Dal Pentagono si è dimessa Evelyn Farkas, vice-assistente segretaria del Ministero Difesa con una carica interessante: era quella che gestiva le relazioni militari con Ucraina e Russia, ossia armava la giunta di Kiev e la spingeva alla guerra contro i secessionisti del Donbass. Era praticamente il clone, al Pentagono, di quel che è alla segreteria di Stato (ministero degli Esteri) Victoria Nuland, la grande istigatrice dei golpisti di Kiev, che per staccare l’Ucraina da Mosca ha ammesso di aver speso 5 miliardi di dollari.
Come la Nuland (Nudelman, sposata Robert Kagan, uno fra i più virulenti neocon) la Farkas è ebrea. Di origine ungherese, come la Nuland e suo marito sono ebrei originari dell’Est, figli o nipoti di esponenti trotzkisti. La Farkas nel consiglio della “Harold Rosenthal Fellowship on International Relatyions” (una centrale sionista), immancabilmente anche membro del Council on Foreign Relations e dell’Aspen Club, dove presiede un “Socrates Scholar Program”. Soprattutto, la donna – ha scritto il blog washingtoniano Politico – è stata “consigliera di tre segretari alla difesa sulla politica russa, fornendo una continua expertise su come gli Usa devono rispondere alle azioni aggressive della Russia”. Ed è stata anche “profondamente implicata nello stanziamento di 244 milioni di dollari a sostegno dell’Ucraina”, in armamenti. Ragion per cui un altro blog di Washington la definisce la “top cabalist”, ossia la primaria complottatrice al Pentagono.
Complottatrice per la “cabala neocon” che la Nuland tanto efficacemente rappresenta alla Segreteria di Stato, spesso dando l’impressione di guidare il povero Kerry su posizioni più fanatiche e dure di quanto lui volesse… le dimissioni della Farkas possono essere lette come la sconfitta dell’ala che guidava la stessa Casa Bianca sulla continuità del progetto neocon di destabilizzazione globale inaugurato con Bush figlio?
I siti washingtoniani sottolineano che la signora, che da tempo ruggiva contro la “debolezza” di Obama verso Putin, ha sbattuto la porta “lunedì 28 settembre”, subito dopo i novanta minuti di faccia a faccia tra Obama e Putin, all’Onu, dove il secondo ha spiegato al primo le sue intenzioni con l’intervento in Siria, per debellare l’ISIS sul serio. Ufficiosamente, al Pentagono, hanno negato: no, la signora, in carica da 5 anni, lascia perché ha trovato una “opportunità” fuori dalla politica. Succede ad ogni fine di presidenza; negli ultimi mesi de presidente in carica, negli uffici dei massimi collaboratori è tutto un telefonare per cercarsi un nuovo lavoro, una cattedra universitaria, un incarico in qualche “fondazione culturale”. E’ il bello dello spoil system. Sono anche mesi in cui nessuno da’ quasi più retta al presidente, perché troppo occupato ad assicurarsi il proprio futuro. Succede anche ad Obama che tra poco più di un anno, novembre 2016, dovrà traslocare dalla Casa Bianca.
Ma pochi giorni prima della Farkas, ci sono state le dimissioni di un personaggio non meno centrale nella strategia di destabilizzaizone Usa: il generale John Allen, che Obama in persona aveva nominato plenipotenziario della (rullino i tamburi) “Coalizione Globale per Contrastare l’ISIL”: ossia quella coalizione che ha compiuto centinaia di bombardamenti sul Califfato, per un anno, senza produrre il più lieve danno al regno takfiro. Anche le dimissioni di Allen sono giunte così inattese (ed apparentemente offensive) che la Casa Bianca ha cercato di nasconderle per qualche giorno. Ora gli amici gallonati dicono che il generale era “frustrato” dal comportamento di Obama, che “Non gli ha mai dato i mezzi” per (come dicono) “degradare e alla lunga debellare l’ISis”. In particolare, Allen aveva “cercato di convincere più volte, ma invano” il presidente Obama ad accedere alla richiesta della Turchia di istituire una zona di protezione dei civili in Siria: nella neolingua, “zona di protezione dei civili” significa creazione di una no-fly zone per i caccia di Assad, da abbattere se vi entrano per colpire i takfiri; un probabile preludio alla eliminazione del dittatore.
Naturalmente oggi il progetto ha perso d’attualità, dato che lo spazio aereo siriano è dominato dai Sukhoi, i quali, in tre giorni settimana, hanno seminato distruzione, panico e diserzioni di massa nel ramo siriano di quel Califfato che sembrava invulnerabile sotto i continui bombardamenti Usa, da cui usciva anzi più vigoroso e fornito di armi che mai, aumentando anche il numero dei suoi effettivi, tutti evidentemente vogliosi di sfidare gli F-22 per un buono stipendio e il piacere di decapitare inermi. Secondo le ultime notizie, tremila guerriglieri dello Stato Islamico, di Al Qaeda (Al Nusra) e i Jaish al-Yormuk sono già fuggiti in Giordania .
Adesso gli invincibili scappano come conigli (succede, ai mercenari, quando si trovano davanti a un vero nemico) e lo scopo di “degradare e alla lunga sconfiggere” il Califfato sembra si stia realizzando un po’ troppo presto. E che Assad non sarà eliminato domani.
Di questo disastro geopolitico, psicologico e morale Usa, i dimissionari danno evidentemente la colpa ad Obama. La tesi che questo si sia messo d’accordo on Putin e gli lasci fare in Siria il repulisti, è una tesi sostenuta da varie fonti, sia da Claudio Moffa sia dalla rivista Limes. E sottoscritta da Thierry Meyssan in termini addirittura paradossali: “I bombardamenti russi in Siria non sono diretti contro gli alleati degli Stati Uniti, ma costituiscono un aiuto militare al president Obama che, da un anno, non viene obbedito dalla coalizione anti-Daesh (sic). Nonostante il pesante contenzioso che li oppone (…) il Cremlino ritiene di poter aiutare l’amministrazione Obama a constatare l’inefficacia della sua politica e tornare al diritto internazionale”.
Tesi affascinante. Ma perché Obama avrebbe dovuto lasciarsi seppellire in una montagna di guano, passando alla storia che il presidente che ha fatto crollare tutto il castello di menzogne su cui si reggeva dal 2001 l’impero americano? La cosa avrebbe un senso solo in una circostanza precisa: che Obama non volesse quella politica, che era quella voluta dai circoli neocon. I quali l’avrebbero condotta a suo nome dalle seconde file del Pentagono e del Dipartimento di Stato. Oggi che sta per lasciare la scena della storia, Obama – la cui doppiezza e viltà non credo abbiano bisogno di essere provate – si prende qualche gustosa vendetta. Certo l’urlo uscito dal cuore del senatore John McCain: “…Ma i russi stanno bombardando i nostri jihadisti formati dalla Cia!”, non può aver fatto dispiacere al miserabile presidente, se quella politica lui l’ha solo subita e per mancanza di carattere, ed opportunismo e viltà, l’ha avallata con qualche riserva. Ovviamente, “se”.
McCain, ricordiamo, è un repubblicano, ed è stato l’avversario di Obama alle presidenziali passate. Adesso che è possibile (salva l’incognita Trump) che i repubblicani riprendano la Casa Bianca, saranno loro a dover gestire lo scacco matto dato da Putin, la perdita di credibilità che la politica Usa ha riscosso a Ryad ed Ankara. Per non parlare della lobby israeliana che ha sfidato e di Netanyahu che ha umiliato Obama fino all’inverosimile. Adesso tocca a loro. Lui, fa’ il suo dovere d’ufficio criticando la Russia perché “destabilizza l’Ucraina” e “uccide civili”; poi se ne va e farà conferenze pagate.
Se è così, è la sconfitta dei neocon e del progetto (di destabilizzare i paesi islamici attorno ad Israele, secondo linee etnico-religiose) che hanno voluto dall’11 Settembre, attuato fino a svuotare l’America di miliardi di dollari, migliaia di soldati caduti e il quasi esaurimento della sua stessa potenza militare, sovra-estesa ed usurata fino all’osso. E’ un’ipotesi molto provvisoria. I neocon hanno sette vite. Resta da vedere se la superpotenza ha ancora i mezzi per servirli.