20 apr. 2015 |
Di recente, nell’ambito delle celebrazioni del centenario del primo conflitto mondiale, abbiamo avuto modo di apprezzare un’opera storica che, benché tratti per lo più di storia diplomatica e militare, è tuttavia illuminante per comprendere le motivazioni sia geopolitiche sia culturali di quel conflitto. Ci riferiamo all’ultima fatica di un grande germanista italiano, Gian Enrico Rusconi (1).
Crediamo che l’aspetto più meritorio di questa opera stia soprattutto nell’enucleazione del sentimento di peculiarità culturale che i tedeschi nutrono per sé stessi. Diciamo nutrono perché, nonostante il sofferto percorso di riaccostamento all’Occidente iniziato proprio a seguito della sconfitta del 1918, è nostra convinzione, rafforzata dalle conclusioni del libro di Rusconi, che tale sentimento di specificità continua a sostenere la politica tedesca anche oggi all’interno della UE non a caso germanico-centrica. In qualche modo, come vedremo, la Germania non ha mai smesso il suo “kulturkampf”, intendendo questo termine nel suo senso letterale di “battaglia per la cultura nazionale” o di “battaglia di civiltà” ed astraendo dal significato più propriamente anti-cattolico che assunse durante gli anni di Bismarck.
Non è possibile comprendere questo “sentimento di peculiarità nazionale” nutrito ancor oggi dai tedeschi, benché all’interno della “normalizzazione occidentale” che la Germania ha accettato (o subito?) dopo il 1945, senza leggere la storia tedesca come un itinerario all’identità nazionale unitaria contrassegnato – per usare la distinzione introdotta da Carl Schmitt a proposito della connessione storica e giuridica tra “diritto” ed “ordinamento spaziale” e la consequenziale connessione tra “libertà”, sovente “anarchia”, e “spazi marittimi” – dall’affermazione di un nazionalismo imperialistico terraneo alternativo all’imperialismo nazionalista talassocratico delle democrazie occidentali anglofone. Questo nonostante che i due imperialismi nazionalisti altro non siano stati che modalità diverse dello sviluppo politico-economico della rivolta protestante antiromana.
La difficile “sgermanizzazione”
«“Am Anfang war der Krieg”, all’inizio c’è stata la Guerra, la “lunga Guerra tedesca” contro l’Occidente, caratterizzata come “Guerra delle culture/civiltà”. Scatenata nell’agosto 1914, avrebbe segnato in profondità l’Europa e trasformato radicalmente la Germania, che sarà di nuovo protagonista di un secondo conflitto mondiale, psicologicamente vissuto come prosecuzione e correzione dell’esito del precedente. Ma il nuovo conflitto culmina sul fronte orientale con i tratti di una guerra di sterminio … che porta la Germania alla catastrofe morale» (2).
Così Rusconi, nelle conclusioni del suo libro, sintetizza il tragico destino storico della Germania.
Il processo di “sgermanizzazione”, ossia di normalizzazione in senso occidentale della Germania, avviato tra le due guerre, era naufragato insieme alla Repubblica di Weimar soprattutto per l’opposizione dell’intellighenzia, della cultura e del sentimento popolare, fortemente tedesco-nazionale, alle idee liberal-costituzionali dell’Occidente. A causa della catastrofe morale della Germania nazista, nel secondo dopoguerra, la “sgermanizzazione” tedesca trova finalmente la via completamente libera da ogni resistenza. Rusconi assume come positivo un termine, appunto “sgermanizzazione”, che era stato invece usato in modo fortemente critico e negativo da parte dell’intellighenzia tedesca tra le due guerre. Una intellighenzia che si sentiva erede del wolksgeist che aveva sorretto l’affermarsi del Reich guglielmino, ma al tempo stesso secondo una accezione fortemente modernizzatrice come quella indicata, nelle sue fondamentali linee direttrici, dalla cosiddetta Rivoluzione Conservatrice tedesca.
Nelle sue “Considerazioni di un impolitico” (1918) Thomas Mann – il reazionario amato dalla sinistra, per dirla con Marino Freschi (Il Giornale del 01.10.2005) –, in quel momento ancora lontano dal successivo approdo liberale, usava il concetto di “sgermanizzazione” in modo fortemente polemico contro l’importazione in Germania dei modelli culturali e politici del razionalismo occidentale, opponendo a tali modelli l’identità mistico-nazionale del popolo tedesco forgiata dall’atavica religiosità magico-pagana e dalla rivolta antiromana iniziata con Lutero. La romanità nella critica di Mann e degli altri conservatori rivoluzionari tedeschi assurgeva erroneamente, nonostante la passione germanica per il mondo classico ellenico e romano coltivata dalla scuola di Theodor Mommsen, a radice dell’illuminismo. Quello dei rivoluzionario-conservatori tedeschi era un “sentimento antiromano” del quale si lamentava il giovane, ancora cattolico, Carl Schmitt, nel suo “Cattolicesimo romano e forma politica” (1923). Questa antiromanità sarebbe, poi, stata codificata nel programma fondativo del Nsdap (Nationalsozialistiche Deutsche Arbeiterpartei) nel quale il diritto romano è dichiarato nemico della kultur germanica e portatore, insieme al Cristianesimo, dell’“infezione ebraico-materialista”.
Il «… lungo e radicale processo autocritico dei tedeschi – scrive Rusconi – che per molti aspetti è stato anche un processo di “sgermanizzazione”, di abbandono cioè di quei tratti culturali e antropologici problematici che hanno caratterizzato l’“essenza del tedesco”, nel senso del quadro … (delle) “idee del 1914” … (è) qui … (ripreso) non in senso negativo o deprivativo, ma al contrario positivamente come capacità autocritica e di metanoia etico-politica che selettivamente utilizza altre virtù storiche tedesche. Ma perché chiamare “sgermanizzazione” quello che molti storici tedeschi considerano il felice “approdo della Germania nell’Occidente”, il compimento della sua “lunga via verso l’Occidente”? La compiuta conciliazione tra Occidente e Germania? La fine definitiva del “Sonderweg” tedesco? In effetti sino a qualche anno fa c’è stata una significativa produzione culturale in questa direzione nella storiografia, nelle scienze sociali, nella pubblicistica politica, stimolata anche dalle grandi aspettative dell’Europa unita. Si è registrato ad esempio l’abbandono dei paradigmi costruiti attorno all’idea tradizionale dello Stato-nazione e dello Stato di potenza a favore dei paradigmi dello Stato come “potenza civile” (Zivilmacht), della definitiva centralità della società civile. I concetti di nazionalismo e di nazione stessa erano stati messi in quarantena (se non al bando) per lungo tempo. Il sospetto verso tutto ciò che è nazionale, visto nel cono ombra del tedesco-nazionale, aveva portato alla elaborazione del “postnazionale” – una fortunata invenzione semantica tedesca che ha sedotto autori e analisti anche fuori dai confini della Germania, proiettandola sull’Europa come tale» (3).
Una Germania “normalizzata”?
La questione è però verificare se effettivamente, come ritiene Rusconi, la Germania “normalizzata” non ha più pretese, benché in veste democratica, egemoniche oppure se invece essa ancora aspira, segretamente o inconsapevolmente, ad egemonizzare l’Europa, dietro la parvenza di una mal costruita Unione Europea. Non possiamo, da parte nostra, dimenticare che la democrazia di per sé non rende affatto immuni dalle tentazioni imperiali magari giustificate da auto-mandati “missionari” e proclamazioni di morali superiorità sugli altri sistemi di organizzazione politica e sulle culture che li legittimano. L’Atene di Pericle era, ai suoi tempi, una odiata potenza imperialistica che imponeva umilianti vassallaggi alle altre polìs greche le quali, non a caso, simpatizzavano in gran parte per la meno invasiva e più isolazionista Sparta. La storia degli Stati Uniti d’America non sarebbe pienamente comprensibile se l’astraessimo dall’ideologia, di eredità puritana, del “destino manifesto” non molto dissimile dal “Gott mit üns” nazional-tedesco.
Lo stesso Rusconi osserva che mentre la Germania liberale del secondo dopoguerra discuteva di “normalità” e di “normalizzazione” tedesca, quindi di occidentalizzazione della Germania, «… un noto filosofo, dopo una disinvolta analisi storica delle due guerre mondiali, ha tagliato corto, affermando che i tedeschi sono semplicemente diventati “normali egoisti” come gli altri popoli e hanno il diritto di esserlo, anche se nell’Europa di oggi non si trovano oggettivamente in una posizione uguale agli altri. E’ una conferma che i tedeschi continuano a essere o sentirsi diversi nella loro ritrovata normalità. Ci sono state la grande normalizzazione prodotta dalla riunificazione della nazione, la costruzione solidale dell’Unione Europea con le altre nazioni, la definizione dei trattati di Maastricht e l’introduzione della moneta unica (l’euro) di cui la Germania è stata protagonista decisiva. Il grande sogno di un’Europa politicamente unita e solidale, con una Germania integrata e definitivamente occidentalizzata, è sembrato essere prossimo alla sua definitiva costituzionalizzazione. Poi inaspettatamente (anche se preceduta da disattesi segnali premonitori) è esplosa, dal 2008, la crisi finanziaria e bancaria che ha rivelato impietosamente alcuni “difetti di costruzione” dell’Unione, mettendo brutalmente a nudo squilibri e differenze interne e facendo emergere tensioni e fratture nazionali, che si credevano scomparse. A dispetto della pacificazione tra le nazioni storiche si è registrato un ritorno di risentimenti collettivi che riattivano stereotipi nazionali negativi, ritenuti estinti. Al centro di questa nuova congiuntura critica c’è la Germania, forte della sua potenza economica e della sua politica assertiva, bene interpretata dalla cancelleria Angela Merkel, ma esposta come non mai alle critiche di molti partner europei. Ma la Germania è riuscita (sinora) a mantenere dritta la barra della sua linea politica monetaria, facendo apparire impraticabili altre alternative» (4).
Nazionalismo economico: una costante della storia tedesca
La verifica da noi richiesta, circa l’effettivo abbandono da parte della Germania del suo senso di superiorità, deve essere effettuata anche sul terreno delle dottrine economiche. Nella storia tedesca, insieme al nazionalismo politicamente autoritario guglielmino ed a quello razzial-socialista hitleriano, è presente, sin dal XIX secolo, anche un nazionalismo economico che sembra essere trasmigrato, dall’assetto dirigista della Germania guglielmina e poi nazional-socialista, all’assetto ordoliberale del secondo dopoguerra (5).
Certamente l’assetto dirigista e quello ordoliberale, del secondo dopoguerra, non sono tra loro del tutto comparabili perché, come scrive appunto Rusconi, la Germania del 2014, anno del centenario del primo conflitto mondiale, non ha nulla a che fare con quella del 1914 dal momento che l’aspirazione al primato economico tedesco, presente in ambedue le epoche, si esprime oggi in un contesto internazionale e geopolitico inconfrontabile. Giustamente Rusconi osserva che, in tale nuovo contesto, l’assertività tedesca non è fondata al suo interno su un sistema politico semi-autoritario, come nel 1914, o totalitario, come nel 1939, ma su un modello di democrazia del tutto occidentale che mira all’integrazione europea.
Eppure Rusconi non sembra accorgersi che in questa integrazione la Germania aspira ad essere il modello unico di orientamento per le altre nazioni dell’Unione ed è riuscita ad imporre il proprio ordoliberalismo come dottrina politico-economica all’intera Europa, anche a quelle nazioni che avevano una diversa costruzione sociale ed economica ispirata al keynesismo, alla socialdemocrazia o al cattolicesimo sociale.
La questione dunque, a nostro giudizio, sta nella sostanziale continuità di cui, nella storia dell’identità tedesca, gode il “nazionalismo economico” con la sua parabola che dalla dottrina selettivamente “autarchica” di Friedrich List porta fino all’ordoliberalismo, nazional-liberale, di Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke e Alfred Müller-Armack. Le stesse differenze che sussistono tra i filosofi, i giuristi, i sociologi e gli economisti della Scuola di Friburgo, perlomeno nell’applicazione concreta che nella Germania democratico-conservatrice è stata fatta delle dottrine friburghesi, confermano l’inconfessata presenza del convitato di pietra del nazionalismo economico anche nel secondo dopoguerra come vero motivo ispiratore della politica tedesca all’interno della stessa Unione Europea.
Rusconi cita lo storico Förster che, nella sua opera “Im Reich des Absurdem”, spiega che nel 1914 la Gran Bretagna non temeva, o ancora non temeva in senso assoluto, la concorrenza economica tedesca: «Dal punto di vista dell’alta finanza – scrive Förster citato da Rusconi – … una guerra per la divisione del mercato mondiale non aveva alcun senso. La superiorità mondiale del capitale finanziario sulla quale si basava essenzialmente lo status di grande potenza dell’impero insulare britannico non era per nulla minacciata dall’imperialismo tedesco notoriamente povero di capitali. Nel settore degli investimenti esteri i tedeschi semplicemente non potevano competere. Persino iniziative di prestigio imperialistico come la costruzione della ferrovia di Baghdad potevano realizzarsi solo con l’aiuto francese e britannico. Nessuno Stato avrebbe dovuto fare la guerra non essendo in gioco interessi vitali. Eppure nessuna potenza al momento decisivo era disposta ad accettare la perdita del proprio prestigio evitando la guerra» (6).
In quei frangenti epocali che precedono la Grande Guerra, nella Germania guglielmina, infiammata dalla propaganda anti-occidentale ed in particolare anti-inglese, erano presenti anche minoritarie posizioni pacifiste e non solo di sinistra. Nel 1911 l’esponente di punta del capitalismo dirigista tedesco, Hugo Stinnes, era il più acerrimo avversario del militarismo pantedesco, convinto come era che la Germania non avesse bisogno di alcuna egemonia militare o di espansioni territoriali ma soltanto di un costante sviluppo economico. Rusconi riporta alcune affermazioni di Stinnes molto chiare in proposito.
«Lasciateci – diceva il grande capitalista tedesco – tre o quattro anni di tranquillo sviluppo e la Germania sarà la padrona incontrastata d’Europa. I francesi oggi sono rimasti indietro rispetto a noi, sono un popolo di piccoli rentier. Gli inglesi hanno troppo poca voglia di lavorare e non hanno il coraggio di nuove imprese» ed ancora «In Europa non c’è nessuno che possa contestarci il nostro rango. Dunque, tre o quattro anni di pace e vi assicuro la predominanza (Vorherrschaft) tedesca in Europa con tutta tranquillità» (7).
Giustamente Rusconi chiosa osservando: «Sono affermazioni tipiche dell’“imperialismo economico senza guerra” cioè dell’intenzione (della augurabilità e della certezza psicologica) di poter ottenere il primato economico senza ricorrere alla potenza militare» (8).
Ora, ecco il punto, questo “imperialismo economico senza guerra” è il dato costante che, a nostro giudizio, è possibile ritrovare nel corso della costruzione storica dell’identità tedesca in via di “normalizzazione”. Un dato che attraversa, sostanzialmente indenne, i diversi assetti politici della Germania ma anche i suoi diversi assetti economici nel passaggio dal dirigismo economico dell’età guglielmina (il capitalismo privato di Stato), al dirigismo nazionalsocialista (che tendeva ad integrare e quindi a pubblicizzare il capitalismo consolidando il potere industriale sotto il comando e gli obiettivi politici dello Stato e del Partito unico, affiancando però al capitalismo nazionale, per la finalità dell’integrazione nazionale anche dei lavoratori, un avanzato sistema di protezione e garanzie sociali), fino all’economia sociale di mercato, il capitalismo renano, del secondo dopoguerra fondata su una strana miscela tra le dottrine cattolico-sociali e quelle ordo-liberali (ma come ha osservato Giulio Sapelli, nell’accezione più “statalista” di Alfred Müller-Armack, in verità, piuttosto che in quella più “mercantilista” di Walter Eucken).
Quindi chi oggi osserva che la Germania ha fallito il conseguimento della sua aspirazione all’egemonia per ben due volte mediante le armi mentre ha centrato il bersaglio con lo strumento dell’economia e della moneta, coglie sicuramente un aspetto della verità storica.
Un destino beffardo a cospetto dell’ipocrisia occidentale
Alla luce della lettura dell’opera rusconiana, sembra in effetti che nella storia tedesca sia inevitabile, anche oggi, il ripetersi di un beffardo destino: la Germania, per la sua posizione, la sua cultura, la sua forza, è stata spesso nel corso dei secoli chiamata ad un ruolo di leadership, ad assumere lo scettro del comando, ma poi essa si dimostra immancabilmente incapace di esercitare davvero l’“imperium” ossia si dimostra incapace di una politica sovranazionale e plurinazionale (9).
Pertanto, diciamo subito che non siamo affatto d’accordo con quanto sostiene Rusconi circa la mancanza di alternative alla attuale politica monetaria tedesca imposta a tutta l’Europa. Alternative, invece, esistono, eccome. Ma l’ideologia ordoliberale dei ceti dirigenti tedeschi, il complesso industriale-finanziario i cui interessi sono rappresentati e tutelati da Angela Merkel, impedisce una revisione dell’intera struttura dell’Unione Europea con il rischio che tutto deflagri. Se dovesse accadere questo, la Germania porterà l’ulteriore responsabilità di una nuova debacle storica.
Attenzione: non stiamo perorando alcuna causa di per sé anti-tedesca. Tutt’altro. Ammiriamo della Germania la capacità di coesione nazionale e, sotto un profilo storico, nutriamo comprensione per la sua lotta in difesa della propria “Kultur”, lotta atavica che proprio l’opera rusconiana, alla quale abbiamo fatto riferimento, magistralmente espone anche nei suoi risvolti culturali. Anzi, affermiamo sinceramente che, dal punto di vista storico, è una idiozia continuare ad imputare alla Germania tutte le responsabilità sia del primo che del secondo conflitto mondiale (anche il nazismo, probabilmente, non ci sarebbe stato senza la cecità, che Keynes rimproverava loro, dei vincitori a Versailles nel 1919-20).
Non possiamo, infatti, esimerci dal constatare, persino quotidianamente nelle attuali cronache mediatiche, che l’Occidente liberale pratica la realpolitik come qualunque altra potenza ha fatto nella storia. Sicché spesso – anche qui, forse, non ci troviamo del tutto d’accordo con Rusconi – i valori umanitari e liberal-democratici altro non sono che paraventi per la politica di potenza del momento. Del resto l’essere umano è stato capace di usare per i propri scopi di potere anche il Nome di Dio, perché mai non dovrebbe farlo con la “democrazia” o la “libertà”?
Nel conflitto che ha opposto per due volte – e che, in qualche modo, continua anche oggi ad opporre, benché attualmente all’interno della condivisione dello stesso modello di civiltà capitalista – l’Occidente liberale e la Germania stretta alla sua “kultur” imperiale-nazionale non è possibile non vedere, anche, uno scontro tra i due “imperialismi” che, a suo tempo, si sono contesi l’egemonia mondiale. Oggi, almeno in Europa, la Germania sembra essersi presa una rivincita non attraverso i cannoni ma attraverso l’economia, quell’economia di libero mercato, ispirata alle idee di Adam Smith, che l’intellettualità tedesca nazional-conservatrice nella Germania guglielmina, avvezza (non lo diciamo affatto con disprezzo, anzi …) al dirigismo sin dai tempi di Friedrich List, considerava come un’antieroica “economia da bottegai”.
Un liberalismo del tutto particolare
L’intellighenzia nazionalista tedesca, del resto, condivideva l’avversione al liberismo economico, inteso come sistema proprio della potenza che contendeva alla Germania la conquista dei mercati mondiali, ossia dell’Inghilterra, con l’intellighenzia socialdemocratica. Nel 1914 la socialdemocrazia tedesca, contemporaneamente a quanto facevano tutti i partiti socialisti europei ponendo fine al mito marxista dell’internazionalismo proletario, aderiva entusiasticamente alla guerra dichiarata dal Kaiser in difesa della “kultur” nazionale contro le Potenze occidentali.
Il liberalismo tedesco, a differenza di quello pragmatico anglosassone, nasce e si sviluppa nel clima wolkisch e romantico che ha nella concezione fichtiana ed hegeliana dello “Stato commerciale chiuso” la sua cornice filosofica, nell’ambito della quale “liberale” coincide tendenzialmente con “statuale” in una visione che avvicina il liberalismo tedesco più alle concezioni organiciste della Scuola storica del Diritto fondata da Friedrich Carl von Savigny, il grande filosofo giurista del “wolkgeist” quale matrice delle forme storiche del diritto, che non al giusnaturalismo (gius-contrattualismo, per la verità) lockiano di tradizione anglosassone.
Una eredità che più tardi si ritroverà tanto nell’Ordoliberalismo, ossia nella volontà di costituzionalizzare la libertà di mercato, quanto nel “Socialismo Prussiano” che un Oswald Spengler cercherà di declinare in chiave di morfologia della dinamica storica mentre, dal canto loro, un Werner Sombart, anche sulla scorta del suo maestro italiano Giuseppe Toniolo, ed un Othmar Spann tenteranno di declinare nei termini di un socialismo organico a base corporativista. Le correnti nazional-bolsceviche e nazional-socialiste rappresenteranno la degenerazione e lo stravolgimento totalitario, imposto in qualche modo dalla modernità, dell’organicismo sociologico.
Sia la tendenza nazional-liberale sia quella nazional-sociale costituirono, come detto, rispettivamente l’anima di destra e l’anima di sinistra della cosiddetta “Rivoluzione Conservatrice tedesca” alla quale Carl Schmitt, Ernst Jünger e Martin Heidegger hanno dato il loro alto contributo giuridico-filosofico-politico e poetico.
Il liberalismo tedesco è dunque una peculiarità nel panorama del più vasto liberalismo europeo ed in particolare anglosassone, non essendo esso mai stato “individualista” se non dopo i due disastri bellici del XX secolo. Ed è a questo liberalismo di Stato, intriso di hegelismo, che in Italia si sono richiamati prima i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa, oppositori della monarchia borbonica, e poi Giovanni Gentile (10).
Illusioni liberali
Secondo Gian Enrico Rusconi la sofferta, ma ormai matura, adesione della cultura politica tedesca alla liberal-democrazia costituisce, nell’oggi, l’elemento rassicurante rispetto a qualsiasi tentazione egemonica, nello stesso senso del passato, da parte della Germania.
Da parte nostra non siamo affatto sicuri dell’attuale capacità della liberal-democrazia nel garantire le libertà concrete. Ovunque alla politica si vanno sostituendo, in questo l’Unione Europea è massimo esempio, poteri tecnocratici e ovunque quella che Giulio Tremonti chiama tecno-finanza domina incontrastata. Questo dominio sta silenziosamente togliendo valore, ossia svuotando dall’interno pur non attaccandone frontalmente le forme esteriori, la democrazia. Ancor prima di Tremonti lo aveva compreso Giano Accame (11). L’esito della parabola storica dell’Occidente sembra essere, più che la democrazia matura, la “bancocrazia” ed almeno in questo, forse, i professori della Germania guglielmina (Adolf von Harnack, Ernst Troeltsch, Friedrich Meinecke, Kurt Riesler e, sotto certi aspetti, persino un Max Weber), nella loro avversione al mercantilismo inglese, avevano visto giusto.
In tutti gli Stati assistiamo, attualmente, ad un accentramento di poteri (in Italia siamo ormai ad una repubblica presidenziale pienamente operante anche se non costituzionalmente conclamata) che corrisponde ai desiderata di quei poteri finanziari globali e transnazionali, quindi sovranazionali, che governano, a-democraticamente, l’economia mondiale. Molti, infatti, a proposito degli assetti di potere nell’età postmoderna, già parlano apertamente di “tecno-democrazia” ad indicare la sostanziale subordinazione della volontà popolare, pur liberamente e democraticamente espressa, all’effettivo potere esercitato da circoli transnazionali ed oligarchici composti da tecnocrati dell’ingegneria finanziaria e da “money manager”, capaci di muovere istantaneamente, con un semplice click sulla tastiera del computer, immense risorse finanziarie mettendo perfino in crisi gli stessi Stati nazionali, ormai, nel contesto globale, piccoli e depotenziati. Questo non è più dominio politico ma dominio dell’economia, nella fattispecie di quella finanziaria, sulla politica che è diventata sua “ancella”. Un grande pensatore liberale come Jürgen Habermas ha fatto notare, con riferimento al “commissariamento” tecnocratico della politica greca ed italiana nel 2011, che «quello che è stato fatto ad Atene e Roma è stato un “quiet coup d’état”» (12).
La forte identità “nazionalista”, pur ormai quietamente occidentalizzata, della Germania non potrà, tuttavia, salvarla dagli esiti anti-politici della globalizzazione finanziaria quando, per un qualunque motivo, toccherà anche ad essa pagare il costo di una egemonia in Europa perseguita mediante l’esercizio di un dominio nazionale ma sotto l’ombrello protettivo degli organismi di potere della tecno-finanza globale.
Le antiche radici “ecclesiali” del nazionalismo tedesco
Il problema tedesco sta, a nostro giudizio nell’incapacità germanica a concepire il proprio ruolo nazionale nel concerto delle altre nazioni in termini di leadership “cattolica” ossia nei termini di una non uniformante “universalità”. Questa incapacità è la conseguenza del nocciolo duro della cultura tedesca ed esattamente la convinzione culturale, come visto atavica e fortemente sentita, del “destino manifesto” che chiama la Germania ad una missione nazionale di dominio internazionale. Insomma la Germania rimane comunque, anche in versione liberale, “über alles”.
Questa, lo si voglia riconoscere o meno, è una eredità luterana. L’identità nazionale tedesca – come è poi prevalsa con l’egemonia della parte settentrionale, a guida prussiana, della Germania sulla sua parte meridionale di retaggio cattolico – nasce con lo scisma ecclesiale nazionalista di Lutero. Nell’immaginario tedesco-protestante, sin dal XVI secolo, nonostante la secolarizzazione, la nordica e “virtuosa” Germania viene opposta alla “corrotta” Europa papista e romana del Sud.
Il nazionalismo ecclesiale, inaugurato da Lutero, ha sì partorito, o almeno potentemente contribuito a partorire, l’autocoscienza nazionale germanica ma lo ha fatto sulle ceneri di un “universalismo”, quello medioevale proprio alla “Res Publica Christiana”, che nella storia d’Europa ha finora costituito l’unico modello di potere politico con pretese universalistiche che è stato capace di giustificare e legittimare l’esercizio di un efficace “imperium”, di un riconosciuto diritto al comando, in grado di riunire nella diversità i popoli europei in un concerto che, pur se nella sua epoca storica contemplava la centralità dell’elemento tedesco, avrebbe ben potuto nell’età moderna, come sembrò accadere nell’alveo asburgico nella seconda metà del XIX secolo, rappresentare la base di una Europa (con)federale su basi però politiche e non tecnocratiche.
La differenza tra il Reich guglielmino e l’Austria-Ungheria asburgica, quanto a modello imperiale – “imperialistico-nazionalista”, il primo, in via di confederalizzazione e parificazione giuridica di tutte le sue componenti etniche e religiose, la seconda –, sta lì a dimostrare il diverso percorso storico dell’identità tedesca. Un percorso diverso ed alternativo non solo nei confronti dell’Occidente moderno, con i suoi valori razionalistici ed umanitari, cui la Germania opponeva il suo “etnocentrismo romantico” (ed in tal senso la difesa della Kultur tedesca, contro la Zivilisation occidentale, da parte di Thomas Mann, nelle sue “Considerazioni di un impolitico”, che non a caso riprendevano le linee già tracciate da Oswald Spengler, è esemplare), ma anche nei confronti della Cristianità quale potenziale alveo storico di una identità europea coerente con le proprie, innegabili, radici.
L’asimmetria mercantilista tedesca non è “cattolica”, quindi incapace di vera leadership
La Germania, con la sua attuale aggressiva politica neomercantilista, sta costruendo le fortune economiche tedesche a danno degli altri europei oltretutto sottoposti a moralistiche lezioni dal sapore rigoristicamente “calvinista”. La fortuna economica attuale della Germania è fondata sull’asimmetricità di mercato: “asimmetricità” ben studiata da Minsky e Frenkel e denominata dagli economisti, appunto, “ciclo di Frenkel”. Essa non è altro che l’antica dipendenza coloniale dei deboli dai forti.
Ragion per cui non possiamo meravigliarci se anche stavolta la Germania sta dimostrando di essere incapace di un esercizio “giusto” del ruolo di comando, che pure rivendica per sé e per il quale pure avrebbe ogni dotazione materiale. Essa invece sta ponendo le basi del possibile – e da molti fortemente auspicato – fallimento dell’Unione Europea bancocratica ed impolitica.
Persino Romano Prodi, che per aver contribuito a costruire questa prigione dei popoli europei che è l’attuale Unione Europea ha molte cose da dover farsi perdonare, lo ammette esplicitamente. In una recente intervista si è così, condivisibilmente, espresso: «La Germania ha una grande difficoltà ad assumere la responsabilità che deriva dalla sua leadership. La Germania fatica a riconoscere il suo ruolo e la sua responsabilità di leader. Prevale la paura. E manca la comprensione della solidarietà collettiva. Il passato spinge i tedeschi ad essere terrorizzati dall’inflazione, da qui l’ossessione per il rigore e la tenuta dei conti (…) la signora Merkel … non capisce che senza la crescita non si riescono a mettere in ordine i bilanci. (…). (Tuttavia) La storia ha la sua forza. La Germania si accorgerà sempre più che senza un’Europa solidale nemmeno la sua potenza economica potrà esprimersi» (13).
Purtroppo non possiamo condividere l’ottimismo di Prodi. Crediamo, infatti, che la Germania, per svolgere con equità un ruolo guida in Europa, avrebbe bisogno – ci sia consentito il paradossale anacronismo – di riscoprirsi “federiciana” ma nel senso di Federico I detto Barbarossa piuttosto che nel senso di Federico I (o anche II) di Prussia. Ma è proprio questo il problema: la Germania ama più il secondo che il primo, troppo “cattolico”, troppo “romano”, troppo “universale”, quest’ultimo, per essere davvero tedesco.
Luigi Copertino
NOTE
1) Cfr. Gian Enrico Rusconi, “1914: attacco a Occidente”, Il Mulino, Bologna, 2014. Un libro magistrale per l’inquadramento storico di un vasto, antico e complesso problema della storia europea, ossia il ruolo svolto, all’interno di tale storia, dalla Germania, di ieri come di oggi.
2) Cfr. G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., p. 283.
3) Cfr. G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., pp. 283-284.
4) Cfr. G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., pp. 284-285.
5) Sui rapporti, poco noti, tra la corrente Ordo-liberale, o Autoritario-liberale, della dottrina economica tedesca, la Rivoluzione Conservatrice e lo stesso regime nazista si veda AA.VV. “The Origins of Nonliberal Capitalism: Germany and Japan in Comparision”, Cornell University Press. In particolare il contributo di Gerhard Lehmbruch alle pp. 80, 81, 82, il quale dimostra come l’Ordoliberalismo tedesco, prima del suo riposizionamento liberal-conservatore negli ultimi tempi del regime nazista attraverso il riavvicinamento ai circoli religiosi e politici antinazisti nei quali maturò il fallito attentato ad Hitler di Claus Schenk von Stauffenberg, era stato in origine espressione dell’ala destra, nazional-conservatrice, rappresentandone la versione liberal-nazionale, della Rivoluzione Conservatrice, contrapposta all’ala sinistra nazional-socialista dei fratelli Strasser e nazional-bolscevica di Ernst Niekisch. Gli esponenti più in vista del nazional-conservatorismo tedesco, con il quale cooperavano gli “authoritarian-liberals” ordoliberali (Alfred Müller-Armack, l’ordoliberale più “statalista” tra i liberali autoritari, nel 1933 scriveva parole di elogio dell’Italia fascista, proprio mentre il regime fascista stava passando da una politica nazional-liberale ad una politica accentuatamente dirigista, interventista e nazional-sociale) furono Edgar Julius Jung, Franz von Papen, Kurt von Schleicher (gli ultimi due furono gli strumentalizzatori del Partito di Centro, il cattolico Zentrum, guidato all’epoca da un dogmatico deflazionista come Heinrich Brüning, responsabile con le sue politiche di austerità dell’aggravamento della crisi economica che spianò la strada alla marea nazista. Brüning rappresentò per la Germania quel che fu per l’Italia, nella prima fase, ancora liberale e fortemente condizionata dai fiancheggiatori di destra, del fascismo, il ministro liberista Alberto De Stefani che, appunto, gestì la politica economica del fascismo nella fase precedente la sua svolta “keynesiana” successiva al 1929).
6) La citazione di Föster è in G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., p. 279.
7) Le citazioni di Hugo Stinner sono in G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., pp. 278-279 e p. 285.
8) Cfr. G. E. Rusconi, “1914: …”, op. cit., p. 279.
9) All’uopo era molto meglio attrezzata l’Austria asburgica, per evidenti retaggi storici. Riteniamo, da parte nostra, che se oggi all’interno della Unione Europea ci fosse una Austria consapevole del suo retaggio “imperiale”, e non vassalla del “nazionalismo economico tedesco”, le difficoltà ed i contrasti intra-europei si sarebbero, probabilmente, già risolti.
10) Che poi la filosofia gentiliana sia stata effettivamente fascista o la sola filosofia fascista è cosa sulla quale ancora si discute apertamente. Senza dubbio il fascismo, perfino Mussolini, furono influenzati dall’attualismo gentiliano, con la sua filosofia dell’azione ossia dell’idea che si fa e si svolge nella storia per mezzo dell’attuarsi della Volontà, ma il fascismo ebbe anche altre radici di pensiero e la maggior parte di esse sono tutte di sinistra. Del resto, anche Giovanni Gentile finì per prefigurare, nell’ultima sua opera “Genesi e struttura della società”, una sorta di “comunismo spiritualista, idealista”. Ciò è testimoniato dall’invito che Gentile, nel discorso tenuto in Campidoglio, il 24 giugno 1943, nell’imminenza della sua sofferta adesione, quale ministro della cultura, alla Repubblica Sociale Italiana, rivolse ai comunisti per la pacificazione nazionale, contro gli invasori anglo-americani (nel precedente mese di Febbraio del 1943, in un’altra conferenza tenuta a Firenze “La mia religione”, Gentile si dichiarava cattolico: questa della conversione, o perlomeno dell’avvicinamento, al cattolicesimo di Gentile, come anche dello stesso Mussolini nel 1943-45, è un capitolo ancora controverso, certamente complesso a ricostruirsi pur non mancando, in proposito, se non prove schiaccianti perlomeno forti indizi). Nell’occasione romana, Gentile definì i comunisti come dei “corporativisti impazienti delle more dello sviluppo di una idea”, volendo con ciò significare che la radici filosofiche dello Stato etico fascista, storicamente incarnato dal corporativismo e dal sindacalismo di Stato, erano le stesse del marxismo tedesco, sicché l’idea fascista e quella comunista dello Stato erano ineluttabilmente convergenti pur nelle loro differenze accidentali. Insomma, fascismo e comunismo, affermava Gentile, sono “teologie politiche” che hanno lo stesso nemico nel liberalismo, pragmatico e bottegaio, ossia individualista e mercantilista, non statualista, di matrice anglosassone: un liberalismo post-politico che, aggiungiamo noi sulla scorta di quanto avrebbe detto in proposito Augusto Del Noce, segna, con il suo trionfo postmoderno, il trapasso dalla fase “sacrale” a quella “profana” – o, se si vuole usare la terminologia di Zygmunt Bauman, dalla fase “solida” a quella “liquida” – del cammino verso la secolarizzazione, verso il nichilismo, sul quale l’Occidente si è avviato da secoli. Già negli anni ’30 un allievo di Gentile, Ugo Spirito, aveva ipotizzato, nel famoso convegno di studi corporativi di Ferrara nel 1932 (al quale partecipò anche Werner Sombart), la “corporazione proprietaria” quale strumento per la nazionalizzazione, nel senso di statizzazione, dell’economia. Sollevando, in quell’occasione, vaste polemiche da parte degli esponenti, come Sergio Panunzio, della corrente sindacalista rivoluzionaria del fascismo, all’epoca in versione sindacal-nazionale ma sempre permeata di un certo anarco-libertarismo con tratti perfino liberistici. Polemiche giunsero anche dal mondo cattolico impegnato a “convertire” il corporativismo hegeliano del regime nel corporativismo cattolico, tonoliano, verticalmente sussidiario e sindacalisticamente organicista ma non di Stato ossia rivendicante la libertà di associazione sindacale quale momento della sociologia personalista e comunitaria. L’evento della Conciliazione fece sperare, in quegli anni, ai cattolici, e perfino al Pio XI della “Quadragesimo Anno” (1931) prodiga di elogi, ma anche di fondamentali critiche, al regime sindacale realizzato in Italia dal fascismo, di poter “battezzare” lo Stato corporativo nazional-sindacalista di Mussolini. La deriva del fascismo italiano verso la Germania razzista, una deriva per niente ideologicamente necessitata ma avviata e resa possibile dalle “inique sanzioni” comminate all’Italia dalla ginevrina Società delle Nazioni al servizio di Inghilterra e Francia, fece naufragare le speranze dei cattolici di cristianizzare il regime e di costruire una alleanza internazionale di “nazioni cattoliche” alternativa, ad un tempo, all’Occidente anglo-americano, al comunismo sovietico ed al “totalitarismo neopagano” tedesco. Vogliamo, tuttavia, da parte nostra annotare, ancora a proposito dell’ultimo Gentile, che anche nella prospettiva del “comunismo idealistico”, come in quella marxiana, la conclusione inevitabile sarebbe stata la finale risoluzione dello Stato nella Società, e viceversa, secondo una prospettiva immanentista ed anti-trascendente che avrebbe portato al superamento ed alla dissoluzione dello Stato destinato, per la convergenza immanentista con la società, a perdere ogni carattere di trascendenza rispetto alla società civile: ed in questo, in fondo, si può additare un destino ultimo di convergenza anche tra il “liberalismo di Stato”, di matrice tedesco-hegeliana, dal quale partì l’elaborazione filosofico-politica di Gentile, ed il “liberalismo pragmatico ed anti-statualista” di marca lockiana anglosassone.
11) Cfr. G. Accame “Il potere del denaro svuota le democrazie”, Settimo Sigillo, Roma, 1997.
12) Cfr. J. Habermas “Zur Verfassung Europas. Ein Essay”, Francoforte, 2011.
13) Cfr. Intervista apparsa su Il Messaggero del 19 aprile 2015, in occasione della pubblicazione dell’ultimo libro di Romano Prodi “Missione Incompiuta – intervista su politica e democrazia”, Laterza, Bari, 2015. Nell’intervista sul quotidiano romano, Prodi, poi, a proposito del comportamento dell’Eurogermania verso la Grecia, la cui crisi conseguenza di quella dei subprime americani ha innescato la crisi dell’eurozona, dice: «Il problema greco è nato perché i grandi Paesi, Germania in testa, durante la presidenza italiana si sono rifiutati di dare alle autorità europee una funzione di controllo sui conti di tutti gli Stati. Quindi la Grecia ha imbrogliato (ma con la complicità della banca d’affari transnazionale Goldman Sachs, nda) perché le è stato permesso di imbrogliare. Inoltre quando è esploso, il caso-Grecia era piccolo e poteva essere risolto con un po’ di buonsenso. Ma gli interessi e i problemi di politica interna tedesca hanno impedito una soluzione rapida. Così, dagli iniziali 30 miliardi, il problema in quattro mesi è diventato dieci volte più grande. E ovviamente la speculazione ha fatto la sua parte. Poi sono cominciate le lunghissime trattative, con la Germania che faceva la predica con l’intenzione di dare ai greci una lezione esemplare e i greci che cercavano di non perdere la faccia rispetto alle promesse elettorali. Adesso bisogna riprendere con calma il cammino del negoziato, sperando che si arresti la tempesta finanziaria».