel cinema Riccardo Terzo o Il Mercante di Venezia, cercando di essere scespiriano. Ovviamente a chi si imbeve della lingua fino a farla propria e nativa, l‘inglese trasferisce la mentalità dell’impero – non a caso oggi mantenutosi come impero della Mente. Sarebbe “musulmano” Salman Rushdie? Quanto basta per essere fulminato da una fatwa per bestemmia. Sull’India e l’hindutva, Shiva Naipaul ha scritto libri e reportages abrasivi – basta citarne alcuni titoli, “An Area of Darkness”, “A Wounded Civilization” – che sono condanne della società indiana com’è, del suo particolarismo e falso spiritualismo, della sua occulta violenza: è chiaro che il metro sui cui confronta le civiltà e culture altre, è la britannica.
Non sono colto da anglofilia, non sto dicendo che quelle istituzioni “sono” migliori. Quello che importa, per integrare genti straniere, nate in diversi sistemi mentali di valori, non occorre che istituzioni siano superiori; basta che siano solide. Quelle romane, al disotto della guerra civile permanente che portò alla fine della repubblica, lo furono: le Dodici Tavole, che prevedevano lo squartamento del debitore, non furono mai abrogato. Restarono inapplicate, come la Costituzione arcaica a cui i giuristi facevano riferimento sacrale.
Sulla solidità delle istituzioni inglesi non serve dilungarsi. E’ bastato vedere la simpatia con cui il popolo ha celebrato i novant’anni di una regina palesemente sprezzante della plebe; peggio, la donna che può aver persino autorizzato (all’MI5) l’assassinio di quella nuora così inferiore da farsi mettere incinta da un bottegaio egiziano, che se non fosse morta nel tunnel dell’Alma avrebbe dato al futuro re dell’United Kingdom un imbarazzante fratello coloured. Anche questo delitto, se c’è stato, dimostra solo che sì, le istituzioni inglesi sono solide. Solidissime. Nessuno le viola impunemente: specie quelle non scritte.
Durano da secoli, tutte, anche le peggiori, come la pedofilia nobiliare rispettosamente coperta da Scotland Yard e ignorata con tenace omertà dall’opposizione laborista (“di Sua Maestà”) piena, a parole, di repubblicani. Quanto alle migliori, ai piani bassi accessibili a un turista italiano, è come gli si insegna a mettersi in fila nel salire sul bus rosso. Non c’è alla fermata alcuna scritta che imponga: “Mettersi in coda a norma del decreto XX dell’anno WZ”. Ma sono gli inglesi stessi che attendono il bus ad “insegnare” all’italiano che, se prova a fare il mucchio selvaggio all’assalto del predellino, ha violato una istituzione. Non scritta, ovviamente.
Per contro, l’immigrato in Italia trova una quantità di divieti e di permessi minuziosamente descritti per legge. Quanti, nessuno lo sa esattamente: secondo i calcoli più probabili, le leggi italiote sono oltre 150 mila. Venti-trenta volte di più, poniamo, delle leggi in vigore in Francia (7 mila) e Germania (5 mila). Scopre subito, essendo l’immigrato vispo per selezione darwiniana (è sopravvissuto alle “istituzioni” di Daesh o del dittatore eritreo), che in Italia le leggi sono tante proprio per poter essere aggirate. Le prime lezioni le ottiene dalla Caritas o dalle assistenti sociali dei centri d’accoglienza, le quali, invece di agire come “rappresentanti dello Stato”, gli insegnano i primi “inghippi”: ti hanno respinto la domanda di asilo? E tu fa’ ricorso, così resti qui altri mesi ed anni. Non sai come si fa? Te la scfriviamo noi. Siamo pratici.
Siamo corrotti dalle istituzioni
Insomma l’immigrato trova, oltre le braccia aperte della “accoglienza senza limiti” delle sinistre, della Caritas e del Papa uniti nell’umanitarismo catto-globalista, che quelli che dovrebbero rispettare le leggi, ti insegnano a scavalcarle. Presto constaterà che persino la magistratura disprezza le istituzioni, a cominciare dalla sua – l’ordine giudiziario – di cui vilipende il prestigio e la maestà usandola nella lotta politica, di preferenza sovversiva, contro gli altri due poteri. Musulmano, trova una “accoglienza” cattolica così materna che non gli chiede niente per meritarla; basta che si accomodi a far niente, mantenuto e anche con la palestra per il fitness, mentre il suo ricorso è deciso. Campa cavallo: effetto collaterale delle 150 mila leggi in proliferante aumento canceroso, gli italiani affollano i tribunali più di quanto facciano francesi, spagnoli, tedeschi, austriaci messi insieme. Litigano incessantemente tra vicini, tra condomini, fra circolanti in strada; lavoratori pubblici licenziati per fancazzismo contro-denunciano il sindaco perché per sostituirli ha preso dei lavoratori temporanei (è successo a Livorno); e il giudice “investito dell’indagine” che fa? Invece di sbatter fuori dall’aula gli avvocati, manda “l’avviso di garanzia” – e il sindaco diventa immediatamente un imputato dilaniato dall’opposizione politica. Mi è stato persino raccontato il caso reale di una lite condominiale in cui un condomino ha preso le difese della portinaia licenziata dall’assemblea, controdenunciando gli altri condomini, e trascinando le cause (civili e penali) per anni, a spese sue, danneggiando infine il condominio di cui fa’ parte, che ha dovuto risarcire la licenziata con 25 mila euro: dunque anche se stesso. Perché? Non chiedetelo: in Italia, il concetto di “condominio” esclude per principio il concetto di “razionalità”.
Le nostre “istituzioni di accoglienza immigrati” son di pari irrazionalità, visto che funzionano la prima scuola di dis-educazione civica, il primo centro di addestramento al dispregio delle istituzioni. Tanto, dice il sistema italiota strizzando l’occhiolino, questi immigrati sono qui di passaggio, vogliono andare n Germania, mica restare da noi (e chi sarebbe così masochista?); quindi l’ente collettivo Italia, i governanti che pure hanno accettato “Schengen”, accettando di esser il paese di prima accoglienza, poi cercano di aiutare i negri e i ‘siriani’ a scavalcare i confini; avrebbero dovuto non firmare “Schengen”, non dare l’assenso a quella istituzione assurda fatta – come quasi tutte le altre della UE – a nostro danno. Invece, ancora una volta, ha vinto la mentalità vernacolare: si ratifica, e poi la si aggira, come si fa’ in Italia. Poi eleviamo la protesta dettata dalla nostra misericordia e compassione s e l’Austria (che ci conosce bene) fa’ i controlli al Brennero; arrivano i Black Bloc, interviene la lezione di “Francesco”…
Non credo nemmeno un attimo che noi italiani siamo corrotti per natura. E’ così evidente il motivo: noi siamo corrotti dalle nostre istituzioni. In un tal proliferare di leggi scritte (Roma, nel millennio dalla cacciata di re Tarquinio fino a Romolo Augustolo, emanò circa 500 leggi scritte), non solo ci si deve barcamenare per sfuggirle, ma esse han finito per cancellare nelle coscienze le leggi non scritte, quelle che vengono altrove difese dal senso comune di dignità, vergogna di violarle, ritegno, magari carità di patria; dall’amore – poniamo – per Dante Alighieri e Leopardi. Io vorrei che i profughi fossero integrati fino a fare dei loro figli nelle nostre scuole degli amanti di Dante, dei lettori di Leopardi, degli appassionati di Ariosto, dei latinisti da premio.
Ma naturalmente abbiamo mai visto un politico amante di Dante? Un attore capace di pronunciare Leopardi senza accento? Siamo i primi a non aver rispetto delle istituzioni che ci appartengono, della civiltà che abbiamo formato – e che indusse i contemporanei di Shakespeare di riempire la lingua sassone, originariamente un abbaiare canino di monosillabi (dark, far) di polisillabi italiani (distant, obscure) come registro alto, spirituale.
L’ultima istituzione veramente importante, la Chiesa, ha abbandonato il latino, la liturgia e il suo rigore per le stracche messe sbattute lì. Dove si può appigliare, ormai, una esigenza fatta agli immigrati, che ci rispettino come cristiani, italiani, depositari della lingua di Tasso e Manzoni? Siamo noi i primi ad odiali. Temo tanto che il terrorista islamico nerovestito che mi taglierà la gola, alzando la bandiera del Profeta, mi apostroferà così: “Varvaianne, pe’ tte è furnita!” (in napoletano nel testo).