QUANDO LA DIVULGAZIONE STORICA E’ SOLTANTO MISTIFICAZIONE – di Luigi Copertino

Per chi ha conosciuto altre e migliori stagioni per quanto riguarda il rispetto per gli studi storiografici – nonostante che polemiche non mancassero ma si trattava di polemiche tra competenti dalle quali avevi tutto da imparare – l’attuale scenario del dibattito, meglio pseudo-dibattito, sulla storia sembra essere tornato indietro di secoli. Oggi non prevale, seppur nelle modalità della divulgazione colta, una seria narrazione storiograficamente fondata su presupposti il più oggettivi possibili. Ciò che prevale attualmente è invece l’uso politico della storia che è distante dal metodo storico e dall’onestà della ricerca come il cielo dalla terra. Più che una buona divulgazione storica oggi viene offerta alle masse, ignare di buoni studi ed approfondimenti, una melassa intrisa di uno storicismo, dal sapore ottocentesco (quello delle “magnifiche sorti e progressive”), per il quale negli eventi si manifesterebbe una intrinseca razionalità, uno spirito di dinamismo dialettico che ci porterebbe o ci avrebbe portato verso il migliore dei mondi possibili. Per cui l’applicazione di un criterio moralistico e storicamente falsificante, quale quello che divide gli uomini in “buoni” o “cattivi” a seconda se si sono posti nella presunta corrente ascendente e progressista o invece se ad essa si sono opposti, assurge a criterio dogmatico per dare una lettura dei fatti. Un criterio che, però, con la seria indagine storiografica non ha nulla da spartire, giacché la ricerca storica non serve né a giustificare né a condannare, non è strumento né delle apologetiche né delle contro-apologetiche.

Un esempio di tale triste, e spregevole, andazzo è il, tanto incensato quanto dal punto di vista storico miserabile, libro di Antonio Scurati “M – il figlio del secolo” – dal quale è stata tratta una ancora più miserabile versione cinematografica in onda in questi giorni su Sky – che pretende di chiudere un fenomeno assolutamente complesso, sia nella sua genesi culturale che in quella politica, come il fascismo in una macchiettistica caricatura del suo leader Mussolini. Una caricatura che, per l’appunto, non corrisponde affatto alla realtà vera del personaggio con le sue ombre ed anche i suoi meriti (perché anche lui ne ha avuti e noi che gli siamo temporalmente succeduti abbiamo goduto di certi lasciti del suo regime, lo Stato sociale implementato negli anni trenta, che ci siamo limitati a sviluppare).

Un altro esempio del clima di miseria culturale e civica che stiamo affrontando è il film “L’abbaglio”, di recente apparso, con protagonisti Ficarra e Picone nonché Tony Servillo, che, nonostante alcuni cenni alle “promesse non mantenute” del Risorgimento, tratta dello sbarco dei mille riproponendo la solita epopea, in gran parte storicamente insostenibile perché costruita ad arte dopo l’unità d’Italia, su Garibaldi e la sua invasione, finanziata dall’Inghilterra, di quello che era un legittimo Stato (agli odiatori della Russia potremmo in proposito proporre un parallelo, per quanto nella storia i paralleli sono sempre difficili e discutibili, ma la provocazione ci piace, tra il Regno di Sardegna che invadeva le terre altrui con pretesti vari – esso però, per la vulgata, era nel corso progressivo della storia – e il Regno delle Due Sicilie e gli altri Stati preunitari, invasi dai Savoia, che avevano il torto, sempre per la vulgata, di non assecondare il presunto inesorabile cammino dell’umanità).

Un ulteriore esempio lo abbiamo visto sulla RAI. Il riferimento è alla solita “zolfa” andata in onda in queste ultime serate dedicata a Giacomo Leopardi. Ci è stato infatti propinato l’ennesimo racconto viziato storicamente dallo stesso politicamente corretto che ricordo di aver conosciuto nei miei studi liceali. Ciò che di peggio poteva essere messo in scena è stato messo, in particolare per come è stata tratteggiata la figura del padre di Giacomo, il conte Monaldo. Secondo una vulgata dura a morire (purtroppo molte sono le vulgate dure a morire e tenute in vita artificialmente da massicce dosi di conformismo coattivamente imposte alla gente), Monaldo nella fiction è apparso come un arcigno reazionario e un padre alquanto despota verso il figlio. Ma le cose non stanno affatto così. Nonostante il rapporto tra i due avesse diverse difficoltà a causa delle scelte filosofiche e politiche di Giacomo (che lo portarono ad un naturalismo panteistico – la “natura” madre ma soprattutto matrigna autrice delle sofferenze umane – inevitabilmente destinato a sfociare in aperto nichilismo), Monaldo non ripudiò mai Giacomo e soffrì per il suo allontanamento. Leopardi padre era certamente un controrivoluzionario ma non del genere oscurantista e reazionario come la fiction lo ha dipinto. Lui stesso era un intellettuale di prim’ordine ed ha scritto opere pregevoli. Purtroppo anche nella sua epoca vigeva una forma di “politicamente corretto”, il pensiero rivoluzionario in veste liberale (oggi, dopo la parentesi novecentesca, è tornato egemone), e chi, come Monaldo, si situava fuori dal coro era destinato a diventare inevitabilmente oggetto di “damnatio memoriae”. Come puntualmente è accaduto. Certamente Monaldo era uomo del suo tempo ma, a dispetto della sua fama di reazionario, si mostrò criticamente aperto alle novità tecnologiche ed alle trasformazioni sociali spesso peggiorative per i ceti popolari (cui egli cercava di far fronte secondo lo spirito di carità cristiana derivantegli dalla sua fede religiosa e che lo portava a preoccuparsi dei più poveri nella sua Recanati).

Difendeva, è vero, l’Antico Regime ma lo faceva in nome di ciò che oggi definiremmo il “comunitarismo” della heimat, la piccola patria, differente dalla vaterland, la nazione. Un comunitarismo, avverso alla fredda macchina burocratica dello Stato nazionale, che è portatore di una visione anti-accentratrice e confederalista. In sostanza Monaldo propugnava un modello sociale ampiamente riscoperto, dopo di lui, dai migliori studiosi di sociologia e filosofico-politica, da Alasdair MacIntyre a Ferdinand Tönnies, da Michael Sandel a Charles Taylor, da Costanzo Preve a Marcel Mauss a Louis Dumont, da Will Kymlicka a Tommaso Demaria, fino a Ulderico Bernardi. Monaldo, sebbene non avesse colto che alle origini dello Stato accentratore vi fosse proprio l’assolutismo monarchico, del quale le repubbliche giacobine semplicemente portavano ad esiti ulteriori la politica di accentramento, aveva invece compreso dove il “sol dell’avvenire” ai suoi tempi inneggiato dai liberali, prima che i socialisti togliessero loro del tutto legittimamente la leadership del processo rivoluzionario, avrebbe portato la Cristianità, ossia alla dissoluzione per consegnare tutta l’umanità, e non solo quella parte che aveva preso forma di Cristianità, al nulla assoluto, al più svuotante nichilismo capace di togliere all’uomo la sua stessa essenza e natura.

Capita sovente a coloro che sono bollati quali reazionari nella loro epoca di vedere in anticipo sui loro tempi, di essere in realtà profeti del futuro. Probabilmente oggi Monaldo volgerebbe la sua critica antimoderna (benché non ante-moderna) al globalismo che è l’esito transnazionale della medesima dinamica storica accentratrice da lui vista in atto e che, dopo averlo usato per imporsi, attualmente ha superato anche lo Stato nazionale dissolvendolo nel nuovo leviatano della globalizzazione economico-tecno-finanziaria.

Se guardiamo all’esigenza neo-comunitaria, che talvolta si presenta proprio nella forma del recupero delle “piccole patrie”, oggi diffusa un po’ ovunque e che è espressa, benché tra mille contraddizioni e sovente sgradite ambiguità, dai movimenti sovranisti o populisti, possiamo certamente dire che, al netto dell’impianto cattolico della sua filosofia politica, Monaldo Leopardi sia molto più attuale del più noto figlio Giacomo.

Insomma, Monaldo non era un “mostro” ed è figura da liberare dal falso stereotipo costruitogli intorno per rivalutarne, in modo più onesto e oggettivo, il pensiero e l’opera. E non solo lui.

Luigi Copertino