FEDE CATTOLICA E SCIENZA MONETARIA
Nella prospettiva della Trascendenza spirituale per contribuire al superamento di dannose concezioni arcaiche in tema di moneta
terza parte
Liberalizzazione finanziaria, crisi economica e salvataggi senza sanzioni
Come si diceva, alla fine degli anni ’90, nel clima di euforia da “fine della storia” seguito alla caduta del muro di Berlino ed all’incipiente globalizzazione, tutta la legislazione che negli anni successivi al 1929 fu promulgata, sulla scia del Glass-Steagall Act che di quella legislazione fu solo il primo atto, per impedire alla finanza di diventare autoreferenziale, venne abrogata in nome delle “liberalizzazioni” e delle “privatizzazioni”. La banca doveva tornare ad essere “universale” nelle sue attività, senza più separazione tra attività di credito a sostegno dell’economia reale ed attività di pura speculazione. E’ stato così che le banche, anche quelle “popolari”, furono autorizzate a rifilare alla clientela pericolosi prodotti finanziari spazzatura, dai “tango bond” argentini fino ai mutui “sub prime” ed alle “obbligazioni subordinate” di oggi, con le tragiche conseguenze globali che abbiamo avuto modo di vedere a partire dal 2007.
Dato che ad immoralità si aggiunge sempre immoralità, i governi, dopo il fallimento della statunitense Lehman Brothers, non hanno trovato di meglio che salvare le banche speculatrici con i fondi dell’erario pubblico ossia con il denaro pubblico senza però, come accadeva in precedenza, punire anche penalmente i responsabili dei default e soprattutto nazionalizzare le banche sottoponendole a rigide riforme prima di eventualmente, ma non obbligatoriamente, restituirle ai privati, non gli stessi che le avevano fatte fallire, attraverso procedure ad evidenza pubbliche che ponessero a base di gara il valore attuale, post risanamento, degli istituti di credito salvati, in modo da chiudere l’operazione in pareggio o in attivo per il bilancio pubblico. I salvataggi bancari degli ultimi anni non solo sono stati realizzati, come è logico in un clima di egemonia culturale favorevole alla speculazione, senza quelle che dovevano essere le loro conseguenze naturali, ad iniziare, come detto, dalla nazionalizzazione dell’attività finanziaria e di credito, in forma di acquisto da parte dello Stato delle banche decotte al loro effettivo costo ossia quasi zero o addirittura in forma di vera e propria espropriazione autoritaria per manifesta incapacità gestionale privata, ma sono state realizzate contravvenendo, però in modo truffaldino come si è visto, al dogma della intangibilità sacrale del libero mercato e della sua supposta autoregolazione. Infatti secondo le mitologie liberiste, per rispettare il “dogma”, nessun salvataggio pubblico delle banche sarebbe dovuto intervenire. Ma proprio la crisi del 2007, come già quella del 1929, ha dimostrato che il dogma liberista dell’autoregolazione dei mercati è, appunto, solo una mitologia perché nella realtà non esiste un pubblico contrapposto al privato, e viceversa, sicché il fallimento del sistema bancario avrebbe significato la rovina delle economie di intere nazioni. La questione era che a tale situazione, soprattutto dopo l’esperienza storica del 1929 che aveva molto insegnato alle generazioni dei nostri nonni e padri, non si doveva di nuovo arrivare inseguendo, dagli anni ’80 in poi, i miti liberisti della deregolamentazione dei mercati finanziari.
La vera causa della crisi del 2007 come di quella del 1929 è stata l’eccesso di debito privato (non di quello pubblico). Debito privato divenuto, grazie alla deregolamentazione del settore finanziario, inesigibile. Quando il problema, con i sub prime americani, è affiorato in superficie alle sofferenze del sistema bancario transnazionale è stato posto rimedio mediante il salvataggio pubblico, senza nazionalizzazione o riforme del sistema bancario, delle grandi banche in difficoltà. Il media system, eseguendo precise direttive, si è immediatamente speso per convincere gli ignari cittadini che il responsabile della crisi fosse il debito pubblico, in modo da convincere i popoli ad accettare i programmi ordoliberali tedeschi di austerità. In realtà, come riscontrato delle statistiche, negli anni precedenti alla crisi attuale il debito pubblico era in graduale e costante rientro anche nei Paesi euromediterranei. Esso è tornato ad aumentare esponenzialmente a seguito delle politiche di austerità ed a causa dei salvataggi bancari senza contropartite di nazionalizzazioni e di riforma in senso pubblicistico del settore finanziario. Il nuovo esponenziale aumento del debito pubblico non serviva più, però, a dare più servizi ai cittadini, anzi i servizi pubblici sono in via di privatizzazione con soppressione degli enti come le Province che provvedevano ad erogarli, ma per salvare strozzini e speculatori.
Liberalizzato il mercato finanziario ed adottata la moneta unica europea, le banche francesi e tedesche, al fine di consentire con il credito facile ai greci, italiani, spagnoli, portoghesi, di comprare le merci francesi e tedesche, quando nel 2009 è emersa chiaramente la situazione di inesigibilità dei debiti privati contratti dagli euromediterranei, si sono ritrovate esposte in modo impressionante in particolare verso la Grecia, avendo esse, appunto per vent’anni, finanziato il debito privato euromediterraneo. Il fine prioritario della moneta unica, che ha consentito di abbattere il rischio del cambio, è stato esattamente quello di consentire al sistema bancario franco-tedesco di sostenere le esportazioni delle rispettive economie nazionali verso i mercati del sud Europa adoperandosi a mettere a disposizione degli acquirenti il credito facile necessario a comprare prodotti tedeschi e francesi. A Bruxelles tutti sapevano che il bilancio pubblico greco era stato falsato, con spericolate operazioni di camuffamento mediante i derivati grazie alla costosa consulenza di Goldman Sach, allo scopo di renderlo apparentemente compatibile con i criteri stabiliti a Maastricht, eppure questo non ha impedito l’ingresso della Grecia nell’euro esattamente perché essa era uno dei più proficui mercati di sbocco a credito delle merci tedesche.
Per l’Italia la questione era diversa. Il nostro Paese non è una nazione deindustrializzata come la Grecia e il suo debito pubblico, nonostante fosse relativamente più alto rispetto ai parametri di Maastricht, non era affatto incontrollabile nel 2002. L’applicazione rigida del dettato di Maastricht non avrebbe permesso neanche all’Italia l’ingresso nella moneta unica (e magari ora non saremmo messi così male come siamo) e tuttavia la confindustria tedesca fece una incredibile pressione affinché si chiudesse un occhio sul “trucchetto” usato da Romano Prodi per far quadrare il nostro bilancio pubblico, ossia – ve la ricordato, vero? – la “tassa per l’Europa”. Le pressioni degli industriali tedeschi, unite a quelle della destra liberal-nazional-conservatrice germanica, ebbero la meglio e l’Italia entrò nella moneta unica. Così facendo gli imprenditori tedeschi ottennero di sottoporre il loro più temibile concorrente, sui mercati internazionali ed europei, ossia l’Italia, al “vincolo esterno” di una moneta unica, non più controllata dallo Stato italiano, che rappresenta la forma più rigida di cambio fisso. In tal modo l’Italia non poteva più rispondere con la svalutazione monetaria, onde evitare la svalutazione salariale, al dumping dei bassi salari praticati dalla Germania, con l’accordo dei sindacati tedeschi che sempre in linea con gli interessi nazionali accettarono le cosiddette riforme Hartz le quali prevedono di finalizzare al parziale recupero della deflazione salariale contrattuale il salario di produttività ossia di legare gli aumenti salariali esclusivamente all’andamento dell’azienda e non più anche al tasso di inflazione.
Tutti, dunque, sapevano del trucco contabile greco, ad iniziare dalla austera e severa Germania, ma non bisognava dirlo altrimenti il flusso di denaro bancario facile che da Parigi e, soprattutto, Berlino partiva alla volta di Atene per sostenere l’export franco-tedesco sarebbe andato a farsi benedire. Allo stesso modo, le banche francesi e tedesche cooperarono alla bolla speculativa del boom edilizio, dunque privato, della Spagna di Zapatero, additata ad esempio di efficienza economica dalla sinistra europea sempre più idiotizzata.
Poi però, quando il giocattolo si è rotto, l’eurocrazia monetarista ha inventato prima l’Efsm e poi l’Esm, chiamando “fondo salva Stati” una operazione di salvataggio delle banche francesi e tedesche mediante la rilevazione da parte degli Stati delle esposizioni bancarie private ossia pubblicizzandole ovvero ponendole a carico dei bilanci pubblici degli Stati dell’eurozona. Il debito privato veniva così trasformato in debito pubblico mentre la Troika imponeva austerità e tagli di spesa pubblica ai popoli per salvare il deretano degli speculatori. Tutto questo è potuto accadere proprio perché il primato etico della Politica è stato messo in cantina dalla visione ordoliberale imperante nell’UE: per detta visione basta la sola “mano invisibile” del mercato a tutto ben aggiustare. E poco importa se i grandi nomi degli studiosi di detto indirizzo ordoliberale, la Scuola di Friburgo, non pensavano esattamente a questo tipo di ordoliberalismo, perché nella pratica le loro idee sono state distorte anche quando magari avevano spunti di intelligente verità. Come, ad esempio, la sollecitazione di Alfred Müller-Armack, il più “interventista” tra gli economisti ordoliberali (non a caso era considerato un semi-keynesiano da von Hayek), agli Stati in surplus commerciale-finanziario della propria bilancia dei pagamenti a sostenere le esportazioni dei Paesi in deficit commerciale-finanziario attraverso la spesa del surplus per acquistare le esportazioni degli Stati in deficit in modo da aiutarli “secondo una logica di mercato” nella prospettiva del futuro mercato unico. Certo l’economista tedesco chiedeva solo che sui governi ci fosse solo una azione di moral suasion affinché essi ponessero la “cornice istituzionale” per consentire il riequilibrio delle bilance dei pagamenti tra Stati in surplus e Stati in deficit, senza dunque organismi autoritativi sul modello del Fmi basato però su una moneta internazionale (il bancor) come voleva nel 1994 Keynes (senza spuntarla sugli americani che imposero un Fmi basato sul dollaro come moneta internazionale), ma è evidente che tanto Alfred Muller-Arnack che John Maynard Keynes mirassero, con le loro proposte, allo stesso legittimo obiettivo ossia impedire la formazione delle posizioni asimmetriche di squilibrio alle quali inevitabilmente conduce il mercato lasciato libero. Al contrario, la Germania di Angela Merkel, che all’interno ha praticato l’ordoliberalismo della Scuola friburghese anche con provvidenze sociali come il reddito minimo garantito per i disoccupati, all’esterno ha invece dimenticato del tutto, onde assicurare alla Germania dietro la cortina dell’Unione Europea la sua egemonia sui concorrenti, gli inviti morali al riequilibrio delle bilance dei pagamenti tra gli Stati.
Bail-in: è vera virtù?
Dopo aver salvato a “buon prezzo” le banche speculatrici e senza sanzioni esemplari per i responsabili dei default, l’Eurocrazia è riuscita a rifilare ai popoli la nuova normativa detta “bail-in” facendola passare per un rimedio necessario ad evitare per il futuro salvataggi a spese dei bilanci pubblci. La nuova normativa eurocratica pone i costi dei salvataggi bancari sugli azionisti, sugli obbligazionisti e, quindi, in terza istanza, laddove occorresse, sugli stessi correntisti, per la quota superiore ai 100mila euro dei loro depositi. In tal modo, dicono gli eurocrati, non ci saranno più salvataggi con denaro pubblico e si eviterà, togliendo loro la certezza dell’intervento pubblico, da parte di imprenditori e banchieri fraudolenti l’“azzardo morale”. In realtà la veste etica di questa normativa sottende una chiara e precisa concezione mercantilista. Una concezione del tutto sfavorevole all’ipotesi di sistemi nazionali di economia controllata e diretta da una forte Autorità politica, che in caso di default, sia chiamata a sanzionare i responsabili, anche mediante sanzioni penali o espropriative, facendo ad essi pagare il conto oppure nazionalizzando le imprese mal gestite per trattenerle in proprietà dello Stato o, anche, per successivamente, ma non obbligatoriamente, rimetterle sul mercato ma a prezzo reale, compresi i costi del salvataggio, recuperando quanto sborsato per il salvataggio e magari procurando persino un attivo per le casse pubbliche.
C’è inoltre un altro pericoloso aspetto sotteso alla normativa del bail-in che riguarda da vicino tutti noi. Quando apriremo il nostro conto corrente presso una banca saremo ritenuti gli unici responsabili della nostra scelta, che in caso di fallimento bancario ci priverà almeno in parte dei nostri depositi. Per il momento quella superiore ai 100mila euro – fin qui potremmo dire che la cosa riguarda solo i ricconi anche se non dovremmo dimenticare che depositi di tal fatta sono generalmente quelli delle imprese e che così i fallimenti bancari si ripercuoteranno sulla produzione e sull’occupazione – ma nessuno garantisce che in futuro detto limite non sarà abbassato. Saremmo pertanto considerati unici responsabili delle nostre scelte anche laddove, in banca, ci rifilassero titoli spazzatura.
Non a caso, a seguito del fallimento delle quattro banchette popolari italiane nello scroso mese di novembre, si è aperto il problema della tutela dei risparmiatori truffati dal management bancario criminale. L’UE, la stessa che nei recentissimi anni ha consentito il salvataggio pubblico, mediante l’Esm e quindi anche con il notevole contributo dell’erario italiano, delle grandi banche speculatrici francesi e tedesche, ma anche di quelle spagnole, portoghesi, greche e belghe, ha vietato al nostro governo, in nome del bail-in (anche se detta normativa entrava in vigore solo dal 1° gennaio 2016), di salvare le quattro popolari mediante il ricorso al fondo interbancario, che gli eurocrati considerano “aiuto di Stato” ossia, nella concezione ordoliberale, un gravissimo peccato. Il Bail-in è stato progettato a Bruxelles mentre Germania, Francia, Spagna ed altri salvavano le loro banche e risarcivano i depositanti truffati con denaro pubblico nazionale o quello europeo dell’Esm, quinid compreso il denaro pubblico italiano. Da noi invece l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) con l’aiuto dei media e di un governo i cui esponenti sono proni, per via parentale (il ministro Maria Elena Boschi) o per via amicale (lo stesso Matteo Renzi con i suoi amici finanzieri che gli pagano le Leopolde) al potere finanziario, spargeva altisonanti rassicurazioni sulla solidità delle banche italiane. Questa favoletta raccontata ogni giorno dai media ha impedito di intervenire prima per usare gli strumenti di salvataggio usati dagli altri partner europei. Tra i quali, ora, la solita Germania bacchettona, cui l’UE concede puntualmente tutto quanto vieta a noi, ci rimprovera di non avere per cultura la sua “etica luterana”, ossia austera, e di aver nostalgia per i salvataggi pubblici. Quelli stessi che, però, la Germania, anche con i nostri soldi, ha praticato esattamente fino a ieri salvando le proprie banche a rischio default per l’insolvibilità pubblica e privata della Grecia. Stando ai nostri media la Germania è virtuosa mentre noi siamo colpevoli e poco produttivi. La questione è che l’Italia è una non-nazione abituata ormai da secoli a fare il mea culpa per non aver avuto la “Riforma luterana” ma la “Controriforma cattolica” – i nostri patrioti liberali risorgimentali hanno preteso infatti, con i risultati di debolezza nazionale che ora constatiamo, di fare l’unità nazionale protestantizzando gli italiani ossia contro le stesse radici religiose ed identitarie del popolo che si pretendeva unificare – disposta a piangersi addosso struggendosi per esterofilia verso i modelli stranieri in particolare se si tratta di quelli nordici o anglosassoni, comunque protestanti.
L’Eurogermania, con il bail-in, vuole in sostanza che ciascun cittadino si trasformi in un esperto di finanza, capace di saper leggere correntemente e correttamente i bilanci bancari e di valutare la solidità degli istituti di Credito, e quindi di addossare al singolo la responsabilità della scelta, oculata o poco avveduta, della propria banca e soprattutto dell’eventuale mala gestio e del comportamento spericolato nell’uso speculativo dei depositi da parte del management bancario. Sicché chi perderà il proprio denaro non potrà imputarne a nessuno, se non a sé stesso, la colpa.
Già da mesi, nei dibattiti mediatici, si dice che gli italiani non hanno sufficiente “cultura finanziaria” e che pertanto vi devono essere al più presto educati: un modo per convincere la gente della bontà del “bail-in” senza renderla al contempo consapevole del rovescio della medaglia. Dal 1° gennaio di quest’anno, ciascuno di noi sarà responsabile della scelta della propria banca perché la nuova normativa eurocratica ci presume tutti, in astratto, esperti di contabilità bancaria anche se nei fatti la maggior parte di noi ha difficoltà persino a leggere la bolletta della luce che ci arriva a casa. La nostra situazione, con il 2016, sarà paragonabile a quella di chi, dovendosi sottoporre ad un intervento chirurgico, è chiamato a valutare, sotto la sua esclusiva responsabilità in modo da non dolersene successivamente, le capacità e le competenze del chirurgo cui si affida, pur non avendo mai in vita sua studiato medicina e pur non essendo in grado di capire nulla di diagnosi e terapie più di quanto riesce a comprendere leggendo il suo domestico “dizionario medico”.
Sul bail-in, sulla visione ideologica ad esso sottesa e sulle altre possibili visioni torneremo, più approfonditamente, in un prossimo articolo. Ad iniziare dal fatto che si tratta di una normativa che chiaramente incentiverà le concentrazioni bancarie, quindi il rafforzamento del potere apolide della finanza globale, dal momento che i cittadini, spaventati dal carico di responsabilità che è ora addossato su di loro, diffideranno delle piccole banche, ritenute poco solide, e affideranno i propri risparmi alle grandi mega-banche, quelle “esperte” nel “remunerare” quei risparmi giocandoli nel gran casinò mondiale del mercato, legale o extralegale, dei derivati, con tutti i rischi annessi e connessi.
Demercificazione della moneta ed inutilità del ritorno alla base aurea
La teoria austriaca – come abbiamo visto – ritiene causa dell’inflazione la quantità eccessiva di moneta legale in circolazione. La “teoria quantitativa della moneta”, la teoria classica sposata dagli economisti liberisti, a partire da Adam Smith, considera la moneta una merce. Ma, come si è detto, attualmente a causa della tendenza alla virtualizzazione e demercificazione della moneta (che oggi non è più una merce, ammesso e non concesso che in passato lo sia stata) non è più possibile dare troppo credito ad una concezione quantitativistica. Secondo la teoria quantitativa aumentare la massa monetaria induce, appunto, aumento dei prezzi a causa della svalutazione della moneta, del suo potere d’acquisto, e quindi induce inflazione ossia, tecnicamente, l’aumento del livello dei prezzi. La tesi monetarista segue lo stesso schema essendo sostanzialmente un mero aggiornamento, dopo la rivoluzione keynesiana, delle tesi classiche dei viennesi. Il monetarismo approfittò, per imporsi, delle difficoltà che il keynesismo incontrò a patire negli anni ’70 ossia della contemporanea compresenza di un’alta inflazione e di un’alta disoccupazione. Secondo la teoria di Keynes, supportata da una lettura pre-friedmaniana della curva di Phillips, inflazione e disoccupazione non avrebbero potuto darsi insieme. L’evento fino a quel momento inedito, all’epoca chiamato “stagflazione”, fu, a suo tempo, causato dall’aumento inusitato del prezzo del greggio e quindi dei costi di produzione che si riverberarono sui prezzi finali dei prodotti. Si trattava, pertanto, di inflazione da costi e non da eccesso di massa monetaria.
Questo, oggi, gli storici dell’economia lo hanno acclarato ma all’epoca la responsabilità della stagflazione fu imputata, sulla scorta delle idee neoliberiste di Milton Friedman, alle politiche keynesiane della spesa pubblica e degli alti salari. Non che queste politiche non abbiano prodotto anche distorsioni ma le produssero nella misura in cui esse pervertirono le autentiche proposte di Keynes, il quale, solo per fare un esempio, indicava nella spesa pubblica di investimento, e non in quella corrente, lo strumento principale per sostenere il mercato nelle fasi normali e per impedirne la contrazione deflazionista in quelle di crisi. Un ordoliberale “interventista” come Alfred Müller-Armack non era lontano da similari concezioni anche se additava come unico legittimo il solo “intervento conforme al mercato” e quale esempio indicava il sistema dei trasferimenti monetari pubblici, mediante voucher o buoni spesa erogati dallo Stato a favore dei cittadini lasciando questi ultimi liberi di spendere quei buoni presso l’erogatore, pubblico o privato, dei servizi. Ad una idea simile si è ispirato il governo di Matteo Renzi con gli ’80 euro sulle buste paghe o in precedenza Giulio Tremonti con la social card per le persone in difficoltà. Tuttavia, il sistema dei trasferimenti monetari non garantisce affatto, come analogamente non garantisce la riduzione del peso fiscale, che poi i cittadini spendano effettivamente le somme loro erogate, soprattutto quando nei periodi di crisi prevale la paura del futuro e con essa la tendenza a tesaureggiare, quella che Keynes chiamava “preferenza per la liquidità” ossia a mantenere presso di sé il risparmio e non destinarlo agli investimenti. Solo la spesa diretta dello Stato garantisce che il fine di sostegno alla domanda sia conseguito.
Come detto, Keynes indicava quale strumento deputato al sostegno della domanda la spesa pubblica di investimento. Tuttavia è onesto riconoscere che i governi, per motivi elettoralistici, sono sovente tentati di aumentare a dismisura la spesa pubblica corrente, quella necessaria per i costi dell’apparato amministrativo, perfino riducendo quella di investimento. In un’ottica di sano keynesismo, che in questo coincide in parte con l’esigenza regolativa dell’ordoliberalismo, necessita quindi di porre il quadro istituzionale nel quale i governi possono e devono far ricorso al deficit spending solo per finanziare, prevalentemente, la spesa di investimento, senza timori sacrali per il pareggio di bilancio, con copertura fiscale successiva o, meglio, con copertura a debito nei confronti, sul mercato primario, della Banca centrale nazionalizzata (in modo da rendere quel debito fittizio per coincidenza, anche patrimoniale, tra lo Stato debitore e la Banca centrale creditrice). Dichiarare, invece, il keynesismo fallito o responsabile della stagflazione, per il solo fatto dell’“azzardo morale” dei governi, è in realtà un passo troppo lungo sotto il profilo storico e senza prove effettive sotto il profilo teoretico e quello pratico.
La critica di Nicholas Kaldor e degli altri economisti post-keynesiani al monetarismo ha dimostrato errati i presupposti della teoria quantitativa. Controllare la massa monetaria intesa come moneta legale – quella emessa dalla Banca centrale – non impedisce, di per sé, l’aumento della massa monetaria complessiva che è invece causato dal ricorso di famiglie ed imprese ai prestiti bancari, ossia alla quasi-moneta bancaria creata ex nihilo dalle banche. I prestiti bancari, nell’economia moderna, precedono, non seguono, i prestiti così come gli investimenti precedono e non seguono i risparmi. Come già aveva intuito lo stesso Keynes. La “teoria endogena della moneta” è oggi accettata come la più corrispondente all’effettivo funzionamento dell’economia monetaria moderna. Ma se le così stanno così, l’inflazione non dipende dall’aumento della massa monetaria che piuttosto segue agli aumenti dei prezzi. E’ l’aumento dei prezzi a “tirare” più moneta, in forma di moneta bancaria, anche quando l’Autorità monetaria praticasse una politica restrittiva contraendo la quantità di moneta legale. Fu questo il motivo per il quale i tentativi effettuati dalla Thatcher e da Reagan di “monetary targeting”, ossia di fissare un limite alla quantità di moneta legale, nell’illusione di controllare tutta la massa monetaria e quindi l’inflazione, fallirono miseramente, smentendo sperimentalmente sia la teoria quantitativa della moneta sia il monetarismo di Milton Friedman. L’inflazione degli anni ’70, infatti, diminuì solo quando il prezzo delle materie prime, ad iniziare dal greggio, ebbe una flessione nel successivo decennio. Ma questo accadde indipendentemente dai tentativi di restringere la base monetaria legale. Alle Autorità monetarie non è possibile, se non in modo relativo ossia soltanto mediante la manovra sul tasso di sconto, controllare la moneta bancaria che dipende esclusivamente dalla domanda di moneta da parte del mercato. Anche dunque la moneta, pur non essendo essa né concettualmente né operativamente una merce, è sottoposta, dal punto di vista economico, alla legge keynesiana per la quale è la domanda a generare l’offerta – nessuno produce alcunché se non c’è domanda – e non il contrario come, sulla scorta delle idee risalenti al XVIII secolo del Jean Baptiste Say, ritengono tuttora classici e neoclassici, marginalisti, viennesi, monetaristi, vetero e neoliberisti.
Proprio perché partono dall’errata idea del Say, i “quantitativisti”, che in genere appartengono alle varie sopra citate denominazione liberiste, propongono la soluzione della riserva al 100%. Detta proposta, già avanzata negli anni ’30 da Irving Fisher, non è stata successivamente riproposta soltanto da Huerta de Soto ma anche da Maurice Allais. Quest’ultimo, scomparso nel 2010 e premiato con il Nobel ma per altre ricerche e non per quelle monetarie, era un onesto liberal-nazionale con una spiccata sensibilità sociale e quindi, come il nostro Giulio Tremonti, una sorta di out-sider nel campo neoliberale. Tuttavia la soluzione auspicata da Irving e Allais, se fosse applicata, rappresenterebbe un sostanziale ritorno all’oro o al gold standard. Alla base di detta proposta sta, infatti, l’idea, errata, che le banche prima raccolgono il risparmio, formando i depositi, e poi concedano i prestiti. E’, invece, vero il contrario: creando moneta bancaria ex nihilo, le banche prima aprono i fidi, che funzionano quali strumenti di pagamento paralleli alla moneta legale, e poi, alla fine del ciclo, formano i depositi (in moneta legale o in altra moneta bancaria) o le riserve attingendo dal proprio conto acceso presso la Banca centrale e sul quale, al tasso ufficiale di sconto del momento, sono accreditate le riserve in moneta legale. La raccolta del risparmio, pur importante, non è pertanto né la principale funzione del sistema bancario attuale né la chiave che ne spiega realmente il funzionamento. Sicché stante il potere delle banche di creare moneta mediante i prestiti, se si applicasse la soluzione della riserva al 100% (astraendo, oltretutto, dal fatto che in diversi Paesi non esiste più l’obbligo stesso della riserva) quale metodo per contenere l’espansione creditizia, si finirebbe per rarefare la moneta in circolazione, nelle sue varie forme, e, quindi, per indurre deflazione ossia per indurre il crollo inarrestabile dei prezzi quale conseguenza della flessione della domanda aggregata a causa della contrazione del reddito, disponibile per famiglie ed imprese, conseguente alla stretta creditizia.
L’umanità ha preferito passare dalla moneta aurea a quella cartacea proprio per risolvere il problema della scarsità dei mezzi di pagamento che impediva lo sviluppo economico. Più tardi, ossia oggi, la moneta, come si è visto, ha subito un ulteriore processo di demercificazione. Vogliamo, dunque, tornare alla penuria, considerando oltretutto il fatto che è praticamente impossibile stabilire la giusta misura di moneta necessaria al sistema produttivo? Ecco perché la soluzione “classica” di legare il credito alla base aurea o alla base monetaria legale significa indurre recessione. L’austerità a questo porta. Se in futuro l’umanità dovesse intraprendere la via di una decrescita controllata, questo accadrà o per motivi ecologici o per, più cogenti, motivi di “ecologia spirituale”, ossia di moderazione (non, però, di pauperismo) nella ricerca dei beni mondani in vista della ricerca dei più importanti beni celesti. Ma non per un, inutile, ritorno alla moneta aurea o a copertura aurea o alla riserva di moneta legale al 100%.
Luigi Copertino
(continua)