di Roberto PECCHIOLI
Leggere Vittorino Andreoli è sempre una stimolante avventura intellettuale. Lo psichiatra veronese, con quella sua aria da scienziato pazzo, i radi capelli lunghi, spettinati, simili a fili elettrici senza direzione, è un testimone importante del nostro tempo. La sua lunga esperienza clinica, unita a una sorprendente umanità e all’acuta sensibilità di studioso fanno riflettere. Un suo recente intervento si è focalizzato sull’uomo contemporaneo che non ragiona più ed è schiavo della frustrazione. Due condizioni che Andreoli considera complementari, legate da una trama invisibile quanto persistente.
L’uomo postmoderno vive a imitazione della macchina, il suo ragionamento si fa binario, stimolo e risposta immediata, sì o no, giusto o sbagliato. Tutto è cotto e mangiato immediatamente, evapora il tempo dell’attesa, che è anche quello della speranza, del sogno, del progetto. Inadeguato per natura a sostenere il paragone con l’apparato tecnico, vive di scosse, clicca continuamente su se stesso, perde la gioia dell’obiettivo raggiunto, la soddisfazione di chi si attarda a contemplare l’esito, assaporare gli effetti dell’agire dopo averli immaginati e costruiti. Perde anche la capacità di accettare le sconfitte o le semplici inadeguatezze, frutto dell’accettazione di sé, della condizione di creatura imperfetta, fino ad attribuirle ad una sorta di malfunzionamento della macchina personale.
Dilaga la frustrazione, ovvero la delusione profonda non elaborata, in ciascuno dei suoi tre significati, ovvero il sentimento di chi ritiene vano il proprio agire; la tensione psichica determinata dall’inappagamento di un desiderio; l’effetto della mancata soddisfazione di una pulsione.
L’abolizione dell’attesa è un delitto contro l’uomo perpetrato dai meccanismi del mercato. Essi alimentano il desiderio per spostarlo continuamente, dirottarlo su nuovi bisogni indotti da sostituire rapidamente. Ciò genera la frustrazione, una componente dell’eclissi del sacro, poiché dentro l’attesa sta il mistero, il quale a sua volta, ci dice Andreoli, è la percezione del sacro. Un concetto difficile, impalpabile, non acquistabile con carta di credito, legato alla dimensione spirituale dell’esistenza. Non c’è dubbio che l’homo consumens postmoderno, così come non sopporta l’attesa, che produce ansia e straniamento, ha orrore del mistero, in quanto non lo può controllare, misurare, gestire, né valutare in termini di pensiero binario, stimolo, azione e obbligo di retroazione immediata. E’ altamente sconsigliato soffermarsi, prendere fiato, meditare.
L’assenza di meditazione è certamente una delle caratteristiche della contemporaneità, insieme con l’agonia della filosofia, cioè del pensiero critico. Manca il tempo, occorre muoversi, fare senza agire. Attivare i riflessi immediati, vivere di memoria a breve termine sembra essere l’imperativo di oggi. Reagire allo stimolo in maniera veloce e stereotipata, essere pronti ad assolvere le funzioni assegnate “in tempo reale”, e poi essere consumatore, lavoratore, fruitore di tempo libero obbligato, titolare di pulsioni da soddisfare, istinti a cui abbandonarsi come animali senza innocenza. More ferarum.
Si va anche oltre l’alienazione, la fuoruscita da se stessi che all’alba della modernità occupò pensatori come Rousseau, Hegel, Marx, e adesso sembra divenuta il codice essenziale del tempo: lavoro, vado in vacanza, parto per il week end, corro al centro commerciale, sono connesso alla rete, faccio sesso. Sempre l’uomo binario, stimolo, risposta, ansia da prestazione, frustrazione. Un disagio emotivo distinto dall’alienazione, che fa riferimento piuttosto all’estraneità, alla distanza, e conduce alla sensazione sgradevole di perdita del mistero e del sacro, il disincanto del mondo di Max Weber.
La frustrazione è più della contraddizione tra natura e cultura attivata dal processo di civilizzazione (Freud). E’ piuttosto l’insoddisfazione perenne per lo scarto tra desiderio e realtà. Tutti aspirano a un ruolo da protagonisti, ciascuno si convince di essere vittima di un’ingiusta collocazione nella scala sociale: sono in basso non per demerito o incapacità, ma in quanto vittima di ingiustizia, oppure perché non sono stato in grado di cogliere le opportunità. E’ il mito del successo, da misurare in denaro ed eventualmente dal numero di amici su Facebook o di “mi piace” in calce alle frasi affidate alle reti sociali. Pretendiamo un ruolo, ma rifiutiamo il rango, ossia la posizione rivestita in una gerarchia di valori, poiché significherebbe accettare il giudizio di merito, la graduatoria.
Sarebbe un’ulteriore insopportabile frustrazione, eppure molti si sottopongono quotidianamente alla fatica di Sisifo, giacché il desiderio eterodiretto e compulsivo che li possiede non giunge a mai a compimento, risolvendosi per un verso nella delusione per la non conformità alle speranze, dall’altra nella necessità di ricominciare, con aspettative rinnovate frustrate al giro successivo. L’imperativo è non avere posa, poiché l’uomo postmoderno ha orrore del limite, è incapace programmaticamente di fermarsi, riflettere, scegliere, rinunciare. E’ la volgarizzazione della tenace ricerca scientifica del moto perpetuo, che impegnò infruttuosamente ingegni brillanti per secoli. Paradossalmente, è anche una sconfitta del libero arbitrio, un determinismo della corsa, dell’andare oltre scisso dalla realtà. Alienazione più frustrazione per un mondo che ci impone l’identico, l’uguale (“essere come tutti gli altri”), la negazione ideologica delle differenze, ma contemporaneamente chiede a ciascuno di essere speciali, unici, irripetibili.
Un’ulteriore schizofrenia che alcuni vivono nella bizzarria più estrema, altri nella costruzione o negazione fisica di se stessi (abbigliamento, tatuaggi, colore innaturale di capelli, cura maniacale del corpo per “mantenersi giovani”, adesso le false identità in rete), molti nella ricerca compulsiva di prodotti, condotte, gesti che ci rendano unici eppure identici. Una forma sofisticata di frustrazione è la ricerca della trasgressione, divenuta anch’essa obbligo sociale e perciò stesso destituita di significato.
Un eccesso di orgoglio che ci pare un effetto collaterale di un’altra frustrazione contemporanea: il fastidio di essere creature anziché creatori, desiderare confusamente di essere figli e genitori di se stessi. In più, la convinzione di essere prodotti del Caso, una specie che si è evoluta più in fretta delle altre, ma che altro non è se non un fascio di processi chimici. Chimica i desideri, le sensazioni, persino i sentimenti. Per un certo comportamento si attiva una parte specifica del cervello, per un altro produciamo determinate sostanze le quali, a loro volta, mettono in moto i meccanismi che presiedono alle nostre azioni. E’ una frustrazione terribile considerarsi il prodotto di reazioni chimiche combinate a leggi fisiche: il materialismo più spaventoso, gelido e incapacitante della storia umana unito a mezzi potentissimi trasformati in fini.
L’uomo è inadeguato dinanzi al potere impersonale della tecnica, scrisse Guenther Anders. Vittorino Andreoli, psicoterapeuta con esperienza dell’uomo concreto, va oltre e accusa il Caso, ovvero la materia fattasi Dio, sino a concludere con una frase che offriamo alla riflessione di ognuno: se devo scegliere di inginocchiarmi, lo faccio davanti a Dio, non davanti al Caso. Una prospettiva intollerabile per l’uomo di oggi: inginocchiarsi, lui così potente, capace di scoprire e sfruttare le forze della natura, in grado di piegarle al suo volere! E poi, davanti a Dio, un’ipotesi antiquata non più presa in considerazione dal tempo dei Lumi. Troppa luce fa male all’uomo frustrato e binario…
ROBERTO PECCHIOLI