Chiesa, il problema non è la pedofilia. E’ l’omosessualità

Riccardo Cascioli

Nuova Bussola Quotidina

 


Lo scandalo per gli abusi sessuali in Cile
 è ormai una mina vagante che rischia di esplodere anche a Roma. I fatti sono ormai noti e ruotano attorno alle coperture eccellenti – cilene anzitutto ma ora anche romane – di un famoso sacerdote cileno, padre Fernando Karadima, leader di una comunità da cui sono usciti diversi preti e vescovi, tra cui il contestatissimo Juan Barros, al centro della vicenda che ora vede protagonista anche papa Francesco.

Proprio la credibilità di quest’ultimo nel trattare i casi di pedofilia è ormai apertamente messa in discussione anche da testate progressiste, dopo quanto accaduto alla fine della recente visita in Cile. Già nel mirino per avere, nel gennaio 2015, nominato Barros vescovo di Osorno malgrado la forte opposizione di una parte dell’episcopato cileno e dei fedeli di quella diocesi, le dichiarazioni di papa Francesco al termine della visita in Cile hanno sollevato un vero e proprio polverone. A chi gli chiedeva conto di questa nomina, il Papa – con parole forti – ha risposto parlando di calunnie e mancanza di prove nei confronti del vescovo Barros, concetto poi ribadito nella conferenza stampa in aereo anche se cercando almeno di correggere la terminologia (ma dopo un pubblico comunicato di censura firmato dal cardinale O’Malley, uno dei nove consiglieri chiamati dal Papa a ridisegnare la Curia romana, che è anche a capo della Commissione vaticana per la tutela dei minori). Inoltre papa Francesco aveva affermato di non aver mai ricevuto nulla dalle presunte vittime di abusi che accusasse Barros.

Ora invece, il documento pubblicato due giorni fa dall’Associated Pressdimostrerebbe esattamente il contrario: sarebbe stato proprio il cardinale O’Malley a consegnare al Papa nell’aprile 2015 una lettera di otto pagine in cui una delle vittime di padre Karadima racconta nei dettagli gli abusi subiti e la responsabilità diretta di Barros.

Peraltro questa smentita della versione del Papa sembra essere la ciliegina sulla torta di un atteggiamento che già aveva suscitato forti perplessità. Nel 2014 infatti papa Francesco aveva già disposto che monsignor Barros rinunciasse al ministero episcopale salvo poi ritornare sui suoi passi, nominarlo vescovo di Osarno e difendere la sua nomina a spada tratta, malgrado le critiche della Conferenza episcopale cilena. Il Papa non ha spiegato neanche al ritorno dal Cile il motivo di questo repentino cambio di indirizzo, ma fonti vaticane indicano nel cardinale Francisco Javier Errazuriz la vera causa della trasformazione. L’ex arcivescovo di Santiago è infatti nel famoso C9 (consiglio dei nove cardinali) che affianca il Papa nel disegno di riforma della Curia. Errazuriz gode certamente della fiducia e della stima di papa Francesco, che infatti lo ha voluto nel C9, ma in Cile è ritenuto il grande “insabbiatore”, colui che per anni ha impedito che si prendessero provvedimenti nei confronti di Karadima e ritardato ogni accertamento della verità. Facile pensare che nell’atteggiamento del Papa abbia molto pesato il ruolo dell’anziano cardinale cileno.

Ma a parte la ricostruzione della vicenda Barros, il caso del Cile è importante perché conferma ciò che già è noto ma viene sempre censurato. Ovvero i cosiddetti casi di pedofilia sono in realtà nella stragrande maggioranza problemi di omosessualità. Come noto, la pedofilia propriamente detta riguarda l’attrazione degli adulti nei confronti di bambini prepuberi. Quando si tratta di adolescenti si deve invece parlare di efebofilia e ha per protagonisti persone omosessuali. È ciò di cui parliamo per il Cile, ma riguarda almeno l’80% dei casi che passano erroneamente alla cronaca come casi di pedofilia nella Chiesa. Questa è almeno la casistica che emerge dai rapporti del John Jay College sui casi registrati nella Chiesa americana.

Potrebbe sembrare una differenza da poco – sempre di abusi su minori si tratta, si potrebbe dire – e invece è un punto fondamentale, perché permette di dire con chiarezza che il problema nella Chiesa non è la pedofilia ma l’omosessualità. È questa una realtà che si vuole occultare perché sgradevole alla lobby gay impegnata a promuovere la normalizzazione dell’omosessualità nella Chiesa. Soprattutto in questi ultimissimi anni stiamo assistendo a una offensiva omosessualista senza precedenti, ormai arrivata ad attaccare il Catechismo, come abbiamo visto proprio nei giorni scorsi. Il caso dei corsi per fidanzati omosessuali a Torino – ora sospesi dopo la reazione suscitata – e la benedizione per le coppie omosessuali avallata dal cardinale Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca, sono soltanto gli ultimi episodi.  È chiaro che si gioca sull’equivoco dell’accoglienza delle persone con tendenze omosessuali – che è doverosa – per far passare l’omosessualità, che è invece “un disordine oggettivo”. Non a caso nella Chiesa italiana, ad esempio, vengono ostacolate quelle esperienze di accompagnamento che sono nel solco dell’insegnamento della Chiesa – come Courage e l’Associazione Lot di Luca di Tolve – per dare spazio invece a quelle associazioni che promuovono l’esperienza Lgbt, che sostengono che l’omosessualità sia un orientamento sessuale tale e quale all’eterosessualità.

È la riprova di quanto la lobby gay si sia ormai radicata nella Chiesa; anzi, possiamo affermare con sicurezza che è in atto una scalata all’interno della gerarchia ecclesiastica, con l’occupazione di posti chiave in Vaticano e in molte diocesi e organismi ecclesiali (per non parlare dei media, vedi il caso Avvenire). Si può tranquillamente affermare che la lobby gay non è mai stata tanto potente nella Chiesa, e anche il pasticcio cileno è figlio di questo strano intreccio di legami torbidi e ricatti.

Proprio questo fattore rischia di vanificare gran parte del lavoro fatto durante i pontificati di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per colpire gli abusi sessuali sui minori. Lo dimostra anche il recente depotenziamento della sezione disciplinare della Congregazione per la Dottrina della Fede chiamata ad occuparsi dei casi di abusi sessuali da parte del clero: fino a pochi mesi fa erano dieci gli ufficiali della Congregazione che si occupavano dei voluminosi dossier al riguardo; proprio per la mole di lavoro era stato promesso un aumento dell’organico, invece l’improvviso licenziamento di tre sacerdoti da parte del Papa (senza dare ragioni, denunciò l’allora prefetto cardinale Gerhard Müller) ha ridotto a sette gli incaricati, e senza alcuno che sia di madrelingua francese e inglese.

In altre parole, la vicenda Barros non è un episodio isolato, è solo la punta dell’iceberg.