Sull’ignoranza delle élites secessioniste e dei loro antagonisti “populisti”.

Quando “la sinistra”, in rotta dovunque, continua ad essere forte solo nei quartieri di lusso di Milano e Roma, bisogna cominciare a vedere la realtà che viene nascosta dall’etichetta che i privilegiati  – dato che hanno tutto e sono i padroni del discorso –  si sono dati.   Strappare etichetta falsa come le loro fake news, e  riconoscere il nemico di classe.

Un nemico di classe  molto più difficile da vincere. L’oligarchia oppressiva e repressiva, essendo mondializzata, non vive più nella nazione.  Si sottrae anche alla vista nelle sue case con i servi filippini e nelle sue terrazze romane, non dovendo più i loro privilegi a nessun contatto con le classi oppresse.  E l’ondata di immigrazione che  spezza l’unità del popolo oppresso le dà un vantaggio in più.

Perché “Karim vote à gauche et son voisin vote FN”, Karim l’immigrato vota a sinistra mentre il suo vicino (bianco e disoccupato di lunga durata) vota Front National, come suona il titolo di un saggio del politologo Jerome Fourquet.

Ora lo  stesso politologo pubblica “1985-2017, quando le classi privilegiate hanno fatto secessione”.

L’accusa  è precisa: le elites sono secessioniste. La coesione della società è rotta “dal separatismo sociale di una parte della frangia superiore della società, essendo di fatto sempre minori le  occasioni di contatti ed interazioni fra  le categorie superiori e il resto della popolazione”. Non è tanto che quelli che in Francia chiamano CSP+ (grandi capi d’impresa, grandi professionisti di successo, alti commercianti, manager digitalizzati e consumatori d’alta gamma) in 30 anni sono passati a formare dal 25 all’attuale 46% della popolazione del centro di Parigi, mentre la percentuale di operai in qui quartieri, che era del 18%, è calata al 7.

Il punto  decisivo è che costoro hanno “disertato l’insegnamento pubblico”  per i loro figli e nipoti, sempre più piazzandoli in scuole private d’elites e in costose e prestigiose università private all’estero, americane per lo più.  Argomento rovente,  anche perché gli studenti  sono in agitazione perché Macron ha chiuso accessi alle Università “per tutti”, conquista del ‘68.

Ma già Emmanuel Todd  ha segnalato la  frattura educativa fra oligarchie e “popolo” confinato nelle scuole pubbliche di massa sempre più degradate,  come cruciale per la rottura del corpo sociale. Già nel 2015 Todd  si diceva “scandalizzato  dallo stupro del suffragio universale  avvenuto  con l’applicazione forzata della pseudo-costituzione chiamata Trattato di Lisbona”, imposta nonostante il voto  contrario dei francesi. Vi ha visto la svolta decisiva verso l’oligarchia  senza  scrupoli.

 

Si riscopre così che l’accesso generalizzato alla  scuola pubblica, non solo primaria ma secondaria, l’interazione fra ricchi e  poveri e tendeva ad  egualizzare il livello d’istruzione, ciò che favoriva la democrazia,  anche “nutrendo  un subconscio sociale egualitario (sic)”, l’attuale privatizzazione dell’istruzione a pagamento – come ogni altra privatizzazione  – “nutre un subconscio sociale in egualitario”.

E attenzione, non è che questi acquisiscano davvero una cultura profonda e superiore, nelle loro università d’elite – come almeno ricevevano le elites italiane a  forza di greco e latino nel liceo di Gentile, e quelle inglesi (dove ugualmente la classe dirigente veniva temprata al governo delle colonie e delle flotte con gli studi classici, profondamente inattuali) – ma quella cultura “funzionale e alla moda” che li rende  plurilingui, mobili, a loro agio nella comunicazione, imbevuti del pensiero unico della mondializzazione liberista che permette loro di vivere sempre meno nel quadro nazionale (d’altronde deperito) e sempre più in un “altro-mondo in sospensione”.

E’ l’infarinatura educativa della Generazione Erasmus, ferocemente satireggiata  da Borgognone, il cui vero esito non è di formare una vera classe dirigente che si assuma il peso e la responsabilità di governo, ma al contrario:

provoca “l’autonomizzazione delle classi favorite, che si sentono sempre meno legate ad un destino comune col resto della collettività nazionale”, che va dal separatismo elettorale fino all’esilio fiscale, la sottrazione dei profitti  alle imposte resa possibile dalla mondializzazione, che mostra il rifiuto di questa parte della popolazione di finanziare il funzionamento della collettività nel suo insieme.

Capitalisti il cui capitale è “culturale”, di  quella cultura facile e spendibile nella globalizzazione:  Macron ne  è un esempio caricaturale: pedantemente “esperto”  quando parla del digitale, nulla conosce della storia del suo paese. La  sua visione della società è quella – parole sue del terrificante discorso del luglio 2017  – di un non luogo, una stazione “dove si incrocia gente che ha successo e gente che non è niente”.

Gente che “non è niente”, così  questa classe vede i concittadini poveri,  deboli, malati, disoccupati.

Persa l’etica  del servizio pubblico

Ovviamente, l’anti-statalismo ideologico, che ha portato allo  “snellimento” alla riduzione delle spese pubbliche,  ha fatto prosperare questa classe e la sua mentalità.  Con tutti i loro difetti scuola di Stato, ferrovie di Stato, previdenza sociale, sanità pubblica,  avevano lo scopo di stabilire l’eguaglianza fra  cittadini di pari dignità: il servizio pubblico aveva una sua etica, che era  l’obbligo di estendere il servizio alle medesime condizioni a tutti i cittadini. La privatizzazione ha portato ad una aziendalizzazione, che ha distrutto questa etica rimpiazzandola con l’obbligo di  “fare profitti” . Ovviamente, de-responsabilizzando i dirigenti verso la società.

Non si può tacere che, per “ridurre la spesa pubblica”, la Unione Europea s’è data un pretesto cervellotico, un automatismo unico al mondo e nella storia: l’obbligo di rispettare i “criteri di convergenza di Maastricht”, il limite del 3% del deficit pubblico. E’ a nome di questo “obbligo” che i governanti distruggono, liquidano, svendono il patrimonio collettivo, che non è loro, ma del popolo che lo ha costruito nelle generazioni successive.

Nel complesso, riconosce il saggista Fourquet, possiamo dirlo dopo decenni di costruzione europea: essa agisce come “un formidabile strumento di de-responsabilizzazione delle elites politiche”. I politici, quelli che eleggiamo, non hanno più bisogno di assumersi i doveri che comporta la loro legittimazione:  la  capacità di fare le grandi scelte , è trasferita massicciamente alle eurocrazie transnazionali. Non occorre  nemmeno che diventino competenti in economia politica per governare: applicano le “normative europee”, fanno quel “che ci chiede l’Europa”.  Hanno spento l’intelligenza  nella convinzione che i tecnocrati ne abbiano di più.

La UE ha de-responsabilizzato  le dirigenze nazionali

Che la loro competenza sia “neutrale” e a-politica, non di parte, e quindi infallibile ed indiscutibile,  è una delle più insensate e  rovinose superstizioni su cui si regge la “Europa”.

Di fatto, ormai è ora di riconoscerlo: gli eurocrati, gli esperti, hanno commesso errori radicali – come l’euro senza fare una vera unione monetaria, errore segnalato dai maggiori economisti Nobel –   e  volontariamente,  nel calcolo di suscitare disastrose divergenze fra i paesi,  che avrebbero indotto i governanti a cedere  ulteriore sovranità (“Mai sprecare una crisi”, Mario Monti).

Un errore ancora  più fatale dei tecnocrati è  sotto gli occhi di tutti anche se non ce ne accorgiamo: che, sotto la loro guida di “esperti”, l’Europa è diventata, da avanguardia inventiva, una retrovia  relativamente arretrata,  che esporta  magari in Cina le Mercedes, che si dedica ai motori d’auto , però che importa tutta l’elettronica “di consumo”: decine di milioni di computer a schermo piatto, che stanno su ogni ufficio pubblico o privato, sono cinesi o coreani – e  così  le decine di milioni di smartphone. Li sapevamo produrre, ma quel settore è stato abbandonato  alla competizione di paesi dai bassi salari;  questi hanno acquisito le competenze avanzate che noi, comunitariamente, abbiamo  perso e cancellato.

…e  gli  “esperti”  hanno fatto scelte sbagliate

E non è un fenomeno “naturale”: è una scelta politica di incompetenti, che hanno seguito l’ideologia: liberismo globale (nessuna difesa delle produzioni nazionali) e peggio ancora, l’abbandono del demonizzato “dirigismo”.  Ma secondo voi, la Corea del Sud come ha sviluppato l’elettronica e  le università specialistiche e le fabbriche allo stato dell’arte per i processori? Tutte queste cose non le hanno  create “i mercati”, bensì la decisione politica dello Stato coreano  – reso acuto dal fatto di essere psicologicamente in stato di guerra col Nord, io credo –  di conquistare l’eccellenza  in un settore di cui aveva giustamente identificato il futuro, fornendo investimenti pubblici mirati. L’impressionante emersione della  Cina è tutto effetto di “dirigismo” politico, di scelte non dettate dai “mercati  finanziari”, ma da una certa idea di nazione.

Gli eurocrati, non hanno dato nessuna direzione industriale (anatema per il dogma liberista), hanno abbandonato le nostre industrie elettroniche ai “mercati”, ma in compenso si impicciano e dicono la loro sui bilanci degli stati membri, li correggono,  li limano,  impongono nuove tasse “per stare nei parametri”: insomma fanno del “dirigismo” asfissiante, ma sbagliato, stupido e stroncante lo sviluppo economico.

Possiamo proseguire, se volete. Credete che i celebrati capi della Banca Centrale Europea sappiano davvero  che politica monetaria stanno conducendo? Che  Draghi e Weidmann  l’abbiano pensata, diciamo, meglio di quanto la possano pensare un Sapelli e un Bagnai, o un Varoufakis? Proprio  il greco ha rivelato come, con suo  stupore, ha scoperto che questi – e i politici eurocratici come Merkel e Hollande   – applicano non idee, ma “protocolli”  che, per essere stati faticosamente concordati, sono l’espressione di compromessi fra la Bundesbank e le altre banche centrali, fra i  diktat del ministro tedesco delle finanze – che ha da vendere in Usa le Mercedes, mica   gli smartphone – e il servile  italiano di passaggio, che ha un paese de-industrializzato e quindi, spera solo, col cappello in mano, che gli lascino “sforare Maastricht”.  Basta confrontare la Merkel e Macron con Putin e Lavrov per vedere  la diversa qualità, stoffa e cultura  politica. Un abisso.

E la Corte di Giustizia europea continua, dagli anni ’60, ad imporre per sentenze e giurisprudenza una deregulation economica che , ha “costituzionalizzato”; ossia messo  al disopra delle leggi nazionali, ossia al di fuori della portata dei parlamenti eletti. Mantiene paradisi fiscali al suo interno, ossia legalizza l’elusione fiscale delle elites secessioniste; con la dogmatica della “Libera circolazione di capitali e lavoro”, mette in concorrenza il capitale col lavoro, a naturale profitto di quello più mobile  che depreda quello sedentario, legato alla lingua e ai sistemi nazionali, il lavoro.

L’Europa verso l’arretratezza

Tutto ciò, come dicevo, ha reso l’Europa, da avanguardia, a popolosa retrovia di consumo, avviata all’arretratezza industriale e scientifica, e  visibilmente, sterile anche in arte, cultura, scienza.   Eravamo dipendenti dall’estero per le materie prime, oggi  l’eruocrazia ci ha reso dipendenti dall’estero per i computers.  Ormai  ignara  di quella  economia “politica” (politica significa “pubblica” e “sottratta al mercato del profitto”, come la lira prima del divorzio Tesoro Bankitalia), ci ha riempito la classe dirigente anche potenziale di incompetenti che   non conoscono  – se prendono il potere – come far funzionare lo Stato. Matteo Renzi è un triste esempio di agitatore non privo di  qualità ma  privo di una precisa percezione di cosa andava “riformato”.  All’Europa dobbiamo perfino se Fico è laureato in  canzone napoletana in “Scienza delle Comunicazioni”, o Di Maio che s’è solo affacciato a Giurisprudenza: non è colpa loro. Penso solo a come il fascismo avrebbe spinto, obbligato, lanciato  giovani napoletani  intelligenti a frequentare università dure, e laurearsi in ingegneria, a studiare per diventare dirigenti dell’IRI, che so.

Il punto è che questi, in cui sono le ultime speranze di un recupero della sovranità, condividono con le elites secessioniste la “cultura”, a livello subalterno: no  sono nemmeno Generazione Erasmus infarinata di inglese, ma sono aspiranti Erasmus  risalenti  dalla classe “che non è niente”.

Insisto: non è colpa loro (del resto non è che la ministra Fedeli Poletti o Lorenzin fossero  coltissimi), è mancato loro il dirigismo che mettesse a frutto  le loro qualità per la nazione. Il guaio è che condividono la mentalità delle elites secessioniste. Non hanno la cultura “dura” che serve a contrastarle.

E come scrive Ivan Krastev, sociologo bulgaro, nel suo Destino d’Europa (Le destin de l’Europe, Premier Parallèle, 2017), laddove “le  elites tradizionali avevano doveri e responsabilità, e la loro educazione le  preparava a mostrarsi all’altezza”, oggi “le nuove elites non sono formate al fardello del governare”, un vero “sacrificio”: “La natura e la convertibilità delle competenze delle nuove elites le affranca molto concretamente dalla  propria nazione. Non dipendono dai sistemi educativi pubblici nazionali, né dai sistemi di protezione sociale. Hanno perduto la capacità di condividere le passioni e le emozioni della loro comunità”.

Questo Nemico di Classe, ha fatto secessione, e peggio: la sua bassa  ma pretenziosa  cultura “cosmopolita” lo rende “libero”  dei doveri di essere classe dirigente. Come dice Fusaro, il nuovo sfruttattore non ha nemmeno “la coscienza infelice” che Marx vedeva nella borghesia imprenditoriale; la sua emancipazione morale lo rende quello che poteva anche non essere: una Oligarchia  parassitaria. Che per di più accusa gli altri, i “populisti” i “sovranisti”, di essere fascisti . La frase di Berlusconi che davanti ai  5 Stelle  si sente come  un ebreo davanti a“Hitler”, è molto indicativa.  Anche lui, “di destra moderata”, appartiene ai quartieri alti secessionisti che hanno in orrore il popolo, e  contribuirà a disciplinarlo come chiede l’Europa.  Lui, non si fa nessuno scrupolo a preferire un governo col PD e a dirlo. Lui ha superato la finzione “destra/sinistra”, buona per fare fesse le plebi idiote. Lui, ha capito  che  la divisione non è fra destra e sinistra,  ma fra “basso” e “alto”. E castrerà il movimento nato con Salvini. Il problema dei 5 Stelle – oggettivamente difficile – è  di trovare il coraggio di assumere il populismo non come una  colpa, ma come una bandiera.