di Roberto Pecchioli
La fine del lavoro è il titolo di un celeberrimo saggio del 1995 di Jeremy Rifkin, in cui il sociologo americano profetizzava che la terza rivoluzione industriale allora in corso, quella dell’avvento del computer, avrebbe lasciato in eredità una disoccupazione strutturale. Facile profezia, brillante nella diagnostica, acuta nella prognosi e scadente nella terapia, giacché l’unica soluzione proposta era la diminuzione dell’orario di lavoro, possibile solo al termine di un profondo salto di paradigma rispetto alla logica di profitto e dominazione che guida il capitalismo contemporaneo. Tuttavia, è da Rifkin che dobbiamo partire per uno sguardo sul presente e sul prossimo futuro, in cui la sua previsione diventa drammatica realtà.
In Italia, al di là dei proclami trionfalistici dei servitori del potere, non solo la disoccupazione reale non scende, ma si apprende che oltre 600.000 persone – il tre per cento del totale, la popolazione di una regione come la Basilicata- sono considerati occupati nonostante lavorino meno di dieci ore settimanali. Nella più ottimistica delle ipotesi, il loro reddito non supera i 400 euro mensili. Il numero dei richiedenti il sussidio di disoccupazione è cresciuto di circa tre punti e mezzo nell’anno trascorso, mentre il numero dei poveri non solo aumenta, ma coinvolge ormai moltissimi che un lavoro ce l’hanno. Secondo qualificate analisi, sarebbero 18 milioni – il trenta per cento della popolazione – i cosiddetti working poors, ovvero i poveri nonostante in famiglia esista un reddito. L’unico dato in crescita (più 120 per cento!) è quello dei contratti di lavoro intermittente. Intermittente, come le frecce dell’automobile…
Oltre 20 anni or sono, Rifkin non poteva conoscere le conseguenze di quello che abbiamo definito capitalismo di Mefistofele, un sistema sociale, economico e culturale che non soltanto si considera unico e immodificabile, ma lavora per strappare l’anima a miliardi di persone. Per di più, a differenza del diabolico personaggio del Faust di Goethe, presenta il conto alle vittime. E’ ragionevole affermare che se le prime due rivoluzioni industriali hanno inverato la “distruzione creatrice” descritta da Joseph Schumpeter, cambiato il mondo in profondità ma senza distruggere il lavoro, la terza ha ribaltato la situazione. Gli anni che viviamo sono quelli di una ulteriore fase, caratterizzata da tecnologia informatica, cibernetica e automazione. Tutti fenomeni che distruggono gli equilibri precedenti trasferendo quote enormi di potere e di risorse nelle mani di una minoranza piccolissima senza minimamente distribuire reddito o creare lavoro. La sconfitta delle ideologie nemiche del liberismo economico ha fatto il resto, rendendo debolissima la resistenza nei confronti della nuova realtà.
I corifei dei tempi nuovi si affannano a convincerci che tutto va per il meglio, ma risultano poco credibili: alla prova dei fatti, il verdetto della strada è impietoso. In prima fila ci sono i media del progressismo cosmopolita. Su Repubblica è comparsa una lunga intemerata di Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley, intitolata “Il robot in fabbrica. Più lavoro se cresce la produttività”. La tesi di fondo, non nuova, è che tutto si aggiusterà, e altri impieghi sostituiranno senz’altro i milioni di posti sottratti dall’automazione. Che fine farà l’aumento della produttività in un mondo dove mancano i mezzi per spendere, non è chiaro. Il professorone è costretto ad ammettere che “l’automazione influenzerà sicuramente il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica”.
Si preparino i giovani, e non solo loro, a un destino di nomadi con il trolley in mano e qualche suppellettile dell’Ikea al seguito. Carl Schmitt scriveva negli anni 20 del secolo XX che il nuovo è talmente pieno di sé da non aver bisogno di alcuna legittimazione giuridica; la coscienza moderna nasconde l’aggressività nella concezione acritica del progresso. Il “nuovo” è legittimo in quanto tale. Il grande giurista ammonì che il libro più importante sarebbe diventato l’orario ferroviario; i tempi corrono, siamo passati all’ app con i voli low cost per la generazione Erasmus. Elogio della follia.
Secondo Moretti, il futuro premierà i titolari di master in nuove tecnologie, mentre tutti gli altri “perderanno terreno”. Decifrato il linguaggio – la crittografia è un elemento del nuovo che avanza- significa che pochi fortunati in grado di ottenere determinate specializzazioni in università esclusive e costosissime, avranno moltissimo, tutti gli altri rimarranno a bocca asciutta. Alla faccia della proclamata uguaglianza delle opportunità!
Le due scommesse più importanti riguardano le tecnologie informatiche che stanno spostando su piattaforme digitali la richiesta di beni e servizi – pensiamo a Uber per i trasporti, Airbnb per gli affitti brevi, la consegna di cibo da strada (sinonimo di spazzatura), Amazon per le vendite a distanza – e l’intelligenza artificiale (A.I.) in grado di costruire robot per ogni mansione. Un altro entusiasta maestro cantore, sulla Stampa, organo domestico della ex Fiat, padroni progressisti con domicilio fiscale in Olanda e Stati Uniti, celebra la possibilità che l’intelligenza artificiale faccia aumentare i profitti del 38 per cento entro il 2020 e anche l’occupazione “se investiremo in una efficace cooperazione uomo-macchina”. Difficile capire che cosa significhi, c’è sempre il trucco nelle subordinate degli economisti di servizio. Più chiara è la somma di 4,8 trilioni di dollari di crescita dei profitti che scatena il giubilo del giornalista embedded.
Resta un unico piccolo problema, giacché “milioni di lavoratori in tutto il mondo dovrebbero inventarsi un nuovo ruolo e una nuova funzione “. Fortunatamente sono già stati sperimentati i robot giornalisti, con programmi digitali i cui algoritmi catturano in tempo reale le informazioni in rete, le collegano tra loro e fanno articoli d’attualità, talché è segnato anche il destino del gazzettiere torinese. Non è inutile ricordare che almeno il 90 per cento delle notizie che ci raggiungono proviene da cinque- sei grandi agenzie, di proprietà dei soliti noti: Mefistofele ha conquistato il campo.
Secondo Newsweek, venerato Vangelo liberal, l’intelligenza artificiale toglierà il lavoro a circa due milioni di americani entro il 2020. Altrettanti impieghi si creeranno, affermano con un eccesso di ottimismo, ma solo fintantoché la tecnologia non riuscirà a sostituirli con altri apparati, il che non pare difficilissimo, giacché si tratterebbe di operatori del medesimo sistema digitale e cibernetico. Il futuro appartiene dunque a una élite di cervelloni con la valigia in mano, titolari di master delle grandi università.
Chi vorrà testardamente restare a casa propria, non ha i mezzi per procurarsi il tipo di preparazione richiesta, o non è versato per quelle attività è e sarà sempre più un paria, ossia, in linguaggio americano, un perdente. Del sistema Amazon sappiamo: i dipendenti –chiamarli collaboratori fa più fine –corrono come lepri al suono di tamburi segnatempo, muniti di braccialetti a radiofrequenza, in attesa di ricevere i pacchi dai droni e competere con i robot. I veri pacchi sono i lavoratori, da spostare a piacimento, retribuiti con gli spiccioli e senza le tutele costate un secolo di battaglie.
E’ questo il sintomo sicuro della natura perversa del sistema. Mefistofele ha comprato l’anima delle forze culturali, politiche e sociali che, dall’Ottocento e sino alla fine del Novecento, si sono opposte ai suoi piani: innanzitutto le sinistre, ma anche i fautori della dottrina sociale cattolica sino alle destre fagocitate dal liberalismo puro e duro dei privatizzatori del mondo. Il vasto arco di chi si oppone alla deriva è frammentato, confuso, incapace di una risposta organica. Un esempio viene da “Inventare il futuro”, un saggio presentato come manifesto di una rinnovata sinistra radicale e digitale. Prendendo posizione a favore dell’automazione, gli autori non vanno oltre un orizzonte già sconfitto dai fatti. Proclamano: pretendi la piena automazione; pretendi il reddito universale; pretendi il futuro.
Stupisce l’ingenuità di chi è convinto che un’economia del tutto automatizzata libererebbe dalla schiavitù del lavoro, producendo quantità sempre più grandi di ricchezza. Utopie già sbaragliate dalla volontà di potenza del liberalcapitalismo, e la prova della schiacciante vittoria di Mefistofele, che ha conquistato l’anima di coloro che sfrutta. Ebbero ragione gli antichi, osservando che Giove toglie la ragione a chi vuole rovinare. Ed anche la vista, giacché è sotto gli occhi di tutti la perdita di ricchezza per la maggioranza, la diminuzione del lavoro qualificato, mentre la fatica che le macchine hanno tolto a milioni di esseri umani si è soltanto trasferita.
“Lo scopo del futuro è la disoccupazione totale. Così potremo divertirci” scherzava il futurologo e scrittore di fantascienza Arthur Clarke, scomparso circa dieci anni fa. Sapeva già, probabilmente, che l’intelligenza artificiale avrebbe fatto irruzione nelle nostre vite con una forza paragonabile a quella di Internet. I software dei robot umanoidi intelligenti, attraverso algoritmi detti evolutivi, sono già in grado di trovare soluzione a problemi senza che sia stato spiegato loro come trovarla. Prestissimo gli investimenti del settore manifatturiero si allocheranno presso chi disporrà delle migliori infrastrutture robotiche. Bracci artificiali ultra sensibili dotati di mani con diverse dita messi a punto da un’azienda di Taiwan sono in procinto di sostituire rapidamente il milione di operai cinesi utilizzati nella produzione del popolarissimo iPhone 6.
La robotica di servizio varrà da sola, nell’area europea, 100 miliardi di euro entro il 2020. L’americana Kiva System è stata assorbita per 800 milioni di dollari da Amazon, allo scopo di fornire al colosso di Jeff Bezos i carrelli intelligenti per i centri di spedizione. Google non è da meno, con l’acquisto di Meka Robotics, in grado di produrre robot destinati a lavorare con gli uomini. In Giappone lavorano ad apparati con sistemi di visione tridimensionale e Google ha effettuato anche il gran salto nella robotica militare, con Big Dog, robot a quattro zampe in grado di raggiungere i 50 km all’ora e Wild Cat (gatto selvaggio!), agile come i felini, che salta, si gira e fa svolte di 90 gradi.
Ciò significa che siamo entrati nell’era della concorrenza tra apparati automatizzati e uomini. I robot sono in grado di svolgere funzioni complesse sinora riservate al cervello umano, e la tecnologia si affina a velocità enorme. Uno studio di Oxford su 702 mestieri e professioni afferma che negli Stati Uniti entro 20 anni il 47 per cento degli impieghi potrebbero essere affidati a macchine intelligenti. Dunque, non saranno solo i colletti blu a sparire, ma identica sorte toccherà a moltissimi impiegati, professionisti, quadri. Con buona pace dell’ottimismo del professor Moretti, gran parte dei lavori perduti non si recupereranno più.
Qualcuno, con un efficace gioco di parole, ha sostituito la distruzione creatrice di ieri con la “disruption creative” o disruptive innovation, innovazione devastante. La rivoluzione digitale cambia fulmineamente l’intera prospettiva della produzione e degli affari. Esempio di scuola è Kodak, gigante della fotografia con 140 mila dipendenti e 30 miliardi di capitalizzazione in Borsa, fallita nel 2012 per aver perduto la battaglia del digitale. Instagram, nello stesso anno, minuscola realtà con 13 dipendenti titolare di un’applicazione per diffondere foto in telefonia cellulare, passava a Facebook per oltre 700 milioni di dollari. Due anni più tardi Zuckerberg avrebbe messo sul tavolo 19 miliardi per acquisire Whatsapp, la messaggeria istantanea.
I settori della disruptive innovation vivono in regime di sostanziale monopolio. L’industria musicale, per l’emersione delle “piattaforme” di diffusione ha già dimezzato i suoi organici. Il meccanismo delle piattaforme di messa in connessione sopprimono l’intermediazione tra clienti e fornitori, ma soprattutto trasformano il rapporto di lavoro in una collaborazione ultra flessibile, a chiamata. Fuori gioco sindacati, contratti e leggi sociali, esautorato il ruolo di controllo degli Stati e scavalcate le legislazioni fiscali, pongono a carico di chi fornisce i servizi i rischi d’impresa e i costi generali. Uber ha un giro d’affari superiore ai 10 miliardi di dollari con circa mille dipendenti e sta distruggendo il lavoro dei tassisti e dei noleggiatori di auto. Analogo dumping realizza Airbnb nel settore alberghiero. Amazon contatta venditori saltuari con chiamata su smartphone, mentre si fanno strada le piattaforme di recapito di pasti a domicilio.
Pochissimi dipendenti governano una pletora di collaboratori privi di assicurazioni sociali e dal reddito minimo. Questo è il risibile significato di diventare imprenditori di se stessi, più realisticamente gig economy, l’economia dei lavoretti. Il travolgente successo è dovuto al basso costo per il consumatore, che viene illuso da un modesto recupero di potere d’acquisto e non si rende conto di contribuire per miope egoismo all’ulteriore precarizzazione della società. Inoltre, i suoi gusti e le sue scelte, governate dall’alto, eterodirette, al ribasso, altro non sono che la volontà di chi dirige il gioco per creare consumatore schiavi, pronti ad acquistare paccottiglia a credito convinti di aver fatto scelte smart, furbe.
Il sistema pensa a tutto, promette un’economia di condivisione (sharing economy), ma l’utopia digitale è travolta dalla logica puramente mercantile delle super corporazioni, ogni giorno più ricche e potenti. Entro il 2025, l’automazione farà scendere del 16 per cento il costo del lavoro: tutto si risolverà in ulteriore profitto. L’economista francese Daniel Cohen ha parlato apertamente di rivoluzione industriale senza crescita, poiché la metà degli impiegati di oggi rischiano il licenziamento, resi obsoleti da automobili senza pilota, traduttori intelligenti, robot esperti in diritto, algoritmi di diagnostica medica, banche e negozi senza personale. Uno dei mercati più interessanti sembra essere quello dei cobot, i robot collaboranti, destinati a soppiantare le badanti. Afferma Eric Schmidt di Google: “I lavori realmente interessanti sono oggi quelli di creazione di robot capaci di riconoscere i movimenti dell’uomo e interagirvi”.
L’homo numericus sarà ancora più solo, in compagnia di cobot privo di confronto intellettuale. Anche per assumere o licenziare, l’algoritmo affidato alle macchine sembra più affidabile del funzionario umano. Grande progresso, i tagliatori di testa non avranno più nome e cognome. Il finale di questa rivoluzione sembra scritto: resteranno appannaggio degli esseri umani solo le professioni ad alto valore aggiunto di creatività e, all’opposto, i residuali compiti di fatica. Secondo Nuriel Roubini, economista à la page, una manodopera limitata al 20 per cento di quella attuale. Non sappiamo se le previsioni siano attendibili e i tempi saranno quelli incalzanti della tecnologia, ma è certo che aveva ragione Gunther Anders a denunciare, inascoltato, che l’uomo è antiquato.
Naturalmente, la cupola sa che un mondo siffatto è una bomba pronta ad esplodere. Per questo, ha già immaginato il rimedio per la larga fetta di umanità esclusa dallo loro festa: un modesto reddito universale in grado di depotenziare la frustrazione sociale, evitando rivolte e incanalando l’ormai ex homo sapiens verso un destino di consumatore compulsivo, moderatamente soddisfatto, un leone addomesticato sempre all’erta per scoprire, smartphone alla mano, le offerte speciali generosamente prodotte dal sistema. L’idea è che versando una piccola rendita vitalizia verrà soffocato il senso di ingiustizia, il desiderio di vita, la ribellione.
Incidentalmente, la fine del lavoro diventa anche la morte dei veri diritti civili, a partire dai contratti sino alle assicurazioni sociali. Lo Stato arretra e declina sino all’irrilevanza. Al contrario, l’uomo del Terzo millennio deve riappropriarsi dello spazio pubblico e volgere a proprio vantaggio le opportunità offerte da scienza e tecnologia sottratte alla proprietà esclusiva di pochi, restituite ad un ruolo comunitario presidiato da istituzioni pubbliche. Gli apparati cibernetici, una volta ammortizzato il costo, si pagano da sé, non si ammalano, non vanno in ferie e non maturano pensione: un boccone troppo ghiotto per la volontà di potenza dei padroni del mondo.
Mefistofele asserisce che il reddito offerto dai suoi mandanti sarà un surplus di libertà, ma è l’esatto contrario, per quanto troppi non se ne rendano conto. Decideranno loro ciò che è gratuito e ciò che non lo è. L’esercito narcotizzato dei disoccupati con sussidio sarà indotto a occupare la mente con pensieri scelti da loro: un consumo triviale, il soddisfacimento rapido delle pulsioni più istintive, nessuno spazio alla spiritualità o alla riflessione. Una vita avvolti nel cellophane, a condizione di non ribellarsi, pena la disconnessione, morte civile prossima ventura.
Ci forniranno una carta prepagata, meglio ancora un chip sottocutaneo attraverso il quale accederemo ai centri commerciali di loro proprietà, dove acquisteremo beni e servizi scelti per noi da lorsignori con addebito diretto. Tornati a casa, potremo sederci davanti a uno schermo per assistere a spettacoli prodotti dai soliti noti (Netflix, Amazon e compagnia pessima). Ovviamente, potremo accoppiarci con chiunque, se vorremo figli ci affideremo alla procreazione assistita, cioè ad altre macchine, la malattia grave non ci spaventerà più perché verremo soppressi alle prime avvisaglie, più o meno volontariamente, previo espianto di qualche organo in buono stato e del chip da cui sarà diffalcato il credito residuo da restituire agli Iperpadroni e su cui sarà leggibile in linguaggio binario l’intera sequenza delle nostre inutili vite.
Avremo il piacere di trascorrere la vita con tablet e smartphone su cui si alterneranno immagini piacevoli ad altre terrorizzanti; ogni cinque anni ci permetteranno di votare per qualcuno che eseguirà le disposizioni dell’oligarchia, la mera amministrazione dell’esistente. Una vita siffatta non è dissimile da quella dei polli di batteria e degli allevamenti intensivi di bovini da carne o latte. L’iperemotività postmoderna ci rende intollerabile tale sfruttamento degli animali, “i nostri fratelli minori”. Chissà perché, non abbiamo analoga sensibilità verso la nostra specie.
Per quanto adombrata dai cancelli di Auschwitz, resta centrale l’espressione il lavoro rende liberi. E’ il lavoro, insieme con la conoscenza, a donare dignità e grandezza all’essere umano, unica creatura morale, l’opera, l’uso dell’intelligenza, l’impegno di se stessi verso gli altri. Tutta la scienza non può, non deve essere volta, come oggi, al profitto di pochi e alla dominazione mascherata da benevola propensione al progresso, al consumo, alla materia. Fatti non foste a viver come bruti: l’uomo ha un’anima, comunque vogliamo chiamare la sua tensione verso l’infinito. Se è già mostruoso venderla per quattro soldi a Mefistofele, il nome d’arte del capitalismo ultimo, ancora più drammatico, grottesco è accettare di pagarla a chi ce la sta espropriando con vite divenute animali.
La fine del lavoro, se ci sarà nei termini in cui viene prospettata, non sarà una festa, o il ritorno nel giardino dell’Eden, ma la fine dell’Uomo. Affrettiamoci all’uscita: il gioco è chiaro, le carte truccate. Servono ribelli, partigiani della vita, innamorati della libertà. In principio era l’azione: Faust vinse su Mefistofele.
ROBERTO PECCHIOLI