Se dovessimo ragionare con l’ottica umana, Nostro Signore Gesù Cristo sarebbe il più grande fallito della storia dell’umanità.
Già prima di nascere, a Suo Padre e a Sua Madre – che Lo porta in grembo – viene negata ospitalità per la notte. I Suoi genitori, così, vagano in cerca di un posto di riparo in una piccola città – Betlemme – affollato luogo di convegno e sosta delle carovane in cammino da Gerusalemme verso l’Egitto, e méta per san Giuseppe, che di quel luogo era oriundo, del censimento della popolazione disposto dai Romani. Alla fine del loro peregrinare, trovano una grotta scavata nel sasso sul declivo della montagna. È apparecchiata a mangiatoia per animali e si può pensare che Suo Padre abbia -con umiltà – sistemato e pulito quel misero rifugio per alleviare i disagi a cui avrebbe dovuto sottoporsi Maria Santissima.
Ecco, l’umiltà. Con l’atto di umiltà compiuto dalla Santa Vergine Maria verso Dio, tramite le parole che rivolge all’Angelo («Sia fatta la Tua volontà»), nasce il Cristianesimo: Dio che si fa uomo, s’incarna nella storia. Nell’umiltà, nella povertà estrema – che non è avversione per le ricchezze, ma distacco da esse e sua accettazione se in questa condizione Dio vuole che ci ritroviamo – nella mortificazione, che è sofferenza, viene al mondo la Seconda Persona della Trinità, che nell’età adulta dirà: «Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9, 58). Non nasce d’estate, ma in una rigida notte d’inverno. Gli fa da culla una mangiatoia per le bestie. I primi a tributare gloria al Fanciullo sono umili pastori, che precedono cavalieri misteriosi e potenti, che vengono, forse, dalla Caldea o dall’Arabia o dalla Persia. Gli portano doni e preziosi e lo chiamano Re. Un altro Re, il crudele Erode, temendoLo, decide di far uccidere tutti gli appena nati e Gesù – oltre che umiliato – viene anche perseguitato alla nascita, insieme ai Suoi genitori, che su suggerimento dell’Angelo partono per l’Egitto. Lì esiliati per due lunghi anni. Al ritorno a Nazareth e per l’intera Sua adolescenza, Gesù rimane umilmente sottomesso ai Suoi genitori, crescendo in sapienza, età e grazia. Impara un umile mestiere, quello di falegname, che svolge fino ai trent’anni anche dopo la morte di Suo Padre.
Prima di iniziare la Sua predicazione pubblica, affronta con umiltà per quaranta giorni, nel deserto, il principe delle tenebre. Rifiuta le tentazioni di potere e di gloria e invece di cercare il riconoscimento umano, si concentra sugli insegnamenti e sulla missione divina. Non ha una dimora fissa dove stare. Con i Suoi discepoli e amici si accampa dove può, come può. Si può anche immaginare, negli anfratti che la natura consente, a rischio di essere insidiati da animali selvatici. Sceglie i Suoi seguaci tra persone umili, spesso ignoranti, comunque di bassa condizione sociale e questi – ammaestrati con dolcezza – vengono elevati al di sopra di tutti i Padri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Quando predica non si fa mai grande, ma è sempre umile. Ammonisce: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc14, 8-14). E ancora: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Qui l’umiltà è vista come una precondizione per entrare nel regno di Dio. Rivolgendosi ai discepoli, presente un fanciullo che chiama dalla strada, dice: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4). Questo è il cardine del Suo discorso: per la porta stretta si entra solo con l’anima umile e innocente. Per diventare umili, bisogna accettare le umiliazioni. La sera dell’Ultima Cena ha istituito il Sacerdozio con un grande atto di umiltà: la lavanda dei piedi dei Suoi discepoli (Gv 13, 1-17).
Pur d’insegnarci l’unica strada da praticare per salvare la nostra anima, l’Uomo-Dio nel corso della Sua passione ha deciso di subire – avrebbe potuto decidere di non farlo – tutte le umiliazioni e le sofferenze possibili. Perché la Seconda Persona della Trinità sceglie di manifestarsi al mondo in questa maniera? Per riscattare gli uomini dal peccato dei loro progenitori e per mostrare loro la realtà della loro esistenza. Dio non risparmia le pene ai Suo amici. Quando santa Teresa d’Avila – come racconta nella sua autobiografia – si raccoglie a considerare le sue innumerevoli sofferenze, Gesù le dice: «È così che tratto i miei amici». Lei, usando la confidenza che aveva con Gesù, Gli risponde: «Perciò ne hai così pochi». È vero. Gesù ha pochi amici in questo mondo dominato dal demonio, che inietta negli esseri umani il veleno più deleterio che ci sia: la seduzione dell’orgoglio, che lo vuole rendere uguale a Dio, per annientarLo e sostituirsi a Lui. Così, la terra diventa desolata dalla devastazione – direbbe il profeta Geremia – perché nessuno riflette dentro, nel suo cuore, sulla sua condizione. Gesù ha voluto caricare su se stesso la condizione di ciascuno di coloro che viveva nel suo tempo storico, quella dei giusti che erano morti prima di Lui e quella di coloro che sarebbero vissuti fino alla fine dei tempi. Il Suo sacrificio – sancito dall’abbandono totale alla volontà di Suo Padre – è stato rivolto alla vita del singolo individuo.
Dopo aver manifestato per l’ultima volta la Sua divinità – quando, nell’orto del Getsemani, ad una delle guardie che sono venute ad arrestarlo, riattacca l’orecchio che era stato mozzato da san Pietro – la natura umana di Nostro Signore si fa ancor più umile. Prima cerca negli occhi del Suo traditore – Giuda – il ravvedimento e lo tratta con delicatezza ed estremo amore, poi subisce un susseguirsi inarrestabile di umiliazioni: schiaffeggiato davanti a Caifa; legato con dure funi; oggetto di ingiurie, sputi e ancora schiaffi sul volto; deriso; in silenzio davanti al Sinedrio e a Pilato; fatto vestire da Erode di veste bianca – quella riservata ai pazzi – quando viene riportato a Pilato; flagellato nelle carni; preferito dalla folla ad un malfattore; coronato di spine con le guardie che si spartiscono la sua veste, lasciandolo nudo; caricato della Croce e poi inchiodato mani e piedi; ha sete di anime e Gli viene dato fiele sulla bocca; trapassato nel fianco con la lancia dopo aver esalato l’ultimo respiro e aver detto a Suo Padre «perdona loro perché non sanno quello che fanno».
La nostra salvezza è stata pagata a caro prezzo, come dice san Paolo. Sta a ciascuno di noi coltivare la propria vita nell’umiltà, per condividere ed imitare il più grande insegnamento di Cristo, che è fondamento del Cristianesimo. Con l’umiltà e nell’umiltà potremo meglio comprendere la brutture di questo mondo, combatterle nel nome di Nostro Signore, prepararci su questa terra a vivere – con la nostra anima unita al nostro corpo – se lo meriteremo, la visione beatifica di Dio.
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Danilo Quinto