Certo che l’interruzione del Nobel per la letteratura è un potente segno dei tempi. Indica la crisi della laica consacrazione suprema occidentale, con cui il Luteranesimo si faceva pietra di paragone assoluta dei “valori” indiscutibili. Ricevere un Nobel, anzi “essere” un Nobel (il verbo “essere” imprime un carattere ontologico, sacramentale) voleva dire incarnare l’autorità superiore, anzi massima; inconfutabile perché – nel mito che l’Accademia svedese ha instaurato – oggettiva, imparziale e pura, scesa dall’empireo luterano. Ciò ovviamente riusciva meglio per le scienze che per la letteratura (e non parliamo del “Nobel della Pace”). Ma oggi che il Nobel letterario non venga attribuito perché il marito di una giurata palpava le impiegate – anch’esso un segno dei tempi a suo modo – suona una scusa. Probabilmente, volta a nascondere che la giuria, ormai, praticava la corruzione, bustarelle, mercato delle vacche di un qualunque premio letterario.
Un altro motivo, più profondo, può essere la disperata scarsità di autori premiabili. Già la premiazione a Dario fo e a Bob Dylan mostrava che si raschia il fondo del barile, in mancanza di grandi romanzi, si pesca tra i clown e i divi del pop.
Se l’ipotesi è vera vedremo negli anni prossimi, se questa del 2018 è solo una interruzione oppure una cessazione. Sarà la presa d’atto che la sterilità creativa, che cresce così visibilmente attorno a noi nelle “arti visive”, ha raggiunto ormai anche scrittura e la parola.
Sarebbe il vero exitus di quella che il grande storico (o piuttosto, psicopatologo) dell’arte, Hans Sedlmayr, ha chiamato “l’arte nell’epoca dell’ateismo”, e di cui ha identificato il carattere, essenzialmente, come una dissociazione.
Perdita del centro
“Tutte le arti sono partite da un centro comune, nel quale e mediante il quale erano un tempo collegate tra loro”: pensava alla cattedrale, che chiamava al suo servizio architettura e pittura, scultura ed arte delle vetrate, arazzi e musica, unificandole. Con l’avanzare dell’ateismo, dal ‘700, ogni arte rivendica la propria autonomia, non vuole più “servire” altro che se stessa e la sua propria essenza. L’architettura diventa “puro costruttivismo che corrisponda a scopi materiali”, razionalista, per l’uomo “che vive di solo pane”; allora si sente come “ornamento” (superfluo) tutto ciò supera il costruttivismo, fino al proclama “L’ornamento è delitto” di Adolf Loos, che ha portato a città dense di “delitti senza ornamento”(Arbasino). Nella pittura, questa volontà di emancipazione da tutto ciò che la rendeva “impura” è stato una rivoluzione totale: i pittori rifiutano il soggetto, il significato; di dipingere “storie” (cosa c’entra la narrativa con il colore?), rifiutano la plasticità, il chiaroscuro (roba da scultori), la prospettiva (da architetti); rigettano ogni elemento sentimentale, sensuale, fantastico, mitico e tradizionale. La “Madonna col Bambino” diventa “donna che allatta” e poi “dinamismi” futuristi o macchie di colore. Al fondo, c’è l’astrattismo di Mondrian, il quadrato nero su fondo bianco di Malevic, l’informale che non significa più nulla – e non interessa più nessuno se non i mercanti “d’arte contemporanea”, ossia “i mercati”.
La musica ha intrapreso la stessa via della “purezza” ed autonomia con Schoenberg – obbedire solo alle proprie norme interne, fino a rendersi volontariamente inascoltabile: via il “popolo” coi suoi sentimentalismi, parliamoci fra noi musicisti…e fu il jazz, la musica negra, il rock e il pop, con l’impressionante fenomeno di un Occidente che getta nella discarica il suo proprio, millenario linguaggio musicale “classico” per adottarne un altro. E’ come se un popolo smettesse di usare la lingua dei suoi poeti (Dante) per adottare quella di Bob Dylan o dell’arabo immigrato. Cosa che, dopotutto, sta avvenendo.
Sedlmayr nota che l’età dell’ateismo ha un effetto dissociativo dovunque: “Anche l’uomo, adesso, viene considerato come un insieme di funzioni di diverse specie, prive di un senso spirituale”. E’ l’epoca degli specialisti, dei tecnocrati, ma anche degli smembratori di corpi umani: da Picasso all’artista svizzero che espone cadaveri plastificati, allo stregone nigeriano che tronca con perizia la ragazza italiana, non c’è un gran passo, dopotutto. Nell’età dell’ateismo “L’uomo è sempre meno in grado di mantenere la propria immagine”, Daumier la deforma in caricatura feroce, Picasso la scompone in elementi astratti da cui lascia emergere solo i peli pubici osceni, taurini e da vacche-puttane. “L’immagine dell’uomo diventa estranea a se stessa”, già diagnosticava Sedlmayr negli anni ’40, “si abbassa fino a un livello delle cose più morte”.
Verso l’inorganico
La dissociazione dal centro comune unificante, ha infatti il decorso del cadavere che si scompone dall’organico all’inorganico, dal biologico agli elementi chimici e minerali che componevano la vita. Parallelamente, viviamo in un “Mondo che si raffredda” ed è percorso da sinistri, “demoniaci” lampi anarchici, caotici, nichilisti.
Gli architetti non riescono nemmeno più capire il tema architettonico che è stato il “loro” tema primario per tremila anni, il tempio; Renzo Piano ha dovuto chiedere ai francescani di padre Pio a cosa serva, esattamente, una chiesa. Del resto la Chiesa, da almeno due secolo “ha perduto il fuoco e sale spirituale”, accettando le forme d’arte dell’età atea, e infine il vuoto spoglio e mortale dell’informale nei suoi interni, con la scomparsa di ogni ornamento e persino del Tabernacolo. Non c’è da stupire che via sia apparso Bergoglio e che una junta ultramodernista la stia trasformando in una organizzazione sociale, in una ONG per l’uomo che vive di solo pane.
Prevedeva Sedlmayr: “L’Uomo-Dio [Cristo] diviene necessariamente uno scandalo per lo spirito che separa una sfera dall’altra”, o spirito che “non sopporta lo stato di creatura in un mondo caduto e perciò necessariamente composito e misto”. Infatti: nella cosiddetta comunità (cattolica?) di Bose e di Enzo Bianchi, si predica di “lasciar perdere la Resurrezione”, e ciò “perché divide”: i cristiani dagli atei. La Verità non deve disturbare “l’incontro” nel sociale e nell’ideologico. Solo Uomo, niente Dio, insomma. Dissociazione.
Ma – torniamo al Nobel della letteratura – la parola non ha potuto mai arrivare al grado di decomposizione dell’arte figurativa e dell’architettura. E’ difficile proporre romanzi privi di forma (anche se si è seriamente tentato: l’Ulisse di Joyce) e poesie prive completamente di significato e musicalità, per sete di “purezza”. Perché anche lo sprovveduto intimidito che non osa – davanti al mostro dell’Archistar o dell’artista informe Rothko – dichiarare il sospetto di fraudolenza che aleggia, non detto, su tutta l’arte contemporanea, non essendo lui architetto né pittore e dunque “non ha i mezzi per capire”, è difficile che compri un libro “informale” e insensato, se non altro perché, come essere parlante, ha i mezzi per capire.
Fine del romanzo, fine della borghesia
Ma è proprio così? L’oggetto candidabile per eccellenza al Nobel letterario, il romanzo, è stata la forma d’arte propria della borghesia, con cui la borghesia colta dipingeva se stessa con impietosa veridicità, criticava se stessa e la società che aveva creato. Era un “pensare” la cronaca oltre la cronaca – il romanzo partecipa anche del giornalismo, altra grande creazione borghese: Dostojevski pubblicò i suoi capolavori a puntate, partecipa alla storiografia e la supera in affreschi inarrivabilmente grandiosi, paragonabili (Tolstoi, Thomas Mann) alla Sistina di Michelangelo, ed anche oltre quando uniscono all’epica delle masse le più fini rappresentazioni di psicologie individuali.
Il romanzo ha avuto una evoluzione: prima interessava il lettore alla trama, a “come va a finire Sindbad”, ma nella sua forma maggiore, adesso lo trascina dentro un mondo intero, rigorosamente e minutamente rappresentato. L’autore, se è bravo, non ci riferisce ciò che è un personaggio; ce lo fa vedere davanti ai nostri occhi, all’interno del suo mondo e della sua società con le sue tragedie epiche, parimenti “reali” per noi finché leggiamo – immersi nell’albergo di Davos della Montagna Incantata o nella Parigi di Proust.
Proprio per questo, il romanzo ha da tempo raggiunti i suoi limiti oggettivi, la sua perfezione tende a coincidere con la sua illeggibilità per eccesso di voluminosità, pensate ai Demoni di Dostojevski o ai dieci tomi di La Recherche. Dall’altra parte, può sedurre una borghesia dotata di cultura sufficiente. Ora, dov’è questa borghesia? Nell’epoca dell’ateismo, è sparita anche quella: dissociata in “tecnocrati” e “speculatori”, in “consumatori di entertainment” per i quali i problemi brucianti che Dostojevski poneva ai suoi lettori (e che essi capivano) sono diventati scatola chiusa; e il Dottor Faust di Thomas Mann un grumo ermetico di cui l’uomo medio e ricco non ha più la chiave – perché essere ricco non si deve scambiare con l’essere borghese – non si può immaginare Berlusconi, o Zuckerberg se è per quello, che si appassiona alla tragedia di Adrian Leverkuhn e del suo patto con satana, parabola parallela del patto che strinse la Germania con la volontà di potenza. I migliori lettori, oggi, leggono “fantasy”, ed è già qualcosa, gli altri Saviano ed Erri De Luca, o altri semplicisti. Il secolo dell’ateismo ha intaccato l’ultima forma d’arte, insieme con la classe che l’ha creata e goduta? Vedremo se il Nobel letterario non sarà più assegnato.
“La storia ci insegna che i popoli non sopravvivono a lungo al tramonto della loro religione”, ha scritto Gustave Le Bon. Che fra parentesi, era ateo.