FEDE CATTOLICA E SCIENZA MONETARIA
Nella prospettiva della Trascendenza spirituale per contribuire al superamento di dannose concezioni arcaiche in tema di moneta
quarta parte
Necessità di un governo sovrano della moneta. Qualche proposta.
Mettere nel giusto rilievo il ruolo svolto, nell’economia moderna, dal sistema bancario e quindi dal credito non significa affermare la libertà operativa tout court di detto sistema. Al contrario significa porre l’urgenza di governare, regolare, controllare e dirigere il sistema bancario verso finalità di bene comune mortificandone ogni tendenza autoreferenziale e speculativa. Significa, in altri termini, porre il primato della Sovranità monetaria dello Stato come questione inscindibile dal primato del Politico sull’economico e dell’economia reale sull’economia finanziaria. Con buona pace di tutte le “pie” illusioni di un ordoliberalismo troppo impegnato, come evidenziava quel grande economista “laicamente ma decisamente cristiano” che fu Federico Caffè, a disegnare per il mercato la necessaria cornice istituzionale, statuale e giuridica – il che va bene – ma anche troppo timido nell’ammettere la necessità dell’intervento diretto dell’Autorità politica, concedendo solo quello supposto (sì, ma da chi e con quali criteri di valutazione empirica?) “conforme al mercato”. Naturalmente, stiamo qui parlando di un’Autorità politica, sovrana, da porre il più possibile in condizioni di indipendenza da partiti e corpi intermedi e da “vincoli esteri”. Soprattutto, poi, stiamo trattando di un’Autorità politica eticamente e politicamente degna e conscia, anche con limitazioni di diritto (come, nell’esempio, da noi fatto, del deficit spending da permettere solo per gli investimenti pubblici e non prevalentemente per la spesa corrente), del proprio ruolo e del proprio spazio operativo. Uno spazio che, è ovvio, deve avere senza dubbio i suoi limiti ma che non è poi così esiguo come ritengono i troppo timidi ordoliberali.
Affermare che esiste un’urgenza di un governo ferreo del sistema bancario da parte dello Stato significa essere perfettamente consapevoli che l’espansione del credito non regolata e non controllata, soprattutto in ordine alle sue finalità, può portare alla formazione di bolle speculative. Ma questo avviene appunto perché si pretende che il mercato debba essere assolutamente libero ritenendolo capace di autoregolazione. Un economista del calibro di Hirman Minsky con le sue ricerche ha dimostrato, ancora una volta, che, invece, il mercato, quello finanziario in particolare, non tende affatto all’equilibrio, come credono viennesi e monetaristi, ma è intrinsecamente instabile. Ecco perché tanto la coniazione di moneta legale, ossia lo stampare moneta cartacea, quanto il credito bancario devono essere inderogabilmente diretti e finalizzati, con opportune ed imperative normative, anche prevedendo sanzioni durissime, soltanto ad accrescere il potenziale produttivo reale ossia a servire l’economia reale foriera di occupazione.
E’ forse il caso di riconsiderare anche la cosiddetta “Teoria Qualitativa della moneta” dell’economista argentino Walter Beveraggi Allende. Sulla quale ci ripromettiamo futuri interventi, a Dio piacendo.
Proviamo ora ad avanzare qualche proposta per un governo efficace e sovrano della moneta. Si tratta naturalmente di proposte, già accennate in precedenza, sempre migliorabili purché se ne colga e se ne mantenga lo spirito anti-speculativo.
Attualmente, dopo l’ondata privatrizzatrice iniziata negli anni ’80 del secolo scorso, le Banche centrali sono enti privati ed operano in evidente conflitto di interessi con le loro proprietarie, ossia le banche commerciali, che poi dovrebbero controllare. Questo è un primo fatto cui porre urgentemente rimedio nazionalizzando le Banche centrali, perché solo in tal modo il debito pubblico avrebbe una natura giuridica ed economica fittizia (debitore e creditore tenderebbero a coincidere annullando il debito) e perché un sistema nel quale le Banche centrali, pur vincolate dalla legge a comprare sul mercato primario i titoli di Stato ad interessi nulli, o quasi, rimanessero private non sarebbe immune da pressioni della lobby bancaria che, anche con il braccio secolare di parlamentari prezzolati, potrebbero spuntare più alti interessi sul debito pubblico, quindi più alti proventi per la propria rendita speculativa, o reintrodurre una indipendenza assoluta, non meramente e condizionatamente tecnica, della Banca centrale.
La coniazione di moneta legale, direttamente da parte dello Stato o indirettamente mediante l’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale, nazionalizzata ossia tecnicamente autonoma ma patrimonialmente pubblica, deve essere normativamente finalizzata, soprattutto in funzione anticiclica ovvero nei periodi di recessione ed in quelli di depressione, soltanto alla spesa pubblica di investimento. Quella corrente deve essere tenuta razionalmente sotto controllo ma senza idolatrie iconoclaste in favore di politiche di spending rewiew, le quali, se non ben ragionate e ponderate, finiscono per privare lo Stato delle necessarie risorse per il funzionamento, comunque indispensabile, anche in vista della operatività degli investimenti pubblici, dell’apparato amministrativo ed organizzativo delle istituzioni pubbliche di governo.
Nell’ottica ordoliberale alla tedesca, egemone in Europa, la liquidità da destinare al mercato deve passare quasi esclusivamente per il sistema bancario, dal momento che la spesa pubblica è, in tale ottica, sempre sospetta di “azzardo morale” da parte della politica per convinzione liberale immancabilmente “corrotta ed inefficiente” (la demolizione del Politico, parte della più ampia demolizione antropologica conseguita alla proclamazione della “morte di Dio”, ha avuto proprio questa funzione maligna: rendere o far credere che la Comunità Politica sia un Leviathan immorale). Sappiamo, però, che attualmente la Bce, mediante il “Quantitative easing” ossia fornendo liquidità attraverso l’acquisto di titoli pubblici e privati, sta disperatamente cercando di combattere la deflazione e di riportare l’inflazione al 2%, proprio perché la crisi ha innescato, causa sfiducia, una contrazione del credito bancario, quindi della creazione di moneta bancaria. Contrazione del credito che è intervenuta, oltretutto, in un’area, come l’eurozona, soggetta all’assurdo dogma ordoliberale del divieto per la Banca centrale di monetizzare il fabbisogno pubblico, impedendo agli Stati, ossia agli unici soggetti capaci di farlo nei momenti di crisi quando per paura tutti tesaurizzano ad iniziare dalle imprese che non investono, di spendere per sostenere la domanda aggregata e quindi il mercato senza, al contempo, indebitarsi con i mercati finanziari e quindi senza aumentare il debito. Le regole ordoliberiste attualmente vigenti nell’eurozona hanno lasciato l’UE senza difese di fronte alla crisi, provocando molti più danni e più gravi che non nel resto del mondo (ad esempio Usa e Giappone) non soggetto a quell’assurdo dogma. E’ quindi urgentemente necessario abrogare tali regole per tornare ad una normativa simile, benché aggiornata, a quelle che rafforzarono la sovranità monetaria degli Stati dopo la crisi del 1929.
Anche il credito bancario, quindi l’erogazione di moneta bancaria, deve, a sua volta, essere subordinato alle esigenze esclusive dell’economia reale attraverso il ripristino, e l’ulteriore perfezionamento secondo un’ottica di “global legal standard”, dell’intero complesso normativo che, come il Glass Steagall Act o la Legge Bancaria del 1936, un tempo era riuscito a porre le condizioni per una finanza di servizio al Bene comune. D’altro canto bisogna sfavorire, rendere non conveniente, imporre vincoli e divieti e scoraggiare, in modo pesante, l’uso della finanza per scopi speculativi. La benefica separazione tra banche commerciali e banche speculative (la vulgata chiama queste ultime “banche di investimento” ma ripugna chiamare “investimento” quello che realizzano banche d’affari transnazionali ed hedge funds ossia mera speculazione sui mercati finanziari senza produzione) non è affatto assicurata, come ritengono i fautori del laissez faire, dalla libertà del mercato, e quindi spontaneamente dall’azione della “mano invisibile”, ma dalla normativa statuale (ed in questo dovrebbero essere d’accordo anche gli ordoliberali). Anzi la liberalizzazione dell’attività bancaria, in favore della “banca universale”, nella confusione tra credito commerciale e speculazione ed anche, in taluni casi, tra capitale bancario e capitale industriale, si è nuovamente riaffermata, dopo il sessantennio post 1929, proprio attraverso l’abrogazione, in nome del libero mercato, della precedente normativa che separava i due ambiti, credito alla produzione e speculazione, ed i due tipi di banche, banca commerciale e banca d’affari. Parafrasando e rovesciando il noto slogan inventato da Cavour, non ci sarà mai libero Stato se è ammessa la libera banca.
Tornare alla Tradizione
Quelle sopra succintamente delineate sono alcune proposte per evitare, o perlomeno per contenere in termini controllabili, il formarsi di bolle speculative. La soluzione non è, dunque, tornare alla moneta aurea o a copertura aurea o imporre il credito con riserva al 100%, ma facendo in modo che l’etica del Bene comune governi moneta e finanza. Ma per fare questo è necessario che la Comunità Politica, perché la moneta stessa è sempre in qualche modo un “atto politico”, non sia dipendente dalle forze economiche e sia, però, contro ogni decisionismo auto-costruttivista, a sua volta soggetta all’etica del Bene comune. Esattamente quanto chiede da sempre – rimandiamo, in proposito, ancora una volta alla “Quadragesimo Anno” di Pio XI ma non solo ad essa – la Dottrina Sociale Cattolica, anche se oggi, in tempi di catto-liberalismo, abbiamo dimenticato la grande Teologia del Politico sviluppatasi sin dai tempi patristici.
Troppi cattolici oggi non ricordano che nella Tradizione ci sono immensi tesori di saggezza spirituale ed etica validi anche per il governo dell’economia e della moneta, ad iniziare dall’ammonimento di Nostro Signore Gesù Cristo sull’esistenza di una “religione di Mammona” il cui servizio è idolatrico. Non a caso nell’antichità i templi fungevano anche da “tesoro” e da “banche”. Questo naturalmente non significa demonizzare la moneta ma solo indicare la strada per un governo della stessa finalizzato al Bene comune in modo da sottrarla agli speculatori. Come, appunto, ricordava il già citato Pio XI, nella sua “Quadragesimo Anno”, quando bollava come «funesto ed esecrabile l’imperialismo bancario o imperialismo internazionale del denaro» (paragrafo n. 109).
Troppi cattolici conservatori oggi corrono dietro agli “austriaci” e ai “monetaristi” dimentichi che, in Apocalisse (13, 16-17), il potere mondiale anticristico è descritto come un potere finanziario globale che contrassegna tutti, sulla mano e sulla fronte, affinché possano “vendere e comprare”, ossia possano vivere. Non farsi contrassegnare significa, all’interno dell’Ordine rovesciato imposta da tale Potere Globale, morire di inedia. Ed ancora il buon Pio XI, a proposito della finanziarizzazione dell’economia, sempre nella “Quadragesimo Anno” (paragrafi da 105 a 109), riferendosi ai money manager li definisce come coloro che «sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento» accumulano nelle loro mani «una potenza enorme … una dispotica padronanza dell’economia» concentrando in sé un «potere (che) diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare».
Il catto-conservatorismo, che al pari del catto-progressismo muove da una esigenza di strumentalizzazione della fede cattolica per fini ideologici, utilizza, come si è visto, l’eredità teologica della Scuola di Salamanca allo scopo di accreditare il liberismo in ambito cattolico. I neo-scolastici di Salamanca sono stati grandi nell’ambito della teologia morale e politica, in particolare in quello del diritto internazionale moderno che hanno potentemente contribuito a elaborare. Essi, sulla scorta dell’Aquinate, hanno precisato le fondamenta teologiche della naturalità del Politico e del diritto inter-statuale o jus publicum europaeum. In questi ambiti, strettamente connessi con il dogma di fede, quindi con la Rivelazione che è Luce dell’Eterno, essi oltrepassano il periodo storico nel quale sono vissuti ed hanno scritto. Questo però non significa affatto che bisogna seguire i salmantini anche in campo economico, sia perché ai loro tempi non esisteva una vera e propria scienza economica e quanto essi scrivevano di economia era piuttosto un ragionare filosofico-morale sull’economia (il che non è affatto disdicevole, anzi) sia, sopratutto, perché ai loro tempi l’economia, anche quella monetaria, non funzionava come quella odierna. Pretendere di trarre da quanto i salmantini hanno scritto in ambito morale-economico una lezione anche per l’economia monetaria moderna, sarebbe come pretendere che per essere oggi, in teologia e filosofia, seguaci del pensiero scolastico è necessario sostenere, in cosmologia, la teoria tolemaica perché ritenuta vera da san Tommaso d’Aquino, in quanto paradigma scientifico del suo tempo! L’integralismo, oltretutto in campi meramente umani come quelli scientifici, quindi sempre suscettibili di mutazioni e revisioni, è non solo negativo per la stessa fede ma persino ridicolo.
Insostenibilità dell’arcaica concezione “viennese” alla luce del Magistero Sociale Cattolico.
Gli “austriaci”, come si è visto, temono il “fiat money”, perché lo ritengono un potenziale canale per l’azzardo morale da parte delle classi politiche, apportatore, quindi, di spinte inflazionistiche. Sulla erroneità di detta convinzione abbiamo richiamato le dimostrazioni intervenute nel dibattito tra scuole di pensiero economico. Tuttavia detta convinzione – e con questo fatto che bisogna fare i conti senza ricadere in soluzioni deflattive e da decrescita – è ancora tristemente egemone e costituisce, lo vogliano o meno i “viennesi”, la giustificazione “scientifica” in base alla quale il “fiat money”, mentre deve essere vietato agli Stati, è invece allegramente consentito e praticato ogni giorno dal sistema bancario privato che, però, lo piega ai propri fini speculativi, antisociali ed anticristiani. E’ qui che il bisturi deve intervenire ma non ammazzando il paziente, ossia i popoli, come accadrebbe con le “soluzioni austriache” della riserva al 100%, quanto piuttosto piegando il funzionamento odierno della creazione monetaria, anche di quella bancaria, al servizio dell’economia reale e del Bene comune.
Bisogna assolutamente respingere l’idea che la Dottrina Sociale Cattolica coincida con l’elaborazione di pensiero della Scuola Austriaca, e della sua derivazione monetarista, o che la Dottrina Sociale Cattolica faccia riferimento ai postulati di tali Scuole. La propaganda catto-conservatrice (ed antitradizionale), che, certo, ha fatto breccia – visti anche i potenti appoggi ricevuti da quegli ambienti economici interessati a che i cattolici sbandassero verso il neoliberismo – nonostante la sua attuale presa tra i cattolici, resta una sgualcita coperta per menzogne beduine. Si da, infatti, il caso che il Magistero pontificio si è ripetutamente espresso contro il liberismo economico, quindi anche contro le concezioni austriache.
Nulla è più lontano ed estraneo agli insegnamenti del Magistero Sociale Cattolico della concezione liberista dell’economia come un meccanismo deterministicamente mosso dalla libera concorrenza.
Il regnante Pontefice, in proposito, ha ricordato «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali. (…). Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione …» (Francesco I – Evangelium gaudium, n. 202 e 204 – 2013).
Sappiamo tuttavia che per i cattolici conservatori, l’attuale Papa è sospetto di modernismo e di “socialismo”. Allora proviamo a frugare nei documenti sociali del suo predecessore, che è ritenuto dai conservatori (a torto, secondo noi!) in opposizione all’attuale pontefice. Ecco, dunque, cosa scrive Benedetto XVI: «Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave. (…). L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la Comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione» (Benedetto XVI – Caritas in Veritate, n. 35 e 36 – 2009).
Del resto, già alcuni decenni prima che il neoliberismo trionfasse, quando esso era solo agli inizi della sua mistificatoria rivincita culturale, un altro Pontefice, Paolo VI – con lo stesso spirito profetico con il quale Pio IX nella Lettera Enciclica “Qui pluribus” del 1846 condannava il comunismo due anni prima della pubblicazione de “Il Manifesto” di Marx ed Engels –, ne intuì la rimontante perniciosità: «Dall’altra parte si assiste ad un rinnovamento dell’ideologia liberale. Questa corrente si afferma sia all’insegna dell’efficacia economica, sia come difesa dell’individuo e contro le iniziative sempre più invadenti delle organizzazioni e contro le tendenze totalitarie dei poteri politici. Certamente l’iniziativa personale deve essere mantenuta e sviluppata. Ma i cristiani che s’impegnano in questa direzione, non tendono, a loro volta, a idealizzare il liberalismo, che diventa allora una esaltazione della libertà? Essi vorrebbero un nuovo modello, più adatto alle condizioni attuali, e facilmente dimenticano che alla sua stessa radice il liberalismo filosofico è un’affermazione erronea dell’autonomia dell’individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell’esercizio della sua libertà. Ciò significa che anche l’ideologia liberale esige da parte loro un attento discernimento» (« Paolo VI – Octogesima adveniens, n. 35 – 1971).
Se, poi, ai catto-conservatori non piacciono i Papa conciliari, li rimandiamo direttamente a quelli pre-conciliari. Come ad esempio Pio XI e Leone XIII:
«A quel modo cioè che l’unità della società umana non può fondarsi nella opposizione di classe, cosi il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata. Se non che la libera concorrenza, quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei limiti bene determinati; non può essere in alcun modo il timone dell’economia; il che è dimostrato anche troppo dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico. È dunque al tutto necessario che l’economia torni a regolarsi secondo un vero ed efficace suo principio direttivo. (…).. Si devono quindi ricercare più alti e più nobili principi …: e tali sono la giustizia e la carità sociali» (Pio XI – Quadragesimo Anno, n. 89 – 1931);
«… cupidigia … e … sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori» (Leone XIII – Rerum Novarum, n. 2 – 1891).
Vorremo sottolineare questo passaggio della citazione del n. 80 dell’enciclica di Pio XI: «ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo o timone proprio, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata», perché qui c’è il chiaro rifiuto dell’idea liberista secondo la quale il libero mercato è “naturalmente” armonico e funziona al meglio senza inferenze etiche o politiche ossia inferenza di “intelligenze create”. Non solo: ma in questo passaggio c’è la più esauriente risposta, in termini di Magistero Sociale, alle distorsioni di Jerzy Strzelecki del pensiero dei pensatori salmantini ed ad un tempo una conferma del fondamento delle loro preoccupazioni, circa la difficoltà e tuttavia la necessità per l’uomo di approssimarsi al “giusto prezzo” pur nella umile consapevolezza di non essere onnisciente come Dio. Preoccupazioni che miravano a non togliere all’economia la sua dipendenza ultima dall’etica etero-fondata della Rivelazione.
I catto-conservatori e gli ordoliberali tendono a smussare la cristallina presa di distanza di Pio XI dal liberismo economico sostenendo che la condanna di quel grande Pontefice era rivolta non al liberismo in sé ma soltanto ai grandi monopoli industriali tipici della concentrazione finanziaria ed industriale del suo tempo. Ma si tratta di un patetico tentativo non solo perché la concentrazione capitalista è fenomeno attuale oggi non meno di ieri ma perché Pio XI si riferiva direttamente alla speculazione finanziaria – appunto l’“imperialismo bancario ed internazionale del denaro” – e basta approfondire la genesi dell’enciclica e chi erano i suoi redattori materiali per convincersene.
Luigi Copertino
(continua)