di Roberto PECCHIOLI
Rieccolo. Silvio Berlusconi torna in campo, ha sette vite come i gatti ed una tenacia ammirevole. Gli auguriamo sinceramente di vincere il ricorso alla Corte di Giustizia, soprattutto speriamo che il tempo – la storia – ristabilisca la verità sulla vergognosa operazione, un vero e proprio golpe bianco orchestrato in Europa e realizzato da sicari italiani, Napolitano su tutti, che lo estromise dal governo nel 2011. Fate presto, osò titolare Il Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria. Purtroppo, il vecchio leone non ha perso alcuno dei suoi difetti e soprattutto continua a diffondere vecchi slogan passati di moda. E’ tornato a ripetere uno dei suoi ritornelli preferiti, ovvero che l’Italia ha bisogno di una “rivoluzione liberale”.
Comprendiamo che il Cavaliere disarcionato si riferisca essenzialmente al peso tributario, alle burocrazie asfissianti che bloccano l’Italia, nonché all’ostinata antipatia per l’impresa, le libere professioni, l’artigianato ed in genere il lavoro autonomo, un vizio assurdo di cui la sinistra, nonché molta parte del mondo cattolico, non si riesce a liberare. Tuttavia, noi osiamo affermare non solo che Berlusconi sbaglia, ma anzi che al nostro paese – ed al mondo intero- occorra una robusta rivoluzione di segno opposto. Essere liberali è diventato comodo: facile transitur ad plures, scrisse Seneca a Lucilio, è facile passare alla maggioranza. Ma abbiamo passato la vita dalla parte del torto, possiamo restare fieramente antiliberali, fautori di una rivoluzione che la faccia finita con l’eccesso di liberalismo che ci ammorba ed affama.
La prima obiezione è diretta proprio contro Berlusconi ed il suo schieramento. Dov’era l’uomo di Arcore negli ultimi 24 anni, da quando cioè è sceso in campo? Ha presieduto governi per quasi la metà del tempo, è stato capo di opposizioni assai forti, il suo schieramento amministra grandi regioni e migliaia di comuni. Perché non ha realizzato quella rivoluzione cui mostra di tenere tanto, rivoluzionato il fisco, sconfitto la burocrazia e promosso – da leader politico e da proprietario di televisioni, giornali, case editrici- una cultura alternativa ai collettivismi ed al formalismo burocratico? Aveva, evidentemente, altro da fare.
Di rivoluzioni liberali ne abbiamo viste anche troppe. Dagli anni 80 e poi dopo la fine del comunismo l’orizzonte liberale non è soltanto trionfante, ma soprattutto ha la pretesa di essere l’unico sistema politico, economico, esistenziale ammesso. La vittoria del 1989, infatti, anticipata dal decennio di Reagan e della signora Thatcher, si è rivelato il trionfo non della libertà, ma dell’Impero del denaro. Liberale, liberista, libertario, e, dall’ultimo decennio, libertino.
Oggi liberale ha perso il suo significato originario – è una parola omnibus, a taglia unica e multiuso, come democrazia, destituita del vero significato, una coperta arcobaleno che nasconde molte vergogne. La confusione è grande, libertà e liberalismo sembrano sinonimi mentre sono concetti molto diversi, non di rado confliggenti. Siamo sottomessi ad un asfissiante liberismo economico unito ad un libertarismo civile ed etico che dissolve la comunità e intossica la beatificata “società civile”. La privatizzazione di tutto è avanzata a passi giganteschi, polverizzando le strutture degli Stati, le difese sociali, i contrappesi istituzionali, i corpi intermedi, le strutture spirituali, esattamente come il soggettivismo morale promosso dal pensiero liberale ha prodotto l’impressionante secolarizzazione della società. Ciò che non riuscì alle maniere forti ed alla violenza dell’ateismo comunista è stato facilmente conseguito dal suadente modello del liberalismo di consumo.
La concentrazione di potere, proprietà, denaro, influenza in poche mani non è mai stata così drammatica. La conclamata libertà di pensiero, fiore all’occhiello della vulgata liberale, è sottomessa alla potenza pervasiva di strumenti di comunicazione di massa concentrati in pochissime mani, sempre le stesse, come l’economia, la finanza, l’intrattenimento. Abbiamo la massima libertà di pensare con mille sfumature diverse le stesse cose. E’ come una banda musicale in cui ogni strumento è gradito, anche i toni possono essere distinti, ma ciò che conta è che uguale sia lo spartito e unico il direttore d’orchestra.
Siamo al punto che non esistono più convinzioni, ma solo opinioni. Le prime richiamano un orientamento saldo, coerente, dotato di un centro, le seconde sono solo pensieri transitori, volatili. Universo liquido, o meglio miliardi di cervelli di plastilina malleabili, plasmati à la carte dal grande circo della persuasione, della pubblicità, del consumo, del condizionamento. La politica non è che marketing, prodotto da vendere, tanto che la democrazia liberale può essere agevolmente definita come “pluralismo competitivo della libertà di opinione”. Non di tutte le opinioni, però. Già Karl Popper, il teorico della società aperta, teorizzava che agli avversari del sistema dovesse essere impedito l’accesso, la partecipazione al mercato delle idee.
Sono lontani i tempi in cui Ortega y Gasset poteva affermare che il merito del liberalismo era difendere le minoranze, specialmente quelle più deboli. Oggi lo spartiacque è ben diverso: tracciato un cerchio, il discrimine (drammatico) è tra chi sta dentro e tutti gli altri. Sono tutti benvenuti, purché condividano il senso liberale della vita, che è poi il mercato misura di tutto, la privatizzazione del mondo, il relativismo etico, il consumo. In cambio dei suoi favori, il liberalismo offre una gamma infinita di colori in un’unica tavolozza. Si può essere di destra, di centro, di sinistra o di nulla, religiosi, atei o agnostici, avere orientamenti sessuali di ogni tipo, essenziale che tutto sia riconducibile al mercato, alla compravendita, alla dimensione privata, allo scambio misurabile in denaro.
Il liberalismo ci ha ridotti, anzi riconvertiti a plebi desideranti mai soddisfatte, e sta rapidamente dividendo la società in un pugno di straricchi e potentissimi, coadiuvati da minoranze di privilegiati a supporto (il clero regolare e secolare del potere di cui parlava Costanzo Preve), assisi su una enorme platea di nuovi e vecchi poveri, oltre ad un esercito di riserva di miseri da sfruttare ed utilizzare alla bisogna come calmiere, minaccia, spauracchio, esempio da non imitare.
Le quattro libertà liberali si sono rivelate altrettanti imbrogli: libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi, delle persone. Risultato pratico, globalizzazione mondialista come esito economico del liberoscambismo, immigrazione incontrollata di masse transumanti, impoverite, ridotte in schiavitù, utilizzate come ariete per scardinare i popoli; poi finanza sovrana, dittatura del denaro e dei suoi proprietari perché i capitali non tollerano limiti e confini. Quanto i servizi, settore centrale dell’economia contemporanea, basta l’esempio della direttiva Bolkenstein in Europa e l’immenso potere acquisito dalle piattaforme informatiche come Airbnb, Uber e simili che stanno espellendo dal mercato milioni di operatori, sino ai concessionari delle spiagge. Dicono che è per il bene del consumatore, nuova figura mitologica che ha sostituito la persona e lo stesso cittadino, ma la realtà è la solita: restringere il mercato nelle manone sporche ed enormi dei soliti noti.
Sì, perché il racconto liberale del mercato libero è radicalmente falso. Il mercato è libero solo per i più grandi, che fagocitano, strozzano, distruggono tutti gli altri. Paradossalmente, il mercato è libero, ma solo in uscita. Poche migliaia di colossi possiedono tutto; ogni altro soggetto è ridotto a servo, dipendente privo di diritti, precario. In ossequio alle idee di David Ricardo, si produce solo ciò il cui costo è inferiore a quello altrui, distruggendo l’agricoltura tradizionale, ma anche l’industria, il commercio, competenze secolari, saperi e modi di vivere, il tessuto civico e comunitario faticosamente costruito nel tempo. Marx ha perduto, meno male, ma la lotta di classe l’hanno vinta i super ricchi, la plutocrazia avrebbero detto i loschi figuri dei totalitarismi sconfitti. Ha perduto financo Von Hajek, l’arci liberale che però credeva nel mercato aperto, convinto che chi possiede tutti i mezzi determina tutti i fini. Ci siamo arrivati, e comprendiamo la soddisfazione del miliardario Berlusconi, ma non certo il consenso drogato di massa, purtroppo reale, alla falsa narrazione liberale.
Scendiamo nel concreto, e domandiamoci se vivevamo meglio o peggio, prima della tempesta neo liberale che si è abbattuta sul mondo dopo l’evento chiave, la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo reale novecentesco. Dal punto di vista dei diritti sociali, è stato un massacro. Milioni di precari, un esercito di sottoccupati, i giovani come vittime privilegiate, statistiche drogate (anche la matematica è liberale…), per cui chi lavora anche una-due ore settimanali è considerato attivo. La pensione è sempre più un miraggio da spostare nella terza età, mentre l’individualismo vincente – condiviso da tutti i grandi schieramenti politici – proibisce politiche a favore della famiglia e della natalità, le uniche in grado di garantire la riproduzione sociale. La sanità, sempre più privatizzata, giacché anche quella pubblica ha statuto di azienda, costa più di prima; del livello della scuola il tacere è bello, ad esclusione degli istituti di vertice, carissimi, privatissimi, esclusivi. Addio all’ascensore sociale, come si diceva una volta, dal momento che la buona istruzione è a base censitaria più che nel buio passato illiberale.
Il sistema bancario, oggetto della prima grande ondata di liberalizzazioni, leggasi svendita ai grandi gruppi privati, è nelle condizioni che sappiamo. Il conto, però, è a carico di tutti; il sistema di controllo è in mano ad organismi privati – Banca d’Italia, BCE – come dire che arbitro e squadra di casa hanno lo stesso padrone. Gli Stati hanno rinunciato a battere moneta, ovvero si sono spogliati della più importante delle sovranità, e non decidono più nemmeno il tasso di sconto. Niccolò Machiavelli si rivolterà nella tomba in Santa Croce.
Le aziende private stanno peggio di prima. La retorica dell’impresa è una presa in giro, o più precisamente un esempio di neolingua orwelliana: libertà è schiavitù, solo i più grandi sopravvivono, la piccola e media impresa, ormai anche artigiani e professionisti sono soffocati dalle grandi piattaforme tecnologiche. In un solo giorno, quello del Black Friday, un’altra moda americana, il venerdì degli sconti, Jeff Bezos, maggiore azionista di Amazon, si è arricchito di alcuni miliardi di dollari, ed ora il suo patrimonio supera i cento miliardi. Intanto, privatizzano anche l’acqua. Le cosiddette liberalizzazioni non hanno portato benefici per gli utenti, come sbandierato dall’intero sistema politico e mediatico.
Il sistema produttivo è più fragile, tra delocalizzazioni, concentrazioni azionarie, e, da noi, anche per la moneta euro, che ci ha portati a perdere un quarto della nostra capacità industriale. In compenso, dicono che siamo travolti dal debito –la più gigantesca truffa a cui ci hanno sottomesso- e non possiamo destinare il denaro degli italiani alla protezione del sistema produttivo in quanto si configurerebbe – bestemmia antiliberale- il reato di aiuti di Stato. Nelle costituzioni ci hanno imposto di inserire il pareggio di bilancio, ovvero il divieto di svolgere politiche diverse da quelle monetariste legate al dogma falso della scarsità.
Il fisco è più pesante di prima, tra imposte sul reddito, imposte indirette aumentate (IVA), accise, tasse sulle attività economiche che colpiscono financo redditi non ancora generati. In compenso, il sistema bancario paga percentualmente meno dei propri dipendenti e gli Stati non riescono a far pagare i grandissimi: Facebook, Apple, Amazon, Airbnb, Uber, Google sono i più straordinari elusori fiscali del pianeta. Ovvio: possiedono gli apparati tecnologici ed informatici che permettono di schermare, deterritorializzare in un vorticoso girotondo tutte le loro attività. Ai sistemi tributari non resta che spremere piccoli e medi contribuenti. Per loro lo Stato può esistere, per lorsignori no.
Gli Stati, per il modo di pensare ed agire liberale sono anacronismi, fastidi, seccature. Uniche funzioni ammesse, proteggere la grande proprietà privata e garantire un minimo di ordine pubblico, purché, beninteso, costi meno che assumere i nuovi mercenari e capitani di ventura, pudicamente chiamati contractors, legati a multinazionali i cui incroci azionari portano agli stessi giganti. Il banco vince sempre, adesso anche gli Stati possono fallire, in mano ai fondi avvoltoio e dipendenti dal giudizio inappellabile di aziende private, le agenzie di rating, che, guarda caso, sono possedute dai soliti noti. Agli Stati è proibito svolgere politiche industriali, economiche, fiscali, previdenziali autonome e comunque non in linea con il dettato della vulgata liberal liberista, divenuta l’unico criterio ammesso, al di fuori del quale nel migliore dei casi si diventa populisti, Stati canaglia quando l’Impero si sente minacciato.
Diceva Ezra Pound che non tutti i liberali sono usurai, ma tutti gli usurai sono liberali. Lo sanno bene milioni di persone emarginate dalla società in quanto “cattivi pagatori”, secondo insindacabile giudizio del sistema bancario, che agisce in regime di monopolio di fatto, lasciati in balia della povertà, degli usurai illegali, della criminalità, espulsi di fatto dal consorzio civile.
Ma almeno, diranno i sostenitori ad oltranza del liberalismo, tutti hanno diritto di parola, libertà di associazione e di iniziativa politica. Falso: leggi sempre nuove rendono proibite, illegali, proscritte le idee che divergono dal Verbo neo liberale. La politica, poi, e la rappresentanza nelle istituzioni sono sostanzialmente riservate alle diverse correnti del liberalismo trionfante. Per gli altri, tagliole, trappole procedurali, ostacoli di ogni genere per raggiungere lo spazio pubblico, a partire dalla più ovvia delle difficoltà, quella economica. Possiamo votare, ogni cinque anni e con liste più o meno contrapposte. La forma è salva, ma i governi contano pochissimo, camerieri dei banchieri e di poteri estranei ai popoli. Hanno pochissimo potere e scarsi margini di iniziativa. I popoli lo stanno comprendendo, per questo disertano in massa le urne, e risultano ridicole le pensose giustificazioni addotte dai pifferai di regime, come il giurista Zagrebelski, fautore di un non meglio identificato “diritto mite”.
Il liberalismo, nella sua forma attuale globalista, snodo finale di un percorso che attraversa ormai tre secoli, ha poi sostanzialmente abolito la giustizia, lo ius. Disinteressato ai valori morali, incline a giustificare quasi tutto ed a riconoscere come valore universale il solo denaro, sono ben pochi i delitti che combatte. E’ naturalmente inflessibile con chi non paga i conti al sistema e non rispetta la sua proprietà, ma assai blando con ladri, rapinatori, mestatori, persino assassini. La sua ala sinistra, infatti, li protegge in quanto vittime della società. Simmetricamente, la destra del denaro è molto garantista con chi truffa, falsifica bilanci, imbroglia i risparmiatori, evade i tributi per grandi somme. Il risultato è una società con la febbre alta, malata, in cui milioni di persone oneste e normali restano prive di tutela, alla mercé di delinquenti armati e di farabutti in giacca e cravatta, nonché di ceti politici, burocratici e direttivi corrotti e complici.
Il sistema mediatico e dell’intrattenimento, intanto, continua il suo lavoro di condizionamento e di ingegneria a-sociale. Da qualche tempo, hanno individuato un nuovo presunto nemico, la post verità, anzi, nell’inglese obbligatorio, le fake news, false notizie. Il bello, o il brutto, è che la falsificazione è quella che quotidianamente ci impongono attraverso le reti televisive, i giornali di proprietà dei giganti economici e finanziari. E’ talmente enorme la manipolazione che milioni di persone non solo non la riconoscono più, ma si ribellano a coloro che li mettono in guardia dal sistema! Il linguaggio è stato ridefinito sottraendolo alla verità fattuale per mezzo del “politicamente corretto”, in nome del quale non possiamo descrivere la realtà com’è e come la vediamo, ma come il potere vuole che la percepiamo.
La stessa destra liberale del passato è travolta: essa prescriveva comunque un certo rispetto delle forme, delle regole civili e morali, soprattutto chiedeva che la proprietà privata fosse il più possibile diffusa. Lo slogan era tutti proprietari, non tutti proletari come voleva il comunismo. Quel mondo, quei principi sono finiti, travolti dal gigantismo che lascia in campo solo poche centinaia di attori globali, tutti gli altri servi o schiavi. Siamo al punto che tocca difendere il diritto di proprietà dai liberali anziché dai suoi storici nemici con falce e martello. Attraverso il possesso di tecnologie sempre più potenti, sono diventati proprietari anche delle nostre coscienze.
Il destino che pretendono per noi è quello di plebi desideranti, cani di Pavlov che emettono saliva all’idea dell’acquisto, del centro commerciale, della forma-merce. Se non abbiamo i soldi, ecco il credito al consumo, le “comode” rate, i rid bancari, la cessione del quinto dello stipendio e tanto altro. Chi è indebitato fa gioire gli usurai di ogni tipo, e, incalzato dalle scadenze, non potrà ribellarsi per paura, come un insetto imprigionato nella tela del ragno. Liberalizzazioni, liberalismo, libertarismo e consumo illimitato sono fratelli di sangue che, in varie maniere, il secolo trascorso ha tentato di sconfiggere. Qualcuno ha definito il Novecento come l’epoca che ha tentato, fallendo, di ristabilire il primato della politica, ossia delle idee e dello spazio pubblico, sull’economia.
La tragica vittoria liberale fa sì che, nell’opinione corrente, ciò che non è liberale (brr, l’illiberale!) sia considerato malvagità, patologia, da estirpare anche con la forza, come dimostrano le guerre camuffate da polizia internazionale o ristabilimento della pace. L’Italia ha svolto disciplinatamente il suo compitino di servizio: pagare, partecipare in seconda fila, spargere il sangue dei propri figli.
Il mercatismo vigente, il liberalismo globalista sono presentati come la fine della storia ed il migliore dei mondi possibili, anzi il compimento necessario della storia in progress. Cooptate le destre e le sinistre nel calderone unito dal mercato, hanno diffuso un grottesco antiautoritarismo strumentale, frutto della lezione distruttiva di Deleuze, Guattari, Foucault, Marcuse, venerati maestri del nulla, sino a Negri ed Hardt, finti comunisti teorizzatori di una moltitudine subumana indistinta, spinta dal desiderio, affascinata da un cosmopolitismo astratto e adepta del nomadismo fisico e subculturale. Hanno costruito anche una opposizione ad essi funzionale, i no global che in realtà sono new global, o altermondialisti, la cui unica obiezione all’universo liberale riguarda la richiesta di minore ingiustizia sociale: più consumo per tutti, un enorme outlet a buon mercato in cui il rito pagano degli sconti sia celebrato almeno una volta al mese.
Il liberalismo è riuscito financo a decostruire le vecchie classi sociali, sostituite con il nuovo viandante globale nel pianeta consumo. Finita anche la borghesia, le nuove classi alte, dirigenti d’impresa, azionisti delle società quotate in borsa, accademici, sono pervasi da quella distruttiva “furia del dileguare” che Hegel criticava nel sistema di Rousseau, ovvero l’abolizione di ogni intermediazione sociale o morale, che sfocia nel vuoto esistenziale. Nuove classi opportunamente formate a vivere senza “coscienza infelice”, lontani dai rimorsi, estranei alla dimensione etica, indifferenti all’Altro.
Ha fatto abbastanza danni, ha disseminato abbastanza macerie la rivoluzione liberale compiuta da almeno trent’anni a questa parte. Piace a Berlusconi quanto a Renzi, Macron, Draghi e all’intera élite occidentale, è la religione secolare dell’oligarchia, destra del denaro, sinistra dei costumi, centro degli affari. Pessimi testimonial davvero, per usare il loro lessico pubblicitario, se l’albero si giudica dai frutti. Alla larga, dunque. E poiché enorme è stata la vittoria, più rovinosa sarà la caduta, quando avverrà. Speriamo di assistere almeno ai preliminari di una rivoluzione antiliberale, o almeno di una rivolta morale e civile che spazzi via l’interminabile menzogna degli arroganti di oggi.
ROBERTO PECCHIOLI