di Roberto Pecchioli
Ricordève del poaro forner. Ricordatevi del povero fornaretto. Secondo la leggenda, così si concludevano le udienze in tribunale a Venezia, nel ricordo dell’umile panettiere mandato a morte per un delitto non commesso. Era la prova, attraverso l’umiltà di chi riconosce gli errori, della grandezza della Serenissima Repubblica che dominò il mare per secoli e regalò al mondo l’incanto di una città unica, il gioco di Fata Morgana descritto dal poeta Diego Valeri.
Di quante e quali ammissioni di colpa, di quali autocritiche dovrebbe essere capace l’Italia contemporanea per aver lasciato la fragile bellezza di Venezia in balia del mare, degli affari, dell’indifferenza che hanno permesso lo sfregio di questi giorni? L’Italia non merita Venezia; quel che resta della classe dirigente della città che dominò il mare non merita la Serenissima.
L’acqua alta, anzi l’acqua granda, come si dice in lingua veneta, ha inferto ferite incalcolabili alla città più straordinaria del mondo, perla di un’Italia, che contiene – vorremmo poter dire custodisce- metà del patrimonio artistico dell’Orbe terracqueo. La grande bellezza ce l’ha regalata Dio e per secoli ne siamo stati degni. Abbiamo abbellito il territorio con l’opera sapiente di generazioni, edificato città che stupiscono il mondo. Qui ci sono Roma e Firenze, l’arte, la storia, la cultura, il bello allo stato puro; e poi Siena, Verona, Mantova, Napoli. L’elenco potrebbe continuare per pagine intere.
Ma Venezia no, Venezia è un’altra cosa. Se le altre, numerosissime e ricchissime città d’arte italiane sono tutte caratterizzate dalla bellezza dei siti circostanti, Venezia è interamente opera dell’uomo. Scienza, tecnica, tenacia di generazioni, amore per il bello, identità che ha attraversato i secoli. La fondarono profughi di Aquileia per sfuggire alle invasioni barbariche. Scelsero quella laguna inospitale tra il delta del Po e la curva orientale del mare Adriatico per la sua lontananza dalle terre dove imperversavano orde straniere nemiche. Erano i migranti di quell’Alto Medioevo che cercava di superare la ferita terribile della fine di Roma e intanto diffondeva la nuova religione cristiana venuta da oriente. Venezia è costruita su sabbie malsane, si innalza come può e come i veneziani hanno voluto, in un equilibrio miracoloso, sopra palafitte e opere di idraulica, ingegneria, geologia, architettura. Acrobazie scientifiche, tecnica raffinata, cultura materiale diffusa, l’amore tenace della gente veneta.
I veneziani hanno amato a denti stretti quel territorio in cui mare e terra si rincorrono fino a confondersi. Hanno speso per oltre un millennio somme immense, impegnato le migliori intelligenze, costruito un sapere profondo per rendere Venezia ciò che è stata. Hanno fatto della bellezza e dell’arte qualcosa di tanto grande da lasciare ai margini l’ammirazione per i tesori di scienza e tecnologia profusi nel tempo. La città di San Marco è lì, in un equilibrio tanto incredibile da pensare che sia la creazione di una notte di un Dio esteta. Arriviamo, noi viaggiatori, pensando che ponti, canali, calli e fondamenta, l’immenso scrigno d’arte voluto da generazioni visionarie e insieme concretissime, siano sempre state lì, per un capriccio del creato, e vi rimarranno in eterno.
Invece no: adesso sappiamo che non è così. Basta un’acqua granda più alta di quelle a cui gli uomini salmastri si sono dovuti abituare e tutto cambia. In realtà, non vi è nulla di nuovo. La laguna ha conosciuto molti affronti del clima: terremoti, maremoti, inondazioni. Si ricordano distruzioni nell’XI e XII secolo. Nel 1348 fu cancellata l’isola di Malamocco, antico porto romano. Ma i veneziani, i veneti, non hanno mai mollato. E’ esistita per secoli, con larghi poteri e un ricco bilancio economico, la Magistratura delle Acque, la cui sede era in un palazzo chiamato significativamente dei Dieci Savi. Non solo l’area cittadina era oggetto delle cure, ma l’intera laguna sino al mare aperto, un vasto territorio che da Chioggia, a sud, arriva sino ai Treporti, di fronte al litorale di Jesolo. La città è protetta dalle lunghe lingue di terra, rinforzate da dighe possenti (i murazzi), delle isole di Malamocco, con il Lido di Venezia, e Pellestrina. Nonostante l’inospitalità del sito, il clima sfavorevole e i mezzi tecnici infinitamente più modesti di quelli odierni, il miracolo si è rinnovato ogni giorno per oltre un millennio. Ora non più, il timore che Venezia scompaia non è solo un incubo.
Leggiamo che la città è considerata patrimonio dell’umanità e dell’Unesco. Aria fritta, retorica, ipocrisia a buon prezzo: non hanno mosso un dito per preservare uno dei più grandi segni della civiltà umana. La domanda, tuttavia, è un’altra: che cosa abbiamo fatto noi, noi italiani, figli, eredi della grande bellezza, della sapienza, del genio che abbiamo trovato come perle sparse dappertutto in questo pezzetto di mondo che diciamo nostro e qualcuno chiama Patria, terra dei padri? Sono italiano, quindi romano, fiorentino, veneziano. Ho alcuni diritti sulla grande bellezza, ne avverto l’orgoglio come qualcosa di personale, ma ho soprattutto doveri.
Non li abbiamo assolti. Tutto dimenticato, un brutto giorno si è interrotta la catena di trasmissione; da allora non sappiamo più creare bellezza e, peggio, siamo le diventati indifferenti. Non la vogliamo più amare, il suo destino sembra non interessarci. Abbiamo la responsabilità della custodia e della consegna agli italiani di domani di quanto ricevuto. A che cosa serve Venezia, diranno i tanti senz’anima, se non ad alimentare l’economia turistica, dare una mano al PIL, il prodotto interno lordo? E’ diventato un museo malsano, un fantasma sovraccarico di turisti, orde umane in ciabatte, smartphone e maglietta. Un americano, anni fa, nella sua lingua sguaiata e volgare, manifestò delusione davanti a San Marco: la basilica è più piccola di quanto descriveva la guida portata da qualche angolo del Nebraska o del Kansas.
Venezia è in coma da circa un secolo, da quando cioè si sono impadroniti del fragile ambiente lagunare le industrie oggi dismesse, quindi lo sciame umano di visitatori/invasori in gran parte incapaci di capire quello che vedono, le grandi navi da carico e i colossi delle crociere che lambiscono, per la gioia frettolosa dei clienti, le rive fragilissime della città dei Dogi. Soprattutto, non ci sono più i veneziani a proteggere la creatura dei loro avi. Troppo difficile, nella modernità, vivere senza automobile, non poter elevare grattacieli, essere prigionieri di una città che è il contrario di ogni altra. Fuggono gli abitanti “normali”, ha raggiunto la terraferma e vi si è installata anche l’oligarchia che fece grande la repubblica aristocratica, dominò il Mediterraneo, improntò di sé il mare d’oriente, fu culla di generazioni di artisti, musicisti, scienziati, artigiani come i vetrai di Murano e Aldo Manuzio, primo imprenditore tipografo.
Di Venezia importa poco o nulla. Tra chi è rimasto, troppi bottegai senz’anima, incroci tra un esecutore testamentario e un tombarolo. Venezia non muore solo di acqua granda, ma di abuso, stupro continuato cui non sono estranei gli ultimi veneziani, in larga misura non degni degli avi. Meritare Venezia, meritare questa meravigliosa, unica terra dei padri che calpestiamo e violentiamo non più impunemente, dovrebbe diventare scopo ed obiettivo degli italiani.
Nel 1309, nella Siena dei banchieri, venne redatto e affisso su tutti i muri il “Costituto”, uno statuto nel quale si promuoveva “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza dei forestieri, per onore, prosperità et accrescimento della città e dei cittadini”. Una passione comunitaria per la bellezza e l’armonia della vita che produsse i magnifici affreschi chiamati “Gli effetti del buono e dei cattivo governo sulla città”, enciclopedia pittorica dello spirito della nostra nazione. Quella era l’Italia, ai cui abitatori immemori, a cominciare dalle sedicenti classi dirigenti, dovrebbero essere mostrati ogni giorno i dipinti di Ambrogio Lorenzetti. Chissà se conosciamo ancora il sentimento della vergogna.
Venezia, finita la Repubblica, esaurita anche la stagione asburgica, decade da un secolo. L’unità nazionale non ha fatto bene a uno dei simboli universali dell’italianità. Qualcosa, dicono, è stato fatto per preservarla. Il Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) è stato approvato nel 1984 dopo decenni di polemiche. Non è ancora attivo. La sua storia è soprattutto una disgustosa cronaca giudiziaria di malaffare, ruberie, spreco di denaro pubblico. Se ne sono andati circa sei miliardi, alcuni si sono arricchiti, una classe dirigente ha dimostrato al mondo la propria incapacità, ma le paratie della diga mobile che dovrebbero alzarsi a proteggere Venezia non sono ancora pronte. In più, non sono né poche né ininfluenti le voci di chi pensa che il Mose non serva allo scopo, specie se eventi come quelli dell’autunno presente dovessero essere accompagnati – probabilità non così remota – da fenomeni sismici. Potrebbe scatenarsi una sorta di effetto tsunami che la farebbe finita con la città di Vivaldi e Casanova, Carlo Goldoni, Giambattista Tiepolo e della dinastia dei Bellini.
E’ giunta l’ora di meritare Venezia. Il governo in carica ha stanziato per i primi aiuti 20 milioni. Fuor di polemica, si tratta di una goccia offensiva nel mare che affoga Venezia ammalata. Il sindaco intende istituire il numero chiuso per i visitatori, accompagnato da un biglietto d’ingresso. E’ il minimo da farsi, anche se temiamo l’accaparramento del mercato da parte delle grandi compagnie turistiche, vietando la Serenissima a veri viaggiatori desiderosi di godere l’unicità della città di San Marco. Soprattutto, è l’ora delle decisioni rapide e dell’assunzione di responsabilità.
Non vogliamo annoiare i lettori rammentando l’immenso valore spirituale, artistico e culturale di Venezia. Ci limitiamo, in quest’epoca di mercanti privi della sensibilità che animava a tratti Shylock, l’ebreo veneziano di Shakespeare, a constatare che salvare Venezia è un affare. Non sappiamo più creare: che almeno siamo capaci di custodire, restaurare, ridare vita al passato impossibile da ricalcare. Abbiamo in Italia intelligenze scientifiche, aziende di primo livello, maestranze ancora in grado di stupire il mondo. Investire denaro sulla città dei ponti e dell’acqua è un affare. Aumenta il PIL, crea lavoro, mette in moto intelligenze, è valore aggiunto per ciò che ci è stato elargito.
Basta con lo sfruttamento indecente, con le navi che sfiorano la Giudecca, gli Schiavoni e la Salute. Basta anche con la mentalità ristretta da venditori di panini, maschere di carnevale e souvenir Made in China: un’economia angusta, residuale, che vende finto folklore, organizza ogni mattina sedute spiritiche per evocare la grandezza smarrita, salvo irruzione dell’acqua alta. Ricordate il vecchio film con Alberto Sordi nella veste di gondoliere, costretto a cantare ‘O sole mio sul Canal Grande per turisti ignoranti? Abbiamo svenduto la dignità e dissipato l’eredità. Hanno sfregiato Venezia persino con il ponte costruito da Santiago Calatrava, una realizzazione in vetro scivolosa e disfunzionale che nulla c’entra con l’architettura circostante: un altro insulto alla storia. Singolare davvero che non esistano costruttori di ponti in una città che ne conta oltre quattrocento.
Restituiamo Venezia alla storia e l’onore a noi stessi. Salvare ciò che abbiamo ricevuto dai padri, a Venezia e nel resto d’Italia, è il gesto che può ridare dignità alla nostra generazione di immemori. Costerà denaro, ci vorrà tempo, ma pagarono di tasca e lavorarono sodo per secoli senza i mezzi di oggi. Il mondo intero sta guardando Venezia. E’ il momento di meritarcela. Vogliamo davvero essere la generazione barbara che l’ha lasciata affondare? Barbara e traditrice come Iago, il personaggio che, dopo aver callidamente acquisito la fiducia degli altri (“l’onesto Iago!”) ordisce la trama per cui Otello, il Moro di Venezia, crede nel tradimento di Desdemona e la uccide. Un tipo umano assai diffuso Iago, l’uomo la cui azione è cinismo, ristretto raziocinio al servizio dell’egoismo. Oggi direbbe: a che serve Venezia?