di Roberto PECCHIOLI
Il governo britannico ha istituito il ministero della solitudine. L’ orgoglioso impero che fu della regina Vittoria e della Compagnia delle Indie alza bandiera bianca. Fu proprio la vecchia Inghilterra la prima patria dell’individualismo, da Locke a Hume passando per l’utilitarismo di Bentham e l’economia degli scozzesi, Smith e Mandeville. Prima di loro, Thomas Hobbes teorizzò che homo homini lupus, dunque va tenuto a freno con le spicce da governi ferrei. Theresa May, primo ministro britannico, forse per sensibilità femminile, ha colto qualcosa di profondo: il tempo presente, in Occidente, è quello della disgregazione, della depressione, della solitudine.
Crediamo che la decisione sia la più clamorosa ammissione di sconfitta fatta da un sistema politico, economico e sociale. La solitudine, nel Regno Unito, coglie almeno dieci milioni di sudditi, un sesto della popolazione ed è certamente una delle cause principali dell’alcolismo, delle dipendenze, della depressione, dei suicidi. Sembra più diffusa tra le classi medie che tra i poverissimi, ma non è altro che l’esito naturale di un modo di vivere – l’individualismo, l’inseguimento di carriera, successo, denaro – che inevitabilmente allontana dagli altri. Se per Aristotele, l’uomo era un animale sociale, o politico, la cui realizzazione avveniva nella concretezza della polis, per l’occidentale postmoderno vale la drammatica convinzione di Max Stirner: l’Unico. Secondo il pensatore tedesco della sinistra hegeliana il solo modo di salvare l’uomo da ogni forma di schiavitù politica, culturale o religiosa consiste nell’esaltarlo come valore assoluto. Il singolo diventa l’Unico, il cui compito è appropriarsi di una sola, autentica proprietà, se stesso.
Potremmo ricordare come il protestantesimo del nord Europa e della Gran Bretagna, nella forma dell’anglicanesimo radicale dei puritani, pervenga per sentieri diversi ad uguali conclusioni, con l’uomo solo dinanzi al mistero del tutto, impegnato parossisticamente nella vita activa per dimostrare a se stesso di possedere la grazia. La conseguenza, dimenticato ogni riferimento alla trascendenza, è la solitudine successiva allo scatenamento delle passioni umane.
Theresa May, almeno, si è resa conto del problema e vuole fare qualcosa; dubitiamo tuttavia che il neonato ministero possa ribaltare la situazione. Tutt’al più, metterà in campo qualche assistente sociale con l’incarico di suonare il campanello degli inglesi in orario d’ufficio, esclusi il fine settimana e le feste comandate. L’esponente conservatrice è una distinta sessantenne sposata senza figli, una condizione condivisa con la paffuta Angela Merkel, mutti, mammina sterile dei tedeschi. Paolo Gentiloni dei conti Silverj, taciturno capo del governo italiano non sfugge alla triste regola, come il francese Emmanuel Macron, a non contare i figli di primo letto della moglie Brigitte Trogneux, di un quarto di secolo più anziana, tre volte madre e nonna di sette nipoti. Tra i maggiori leader governativi europei, solo lo spagnolo Mariano Rajoy ha due figli. Esiste indubbiamente un collegamento tra la solitudine esistenziale che si è impadronita del nostro spazio e il rifiuto della paternità/maternità e della responsabilità. Poiché Rajoy è galiziano, citiamo un detto della sua terra: todo es empeorable, tutto può peggiorare.
Luciano De Crescenzo, nel suo delizioso Così parlò Bellavista, insegnò che esistono uomini d’amore e uomini di libertà. I secondi sarebbero più inclini alla solitudine individuale, e il professore napoletano indica noi mediterranei come uomini d’amore, maggiormente portati alla comunità. De Crescenzo scriveva negli anni Ottanta e da allora il panorama è peggiorato ovunque, il clima sociale si è deteriorato anche dalle nostre parti. Gabriel Garcìa Marquez chiamò Cent’anni di solitudine la storia del villaggio di Macondo e della famiglia Buendìa, ma si trattava solo dell’isolamento geografico che preservava l’immaginaria comunità dal contatto con il mondo esterno. Un solitario della vita fu il presidente portoghese Salazar. Nella sua ultima intervista, al giornalista che lo accusava di aver tenuto la nazione fuori dalla modernità per decenni, l’anziano economista cattolico rispose: E le pare poco?
Lo scrittore spagnolo Camilo José Cela pubblicò nel 1952 la sua opera più significativa, La colmena, L’alveare, una storia neo realista ambientata in una Madrid post guerra civile povera, difficile, ma umanissima, un alveare in cui, tra mille dolori, sussisteva una certa solidarietà, un filo comune di vita. Oggi nessuno potrebbe scrivere un romanzo simile. L’alveare, i condomini cittadini e le villette suburbane sono i contenitori di tribù ostili, di individui solitari e disadattati, monumenti allo sradicamento che rende soli tra la folla. Tutti si affannano per fare qualcosa, anzi per produrre ciò che è misurabile in denaro. Ivan Illich predicò invano il ritorno alla convivialità, alla lentezza pacata della bicicletta, Serge Latouche ci invita a sgomberare, decolonizzare, il nostro immaginario da un mondo di beni e sensazioni con il cartellino del prezzo.
Fino a trenta, quarant’anni fa, la solitudine era piuttosto rara. Per qualcuno era una scelta, ma in genere le famiglie erano numerose e più generazioni convivevano sotto lo stesso tetto. Qualche volta sfuggire alla “tribù” era una conquista di libertà, ma rimaneva, da qualche parte, un’Itaca dove tornare, un luogo dell’anima dove qualcuno ci avrebbe accolto, qualcuno con la nostra stessa faccia e con ricordi, legami, esperienze comuni.
Il filo forse non è del tutto spezzato, ma si è aggrovigliato come certe matasse di lana. Enrico Montale rese splendidamente tale condizione nella Casa dei Doganieri: “un filo s’addipana. Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità.”
La solitudine nostra, che nessun ministero può alleviare, è quella delle porte sbarrate, dei nonluoghi dove ci affolliamo per le esigenze della contemporaneità: gli aeroporti tutti uguali, con percorsi prefissati e blocchi di sicurezza, gli unici dove qualcuno ci interpellerà; gli interminabili raccordi delle autostrade e delle tangenziali per raggiungere l’alveare- casa, l’alveare- lavoro e l’alveare-centro commerciale. Masse solitarie in marcia, afflitte dal nomadismo quanto infastidite dalla presenza del prossimo che fa esattamente le stesse cose. Si spiega facilmente il successo di sette e gruppi religiosi che offrono a tanti uomini e donne sradicati e soli un minimo di assistenza, una presenza cui aggrapparsi, una causa cui votarsi. Non è solo un problema degli anziani, malvisti per mille motivi riassumibili in uno: non sono produttivi.
Un numero crescente di giovani sono soli in quanto privi di fratelli con cui crescere, ma anche di genitori, famiglie sfasciate o mai nate, padri e madri troppo impegnati nella realizzazione dei propri obiettivi, spesso semplicemente costretti a tirare la carretta lontani da casa. E’ altrettanto normale che per milioni di ragazzi l’unico rifugio sia il gruppo dei coetanei, le fratrie, e la connessione continua che sostituisce il mondo reale, gli hikikomori, la parola giapponese che indica i solitari inchiodati davanti al computer, prigionieri di una nuova agorafobia. Soli, specie i giovani, anche di fronte al peso delle decisioni da prendere: nessuno ha addestrato alla responsabilità, si naviga a vista, con le istruzioni online per tutto, un immenso GPS esistenziale che sfibra e rende soli davanti alla macchina che decide, la nuova coperta di Linus.
Al supermercato si sta in fila, solitudini di prossimità che non si toccano né raggiungono; siamo diventati come le parallele della geometria, che si incontrano solo all’infinito. Su tutto, un individualismo stizzoso e competitivo, la guerra dei bottoni per un posto a sedere, la divisione delle spese condominiali, e, a salire, la lotta cinica senza esclusione di colpi per quello che definiamo successo. La solitudine dei numeri primi è il fortunato romanzo d’esordio di Paolo Giordano. I due protagonisti sfortunati, Alice e Mattia, hanno, o forse sono, numeri primi gemelli, 2.760.889.966.649 e 2.760.889.966.651. Sembra uguale il destino comune, ognuno è un numero primo. In matematica si definiscono numeri primi quelli che possono essere divisi solo per uno o per se stessi. Numeri solitari, come gli umani contemporanei, con una grande differenza: i numeri si possono moltiplicare, la solitudine si può soltanto dividere con se stessi.
Molti, purtroppo, non sono più in grado di reggere spiritualmente la solitudine, anche momentanea. Ci hanno disabituato all’introspezione, alla riflessione: stare soli diventa una tortura intollerabile. Le personalità narcisiste, tanto numerose, hanno bisogno degli altri esclusivamente per mostrarsi, l’Altro non è che pubblico da cui ci si attende applauso, invidia, approvazione. Ogni nostra stranezza personale non è più bizzarria, ma originalità indiscutibile. Pensare a se stessi non è più egoismo, ma saper vivere, nuotare nel mare del mondo.
Il rimedio è sempre più spesso il ricorso alle cure farmacologiche o alla psicoterapia,la medicalizzazione della vita contro cui si scagliò Illich. Gli esperti curano, eventualmente, gli effetti, non certo le cause. Per molti la discesa progressiva significa alcolismo, droghe, dipendenze di vario genere, l’ansia, lo stress, e innanzitutto la depressione. Sarà qualunquismo da strapaese, ma nelle generazioni passate, specialmente tra i poveri, non si conosceva la depressione. Forse mancava il tempo per deprimersi, nonostante vite più difficili. Giuseppe Berto nel romanzo Il male oscuro analizzò in profondità il male di vivere che si fa depressione. Solitudine e depressione non sono sinonimi, ovviamente, ma esiste un collegamento profondo tra le due situazioni. Sicuramente, l’individualismo è il filo che le unisce.
Le sconfitte della vita, i problemi, le difficoltà, le inadeguatezze vissute come disfatte esistenziali diventano drammi soprattutto per chi è solo. Il vero dramma è che la spinta formidabile del mondo esterno è verso modi di vita, comportamenti, attitudini legati alla solitudine. Se l’unico valore, l’unica proprietà è l’Io (Stirner), il prossimo è un problema, un ostacolo, oppure un concorrente da sconfiggere. Abbiamo inventato persino la teoria dei giochi, ovvero un modello per metà matematico e per metà psicologico atto a programmare le decisioni individuali in situazione di conflitto o in interazione strategica con altri soggetti rivali, finalizzate al massimo guadagno. Il mondo che viviamo, i nostri cent’anni di solitudine, assomigliano ad un curioso equilibrio di Nash, il sistema di strategie della teoria dei giochi in cui nessuno ha più interesse a cambiare. Quando nessuno è più in grado di migliorare il proprio comportamento, per cambiare, occorre agire insieme: dunque collaborare, uscire dalla solitudine imposta, ridare credito agli altri.
E’, giunti a questo punto, un’operazione di enorme difficoltà. Il ministero della solitudine di Sua maestà britannica almeno ha il merito di mettere il dito nella piaga, ma la ferita non può essere cucita dalla burocrazia, e, soprattutto, da un atteggiamento generale che non metta in discussione i fondamenti del nostro vivere. Il piano inclinato ha ormai due secoli, e può essere rappresentato nel paragone con l’arte figurativa. Nel tempo, essa ha cessato di rappresentare l’uomo e la natura, per rifugiarsi nell’astratto, nel surreale, nell’assurdo. Esattamente duecento anni fa, Caspar David Friedrich dipinse il Viandante su un mare di nebbia. Era ancora un uomo ben strutturato, solitario, ma vestito con cura, provvisto di bastone; sembra regnare solitario su una natura nemica, dallo scoglio da cui osserva la nebbia, le vette spigolose dei monti. Al termine del secolo XIX l’arte lanciò il segnale lancinante dell’Urlo di Munch, il grido senza volto di un essere disperato, preda del terrore, anch’egli solitario. Il XX secolo ci ha consegnato un’arte in cui l’uomo è assente, se non in forme anormali, mostruose. Un’umanità sola, turbata, disperata, nemica.
Si deve citare anche la solitudine interiore, l’esilio spirituale di alcuni, coloro che non possono, riescono o vogliono adattarsi al modo corrente di vivere. Una ulteriore classe di perdenti in quanto irriducibili al tipo umano dominante.
Chissà quali saranno le concrete azioni del nuovo ministro britannico della solitudine, speriamo di cuore che possa alleviare la vita quotidiana di qualcuno, ma nulla potrà se a Londra come in tutto l’Occidente non si lavorerà per la sconfitta politica, economica, antropologica dell’individualismo e dell’uomo-massa, i patroni della solitudine.
ROBERTO PECCHIOLI