UNA PAGINA FONDAMENTALE DELLA NOSTRA STORIA –
LA DISPUTA TRA KEYNESISMO E MONETARISMO QUALE MANIFESTAZIONE DEL PROBLEMATICO RAPPORTO TRA GIUSTIZIA E MERCATO
(Seconda Parte) di Luigi Copertino
Prime critiche scientifiche al monetarismo
Ora, come accadde per la teoria keynesiana alla fine degli anni ’70, anche la teoria monetarista di Milton Friedman trovò, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, le sue difficoltà operative che ne misero in forte dubbio la valenza scientifica, fino a ridimensionarla fortemente se non ad apertamente travolgerla, perlomeno in sede accademica perché, invece, in sede politica essa continua ancor oggi, in particolare nell’Unione Europea ad impianto ordoliberale tedesco, ad aver troppo ed immeritato credito.
Fin da subito fu obiettato a Friedman che, per spiegare certi fenomeni di stagnazione, se nel breve/medio periodo la sua tesi poteva avere una valenza non altrettanto si poteva affermare nel lungo periodo. Il punto debole della tesi monetarista stava proprio nel concetto che essa poneva a base di tutta la spiegazione del fenomeno della stagflazione, ossia quello delle “aspettative razionali”. Questa idea risentiva chiaramente della troppo scontata convinzione, liberista ma irrealistica, della autosufficienza del mercato quale meccanismo automatico di forze capaci per se stesse, in regime di concorrenza, di trovare sempre e comunque l’equilibrio spontaneo.
Con il termine di “aspettative razionali”, infatti, Milton Friedman, sulla base di una asserita ma assolutamente non dimostrata essenza “razionale” del mercato (spesso, al contrario, gli operatori sul mercato, spinti dalla sete di immediati profitti o dal panico, più o meno artificialmente generato e pilotato, assumono comportamenti del tutto irrazionali), rappresentava in modo troppo astratto lo scenario nel quale imprenditori e consumatori, questi ultimi poi sono per lo più i lavoratori, dovrebbero aspettarsi ad ogni aumento salariale un aumento dei prezzi. Se le cose fossero così semplici – fu obiettato –, non si capiva perché mai questa razionalità, da “homo oeconomicus”, non sembra agire proprio innanzitutto nei lavoratori. I quali, pertanto, avrebbero dovuto essere i primi ad invocare il contenimento dei propri salari onde evitare l’aumento dei prezzi e quindi la svalutazione del salario reale.
In realtà, però, più che da aspettative razionali, buone per un professore che ragiona in astratto, i lavoratori, nelle situazioni di crescente inflazione, sono mossi dall’evidenza quotidiana della falcidia dei salari e, quindi, dall’impossibilità di sostenere il proprio reddito mentre l’aumento dei prezzi, generalmente, precede e non segue le loro richieste sindacali. L’aumento dei prezzi, infatti, dove si verifica, può essere ed è innescato soprattutto da altri fattori come l’aumento di altri costi di produzione (materie prime, energia, trasporti, fisco, etc.). Ed allora, se questo è lo scenario più realistico, dove finiscono le “aspettative razionali” che dovrebbero piuttosto consigliare moderazione salariale proprio ai lavoratori? Milton Friedman, come spesso accade agli economisti liberisti, dimenticava che il mondo e la coscienza umana funzionano a molteplici livelli e che non esiste una razionalità astratta ed assoluta come quella che presuntivamente regola il mercato, il quale, invece, nella realtà storica non si da mai, né mai si è dato, nella sua forma “perfetta” con tutti gli operatori eguali quanto a capacità, possibilità finanziarie, informazioni, tecnologia etc.
Nella prospettiva astrattamente irrealistica di Milton Friedman, quando si verifica una sorpresa inflazionistica i lavoratori, ragionando da “homines oeconomici”, non dovrebbero essere spinti a richiedere aumenti salariali perché essi non dovrebbero rendersi conto immediatamente della perdita di potere d’acquisto dei salari (quindi della caduta del salario reale) e, d’altro canto, le aziende dovrebbero invece assumere i disoccupati perché portate razionalmente a ritenere che l’inflazione permette maggiori profitti a parità di salario nominale.
In termini grafici dovremmo avere un movimento lungo la curva di Phillips verso il punto “A”.
Ma, sempre secondo la tesi di Friedman, non tarda ad arrivare il momento in cui i lavoratori si accorgono che i salari reali sono stati decurtati e ne chiedono l’aumento proporzionale al costo della vita. Questo causa uno spostamento della curva di Phillips verso l’alto, verso il punto “B”, che provoca, nella ricerca del nuovo equilibrio, il riposizionamento della curva, ora irrigidita, verso l’alto a destra, ossia verso una situazione di maggiore inflazione determinato dal punto “C” sulla retta lineare parallela alle ordinate e perpendicolare alle ascisse.
Tuttavia, come si diceva, la teoria, che appare razionale e perfetta sulla carta, ha trovato smentita empirica soprattutto perché essa implica, ingenuamente, che i lavoratori soffrano di “illusione monetaria” ossia che si comportino “razionalmente” come fossero professori di economia ed avessero studiato la teoria di Milton Friedman. L’economia industriale è quella, però, nella quale i lavoratori non incontrano i datori di lavoro in un mercato perfetto ossia di concorrenza perfetta. L’economia industriale è caratterizzata da una complessità, aumentata con il passaggio all’economia post-fordista, che risulta dalla combinazione di molteplici mercati imperfetti, con presenza più o meno forte di sindacati, altri gruppi sociali di interesse e pluralismo istituzionale.
Può persino mancare del tutto una capacità negoziale nei lavoratori tale da consentire loro di agire secondo “aspettative razionali” indipendenti dalla loro percezione dell’effettiva realtà della situazione. In genere, al contrario di quel che supponeva Milton Friedman, i lavoratori sono liberi da illusioni monetarie e non agiscono secondo aspettative razionali. Ma neanche gli imprenditori, in termini macroeconomici, sono in grado di valutare con pienezza le presunte “aspettative razionali di inflazione futura”.
Ecco perché già i primi critici di Milton Friedman rifiutarono di abbandonare completamente, ritenendola nonostante tutto molto più aderente alla realtà effettiva delle cose, la spiegazione keynesiana dell’inflazione quale inflazione da costi o da domanda, legata, quest’ultima tipologia, alla tendenziale piena occupazione.
Nicholas Kaldor ovvero il “martello” di Milton Friedman
Se nel paradigma keynesiano-phillipsiano, in una accezione che tentava di coniugava etica ed economia, il problema stava nel determinare quale tasso di inflazione si fosse voluto in rapporto al relativo tasso di disoccupazione e, quindi, quanta inflazione si era disposti a tollerare per garantire la tendenziale piena occupazione, la Rivoluzione Neoconservatrice Monetarista si presentò, sulla scena della storia, sostenendo cinicamente l’esistenza, per una sorta di imperscrutabile legge naturale e quasi divina (nella qual cosa è facile riconoscere le ascendenze luterano-calviniste della teoria, magari inavvertite dai suoi stessi sostenitori che invece la ritenevano scientificamente fondata), di un “tasso naturale di disoccupazione”.
Secondo la tesi di Milton Friedman, con una disoccupazione effettiva al di sotto di tale tasso naturale, ottenuta “artificialmente” con espedienti keynesiani, ossia con un tasso di occupazione tendente al pieno impiego e quindi con una maggiore forza contrattuale del lavoro nei confronti del capitale, l’inflazione accelera, mentre, al contrario, con una disoccupazione al di sopra del suo tasso naturale, ossia con meno occupazione e minore forza contrattuale dei lavoratori, l’inflazione decelera. Questo perché, con una maggiore disoccupazione, circolerebbe meno moneta e meno velocemente ed i lavoratori, spaventati dalla possibilità di restare disoccupati, sarebbero più disciplinati, meno pretenziosi in termini salariali, meno sindacalizzati. Quando il tasso di disoccupazione è pari al suo “tasso naturale” l’inflazione sarebbe, invece, stabile, senza accelerazioni e senza decelerazioni.
La dura lotta contro i sindacati americani ed inglesi, intrapresa in Inghilterra e negli Stati Uniti negli anni ’80, da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e poi mutuata anche negli altri Paesi occidentali, si spiega soltanto con il fatto che Milton Friedman fu il principale ispiratore ed il vero artefice intellettuale della Rivoluzione Neoconservatrice iniziata in quegli anni. Anche il Nobel allo stesso Milton Friedman ha profonde ragioni “politiche” considerando l’assoluta ortodossia che caratterizza l’assegnazione del premio.
La teoria delle “aspettative razionali” afferma, in sostanza, che ogni sforzo, politico o morale, inteso, nel tentativo di raggiungere la piena occupazione, a ridurre la disoccupazione al di sotto del suo “tasso naturale”, interferendo con la spontanea, benché crudele, automaticità del libero mercato, causa immediatamente un aumento dell’inflazione attesa, secondo “razionale aspettativa”, ed implica inevitabilmente, a lungo andare, il fallimento delle interferenze politiche o etiche.
Pertanto, per i monetaristi, la disoccupazione non può mai deviare dal suo “naturale tasso” ed ogni deviazione sarebbe solo una “pia” illusione destinata ad essere, ben presto, disincantata dal mercato. Insomma, per i monetaristi, esiste un “dio crudele”, il libero mercato, che condanna senza rimedio una porzione di umanità, quella calvinisticamente dannata, alla disoccupazione perenne, a beneficio della razza eletta ossia dell’altra porzione di umanità quella “benedetta” perché ricca o fortunata per non essere ancora caduta nella zona d’ombra della mancanza di lavoro. In base alla tesi monetarista, l’unica politica possibile, “conforme al mercato”, è quella della diminuzione della quantità di moneta legale in circolazione per tenere sotto controllo i prezzi. Milton Friedman – freddo adoratore del moloch/dio Mercato – affermava, contro Robert Solow, che è inevitabile un tasso “naturale”, più o meno alto, di disoccupazione necessario per mantenere, insieme alla fiducia in essa, alto il valore della moneta, evitarne la svalutazione e quindi l’aumento dei prezzi. il “dio” di Friedman è evidentemente assetato di sacrifici umani e, odiosamente, molti cattolici conservatori sono corsi idolatricamente dietro a questa maligna divinità.
Ma dal 1990 divenne sempre più chiaro che il presunto “tasso naturale di disoccupazione” non ha un unico equilibrio e che può cambiare in differenti modi e per diverse cause, non necessariamente legate all’inflazione né alla quantità di moneta legale in circolazione. Negli anni ‘90 il tasso naturale di disoccupazione scese al disotto del 4% della forza lavoro, molto al di sotto cioè di ogni sua stima secondo la tesi monetarista, senza – ecco il punto, non l’unico, che ha messo in crisi la tesi di Milton Friedman! – che l’inflazione aumentasse, rimanendo moderata invece che accelerare. Così come era accaduto per la curva di Phillips, anche il friedmanniano “tasso naturale di disoccupazione” diventò argomento di dibattito, perdendo ogni certezza scientifica di irrefutabilità.
Di conseguenza, in sede scientifica si iniziò a dubitare della validità dello stesso concetto di “aspettative razionali”. Iniziò ad apparire chiaro che il modello si basava sul presupposto che ci fosse un singolo ed unico equilibrio nell’economia indipendente dalle condizioni della domanda aggregata. In altri termini, la teoria monetarista guardava le cose solo dal lato dell’offerta e non ammetteva alcuna rilevanza all’eventuale crollo della domanda, il quale, come è stato, ora, ancora una volta, dimostrato dalla crisi del 2008, comporta il rischio non tanto della bassa inflazione quanto, piuttosto, della deflazione. L’esperienza ha così dimostrato che il presupposto stesso sul quale si basa il monetarismo non può essere accettato come l’unico punto di vista e l’unica guida delle politiche economiche.
Ma la crisi del monetarismo non stava tanto nella smentita pratica della correlazione tra “tasso naturale di disoccupazione” ed inflazione, quanto piuttosto nel cadere della correlazione, supposta dalla precedente, tra inflazione, quantità di moneta e sua velocità di circolazione. Correlazione, quest’ultima, per la quale una maggiore disoccupazione facendo circolare meno moneta, e meno velocemente, consentirebbe di controllare verso il basso l’inflazione ossia il livello generale dei prezzi permettendo al mercato di espletare, nel suo libero esercizio, i propri benefici che, a lungo andare, si rivelerebbero come tali per tutti o almeno per la maggior parte della popolazione.
Nel 1982 la Oxford University Press pubblicava un libro, “The Scourge of Monetarism” (“Il flagello del monetarismo”). In esso l’autore, Nicholas Kaldor, economista inglese di origini ungheresi, esponeva i risultati delle sue ricerche su moneta ed inflazione, da un lato apportando critiche a Keynes, per alcune lacune ed aporie della sua “Teoria Generale”, e dall’altro letteralmente demolendo il monetarismo di Milton Friedman. Nicholas Kaldor dimostrò che il paradigma monetarista di Friedman si basava sull’errata ipotesi, appunto “quantitavistica”, che l’inflazione dipendesse da un supposto nesso casuale tra prioritario aumento della massa monetaria circolante e successivo, o contemporaneo, aumento dei prezzi.
Le ricerche di Kaldor, al contrario, evidenziarono che, in un’economia creditizia come l’attuale, ammesso e non concesso che la Banca centrale ed i governi, mediante politiche monetarie restrittive e politiche fiscali austere, realizzate attraverso bilanci “lacrime e sangue” tanto dal lato delle entrate che da quello delle spese, siano in grado di controllare e contenere la quantità di moneta legale in circolazione, è invece del tutto impossibile, tanto alle Banche centrali quanto ai governi, controllare e contenere l’emissione di moneta bancaria, perché questo tipo di moneta è “endogena” al sistema economico e non “esogena” come quella legale emessa dalla Banca Centrale o, un tempo, dallo Stato.
Le banche ordinarie, commerciali, infatti, creano moneta, bancaria (assegni, bonifici, mutui, etc.), ex nihilo, ossia dal nulla, ad ogni apertura di fido o linea di prestito. Questa continua creazione ex nihilo di moneta bancaria avviene anche in assenza di obbligo di riserva in moneta legale (vi sono, infatti, ordinamenti che non prevedono per le banche alcun obbligo di riserva legale) o in misura più che proporzionale agli obblighi di riserva cui, nella maggior parte degli ordinamenti, sono soggette le banche commerciali.
«I monetaristi, in stretta analogia con Walras, – scrive Kaldor – sostengono che la sovrastruttura della moneta creditizia varia in modo strettamente proporzionale alla “base monetaria”, sia che essa venga pensata come oro nei forzieri della banca centrale, o semplicemente come ammontare di banconote emesse dalla banca centrale e poste in circolazione attraverso lo sconto di titoli di prim’ordine e/o mediante operazioni di mercato aperto. Se le cose stessero così, la banca centrale, regolando semplicemente l’emissione di banconote, determinerebbe evidentemente di mese in mese, o di settimana in settimana, la quantità di moneta che “dovrebbe” esistere in circolazione (definita sia come M1, M3 o come M7). In tale situazione raggiungere gli “obiettivi” monetari non sarebbe un problema: essi verrebbero automaticamente raggiunti determinando o “razionando” il volume di monete emesse ogni giorno. Ma, in realtà, la banca centrale non può rifiutare lo sconto di titoli primari che le vengono presentati dalle Casse di sconto. Se lo facesse, stabilendo, su base giornaliera o settimanale, un tetto all’ammontare che è disposta a riscontare (allo stesso modo in cui la biglietteria di un teatro è disposta a vendere solo un numero fisso di biglietti per un certo spettacolo), la banca centrale verrebbe meno alle sue funzioni di “mutuante di ultima istanza” nei confronti del sistema bancario, che è essenziale affinché le banche commerciali non diventino insolventi per carenza di liquidità. Proprio in quanto le autorità monetarie non possono permettersi le disastrose conseguenze di un collasso del sistema bancario, e proprio perché le banche, a loro volta, non possono permettersi di trovarsi nella posizione di chi viene “messo al tappeto”, l’“offerta di moneta” in una economia a moneta creditizia è endogena, non esogena. Essa varia in risposta diretta nei confronti delle variazioni della “domanda”, da parte del pubblico, di contanti e depositi bancari, e non è indipendente da tale domanda» (3).
Trionfi, fallimenti e demolizione del monetarismo
Nicholas Kaldor ha, in sostanza, dimostrato che, avendo essa attualmente natura creditizia, il rapporto tra la moneta e il reddito nominale è diverso, ossia inverso, rispetto a quanto sostenuto dalla teoria quantitativa della moneta. La quantità di moneta cresce per effetto dell’aumento del livello della spesa, non viceversa. Questo fatto fa crollare le fondamenta stesse del monetarismo (4).
La Controrivoluzione neoliberista partì, in sede accademica, negli anni ’50 del secolo scorso, mentre era culturalmente dominante il paradigma keynesiano nella sua forma detta “sintesi keynesiana neoclassica”: una forma che tendeva a conciliare le idee keynesiane con quelle della scuola classica facendo delle prime un caso peculiare delle seconde (una “sintesi”, a dire il vero, fortemente contestata, come “keynesismo bastardo”, dai post-keynesiani).
Negli anni ’50, presso il National Bureau of Economic Research, Milton Friedman riuscì ad evidenziare una stretta correlazione statistica fra le variazioni del livello generale dei prezzi, ossia l’inflazione, e la massa monetaria. Friedman trasse da questa dimostrata correlazione la conclusione «che esistono prove empiriche schiaccianti contro la teoria di Keynes e a favore dell’approccio classico, ossia della teoria quantitativa della moneta». L’esistenza di una forte correlazione statistica fra massa monetaria ed inflazione ha fatto da base per la tesi monetarista sulla dipendenza dell’inflazione dalla quantità di moneta in circolazione e dalla sua velocità di circolazione.
In tal modo Milton Friedman iniziò a porre le basi per una riformulazione della teoria quantitativa della moneta che riportasse in auge la lezione dei maestri classici e neoclassici, ossia liberali. Tale riformulazione era presentata come una teoria della domanda di moneta basata sui principi della “teoria della scelta”. Come detto, la stagflazione degli anni ’70 aprì, poi, alle idee monetariste la strada che porta dall’accademia alle stanze della politica ed a Milton Friedman fu assegnato persino il Nobel per l’economia.
Il monetarismo, basandosi sui presupposti della “teoria della scelta”, fondata principalmente sulla responsabilità individuale nelle scelte di ciascuno, ritenute sempre assolutamente libere e consapevoli, consacrava la visione del mercato come di un armonico meccanismo di coordinamento delle scelte individuali. Un meccanismo spontaneo, autosufficiente, ottimale, capace di autoregolazione e sempre benefico nell’allocare le scarse risorse. Questo spiega perché Milton Friedman aveva una fiducia inossidabile nella stabilità di fondo e nell’efficacia assoluta del settore privato delle economie capitaliste. L’economia sarebbe governata dalle sole forze reali del mercato. Dotazioni di capitale e lavoro, preferenze individuali, tecnologie di produzione sono, in tale concezione, le forze reali che guidano i processi economici capaci, insieme all’operare dei meccanismi concorrenziali, se non disturbati da inferenze morali o politiche, di portare rapidamente il sistema verso una posizione di equilibrio.
Tuttavia nell’ottica liberista del monetarismo, l’equilibrio di mercato viene determinato esclusivamente dall’offerta aggregata e non, quindi, anche, e principalmente, dalla domanda aggregata, come invece ha dimostrato Keynes. Il monetarismo è una dottrina economica che guarda le cose esclusivamente dal punto di vista del capitale. Per questo, secondo Milton Friedman esiste un livello “naturale” del prodotto, dell’occupazione, o meglio della disoccupazione, e del tasso di interesse reale. Nel mondo monetarista come descritto da Milton Friedman, la moneta è neutrale rispetto alle grandezze reali sicché l’economia può essere convenientemente descritta da un sistema di equazioni come quelle che Walras aveva usato per spiegare i rapporti di scambio tra i beni reali.
In altri termini, il monetarismo da una lettura dei comportamenti economici simile a quella di una economia fondata sul baratto, in cui la moneta, essendo solo un mezzo/merce di scambio per agevolare gli scambi degli altri beni, è concepita come una sorta di velo finanziario per coprire le transazioni commerciali che restano sostanziali baratti. Partendo da questa rappresentazione “arcaica” del sistema economico, per Milton Friedman, in conformità alla teoria quantitativa della moneta, il livello generale dei prezzi non può non essere influenzato dagli squilibri tra l’offerta e la domanda di moneta.
Il monetarismo, nonostante l’apparente scientificità, fallì nella sua applicazione. La Rivoluzione Conservatrice Neoliberista di Reagan e della Thatcher fece delle idee di Milton Friedman il cavallo di battaglia contro il “Welfare parassitario”, lo “Stato sociale deresponsabilizzante”, “i vincoli allo spirito di iniziativa imprenditoriale”, “il deficit spending sprecone e corrotto”, “gli abusi e le interferenze sindacali e della contrattazione collettiva”, “la presenza costosa e distorsiva dello Stato in economia”. Insomma, la musica suonata consisteva nel ritornello neoliberista che ancor oggi, nonostante la smentita intervenuta con la crisi mondiale del 2007, continua ad essere cantato imperturbabilmente, almeno nell’Eurozona (Stati Uniti e Giappone hanno scelto un diverso spartito, di tipo neokeynesiano, e sono riusciti ad uscire dalla depressione, riassorbendo la disoccupazione di massa e riavviando la produzione industriale, anche se non a riavvicinare le distanze sociali prodotte dagli anni del neoliberismo trionfante).
Sin dall’inizio degli anni ’80, contro le aspettative della tesi monetarista, la sopravvenuta instabilità della velocità di circolazione della moneta chiarì che era, in effetti, impossibile rapportare l’andamento del reddito nominale al controllo degli aggregati monetari, stabilendo d’ufficio, e quindi arbitrariamente, il livello di moneta necessario al sistema economico e consono al contenimento dell’inflazione, la cui causa era supposta nell’eccesso di moneta circolante.
Nonostante, però, la smentita pratica e sperimentale del monetarismo e nonostante che la politica monetaria attuale abbia ormai abbandonato qualsiasi determinazione di obiettivi temporali commisurati al tasso di crescita della quantità di moneta, la ritrovata “fede” nella spontanea armonia economica operata dal libero agire della “mano invisibile” non sembra aver subito disillusione a livello di classi politiche, anche di sinistra, e di Board tecnici delle principali istituzioni finanziarie mondiali, dal FMI alla Bce. Infatti, come si è visto in particolare nella crisi dell’euro, l’idea fissa continua ad essere quella, monetarista, del contenimento anti-inflattivo della spesa pubblica e degli alti livelli di debito sovrano, senza alcuna analisi sull’origine dal e nel debito privato, sostenuto dalla speculazione bancaria, dell’esponenziale aumento del debito pubblico negli ultimi anni. Solo l’impossibilità, a partire dal 2013-2014, di negare l’evidenza del crollo dei prezzi per effetto di una devastante deflazione ha costretto i più ostinati, come i rappresentanti della Bundesbank nel consiglio della Bce, ad accettare, obtorto collo, programmi di “alleggerimento quantitativo” onde ottenere un po’ di benefica inflazione e corroborare l’economia con maggior liquidità.
La nuova Grande depressione innescata nel 2007 dalla crisi finanziaria causata dai mutui “subprime”, ha dato un colpo mortale al modello rappresentativo monetarista del funzionamento delle economie capitaliste il quale, fino alla crisi in questione, ha guidato tanto la politica monetaria che quella fiscale. Non solo, ma la nuova grande crisi ha riproposto gli stessi problemi che, negli anni della Grande Depressione prebellica, John Maynard Keynes aveva affrontato e spiegato nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (1936). Il mercato capitalistico non è affatto caratterizzato da stabilità e da spontanei equilibri determinati sul lato dell’offerta aggregata, sicché non si può più fare affidamento su quelle teorie, come il monetarismo, che postulano la neutralità della moneta e la necessità di controllare le grandezze monetarie e finanziarie per non turbare il presunto spontaneo ed armonico andamento del mercato libero.
Partendo dallo storico fallimento dei tentativi di controllare la massa monetaria, impostati dalle banche centrali, nell’era reaganiana e thatcheriana, Nicholas Kaldor si convinse che «una relazione statistica, per quanto stretta, non rivela nulla circa la causalità» (5). Secondo Kaldor, infatti, l’«… errore fondamentale, ampiamente diffuso molto tempo prima di Friedman e del nuovo monetarismo, è insito nell’assunto che considera l’offerta di moneta come la fonte della domanda di beni e servizi (invece) la domanda di moneta fu sin dall’inizio un riflesso della domanda di merci e non la fonte di quella domanda».
Spiega, dunque, Kaldor che, in una economia basata sulla divisione del lavoro, la moneta ha una funzione di intermediazione nei commerci e rende possibile la formazione di mercati nei quali lo scambio dei beni prodotti da un soggetto con quelli prodotti da altri soggetti è indiretto, ossia mediato dallo strumento finanziario. Ma, continua Kaldor, solo all’epoca della moneta merce (oro e argento) un aumento della quantità di moneta, ossia dei metalli preziosi monetizzati, poteva esercitare un’influenza sulla domanda aggregata e sul livello generale dei prezzi. Come accadde, ad esempio, quando l’Europa, nel XVI secolo, fu investita dalla gran quantità di oro proveniente dalle colonie del Nuovo Mondo, appena scoperto, e che, facilitando una maggiore monetazione, produsse un aumento dei prezzi nel vecchio continente.
Tuttavia oggi «[l]e regole che presiedono alla creazione della moneta creditizia – continua Kaldor – non sono dello stesso tipo di quelle che presiedono alla produzione dell’oro e dell’argento. La moneta creditizia è creata non già dall’attività mineraria bensì dalla concessione di credito bancario ai mutuatari, che se ne servono (nella maggior parte dei casi) per finanziare spese di tipo non ricorrente, come quelle sostenute per aumentare le scorte possedute dai produttori o dai commercianti, o per ricostituirle a prezzi più elevati, o per acquistare impianti e macchinario» (6).
Richiamando la celebre battuta attribuita a Milton Friedman, Nicholas Kaldor obietta che in un sistema economico basato sulla moneta creditizia, come lo sono tutte le economie industriali moderne, la moneta non piove dagli elicotteri. La quantità di moneta offerta aumenta solo quando la moneta è domandata. Si tratta del medesimo fenomeno osservato, per il mercato reale, da Keynes: è la domanda a creare l’offerta e non il contrario come ritenevano i classici sulla scorta della settecentesca legge del Say.
La moneta, quando ve ne è richiesta ossia domanda, aumenta in primo luogo per effetto del ricorso al prestito bancario, non all’emissione di moneta legale da parte delle Banche Centrali o degli Stati (laddove la moneta legale fosse ancora di emissione statuale). Se a determinare le variazioni dell’offerta di moneta, sotto forma di moneta bancaria ossia di prestiti, sono le decisioni di spesa delle imprese e delle famiglie che, preventivamente alle proprie spese, domandando moneta al sistema bancario, non è più possibile affermare, conclude giustamente Nicholas Kaldor, che la domanda di beni e servizi ed il livello generale dei prezzi, dunque l’inflazione, crescano a causa di un eccesso di offerta di moneta legale.
In presenza della moneta fiduciaria, di origine creditizia, la domanda di beni e servizi non aumenta affatto neanche se la Banca Centrale, mediante operazioni di mercato aperto (7), offrisse maggiori quantità di moneta legale: «tutto quello che avviene – afferma Kaldor – è che si verifica un mutamento nella composizione dei portafogli, con il pubblico che tiene più moneta e meno titoli pubblici a breve o a lungo termine. Ma con ciò nessuno si arricchirà, e non vi sarà quindi nessuno stimolo ad una crescita della domanda di merci» (8).
La conclusione fondamentale è che, in una economia nella quale la moneta ha natura creditizia, la catena causale fra moneta e reddito nominale, ossia tra la moneta ed il potere d’acquisto di ciascuno, è inversa rispetto a quella ipotizzata dalla teoria quantitativa della moneta: è un aumento del livello della spesa che comporta la crescita della quantità di moneta e non viceversa come nello schema quantitativista.
La critica formulata da Nicholas Kaldor alla teoria quantitativa della moneta trovò la propria controprova sperimentale nei disastrosi esiti degli esperimenti di “monetary targeting” condotti dalle autorità monetarie britanniche e statunitensi a partire dalla metà degli anni ’70. I tentativi, del Governo Thatcher e dell’Amministrazione Reagan, di controllare la crescita di aggregati monetari, definiti arbitrariamente, ai fini della riduzione e della stabilizzazione del tasso di inflazione, non solo eccedettero ogni limite di moderazione ma provocarono, a compensazione della stretta indotta con tale politica monetaria restrittiva, l’introduzione di sostituti delle forme di moneta “convenzionali” che alterò la stabilità della relazione tra quantità di moneta e reddito nominale, quindi livello di spesa e livello dei prezzi, osservata sino a quel momento.
Chi, come lo scrivente, è oggi oltre i cinquanta, ricorda molto bene come anche in Italia, sulla fine degli anni ’70, la politica monetaria restrittiva, volta al contenimento dell’inflazione, produsse una penuria di moneta legale in circolazione, soprattutto di piccolo taglio e metallica, tanto che la popolazione cercò di soddisfare il proprio fabbisogno di moneta, la domanda di moneta, con il ricorso a strumenti sostitutivi, come i gettoni telefonici o come, in misura maggiore, i cosiddetti “mini assegni” che prontamente le banche commerciali iniziarono ad emettere ed accettare quali sostituti della moneta legale. Nel tentativo testardo di perseguire la stretta monetaria, le Autorità monetarie, Stato e Banca d’Italia, intervennero per vietare l’uso dei mini assegni, con non poche difficoltà per la popolazione.
Ma la conclusione, di cui poc’anzi, per la quale la catena causale fra moneta e reddito nominale, ossia tra la moneta ed il potere d’acquisto di ciascuno, è inversa rispetto a quella ipotizzata dalla teoria quantitativa della moneta, porta immediatamente anche ad un’altra conclusione. Quella per la quale è inversa, rispetto allo schema errato della teoria quantitativa, anche la relazione causale fra quantità di moneta e livello generale dei prezzi ossia l’inflazione: è l’aumento del livello generale dei prezzi – che può essere dovuto a molteplici fattori ad iniziare da un aumento dei costi di produzione (per aumento, ad esempio, del costo dell’energia o del lavoro) – a comportare la crescita della quantità di moneta soprattutto in forma di moneta bancaria.
In altri termini, a fronte di un aumento dei prezzi, imprese e famiglie domandano più moneta ed, in presenza di una eventuale politica monetaria restrittiva da parte della Banca centrale, sarà il sistema bancario a fornire, sotto forma di prestiti ossia di moneta bancaria creata ex nihilo, la quantità di moneta domandata dal mercato. Ne deriva che l’offerta di moneta creditizia “convenzionale” è strutturalmente endogena.
Endogenità dell’offerta di moneta creditizia significa che le banche si preoccupano di adeguare le riserve di base monetaria al volume di depositi solo in un momento successivo al processo di erogazione dei prestiti. Sono, appunto, i prestiti a precedere i depositi e non il contrario. La moneta bancaria creata ex nihilo all’atto della concessione dei crediti si trasforma in moneta legale, o in altra moneta bancaria, solo alla fine del ciclo ossia quando i mutuatari restituiranno i prestiti depositando, nei loro conti correnti, moneta legale o altra moneta bancaria.
Non sono, dunque, i depositi bancari a precedere i prestiti, come nella teoria liberista neoclassica (Hayek, Mises, Huerta de Soto), ma i prestiti, ossia la moneta bancaria creata dal nulla, a precedere i depositi. Sicché, non è possibile controllare la moneta in circolazione neanche mediante l’imposizione alle banche di una riserva obbligatoria più o meno grande, da aumentare o diminuire a seconda che si voglia aumentare o diminuire la quantità di moneta circolante, perché le banche – come aveva compreso anche Maurice Allais benché in un’ottica quantitativistica e neoclassica – creano moneta bancaria in misura superiore alla riserva legale, tanto è vero che in molti Paesi l’obbligo della riserva non esiste affatto proprio perché inutile. Anzi costringere il sistema bancario, secondo una tesi risalente a Irving Fisher e fatta propria dal citato Maurice Allais, a non accendere prestiti in misura maggiore dei depositi significherebbe tornare al gold standard o alla stessa situazione storica dell’epoca della monetazione aurea ovvero alla scarsità di moneta e di liquidità con contrazione recessiva dell’economia.
Le banche, in altri termini, non sono affatto intermediari che raccolgono i risparmi sotto forma di depositi per poi prestarli lucrando un interesse, ma sono esse stesse creatrici di moneta ogni volta che accendono una linea di credito, ossia un prestito, sul conto corrente di una impresa cliente, la quale poi userà quel credito come mezzo di pagamento, sempre mediante accrediti e addebiti bancari ossia senza reale passaggio di moneta legale, per i salari dei suoi dipendenti ed i compensi dei fornitori, i quali a loro volta daranno ordine alle loro banche di incassare quei pagamenti, puramente contabili, sui propri conti correnti, sicché, in tal modo, soltanto alla fine del ciclo si generano i depositi bancari, quasi sempre anch’essi in moneta bancaria e più raramente in moneta legale.
L’intero sistema è garantito dalla stessa Banca Centrale che all’occorrenza, in misura molto contenuta soprattutto oggi che i pagamenti in contanti non sono consentiti sopra una certa soglia in genere molto bassa, rifornisce le banche, che hanno tutte un proprio conto corrente acceso presso di essa, di moneta contante ossia legale, quella che poi noi preleviamo, con limitazioni periodica di cifra, dai bancomat.
Ponetevi la seguente domanda: avete mai visto gente andare in banca con carriole di moneta contante per effettuare depositi, sicché poi il banchiere possa fare prestiti ad altra gente? No, perché la circolazione di moneta avviene, ormai, quasi esclusivamente mediante trasferimenti, puramente contabili, oggi poi informatizzati, nei conti correnti accesi presso le banche (9).
Questa attuale “virtualità” ed “invisibilità” della moneta spiega anche perché i massicci “quantitative easing” (alleggerimenti quantitativi) praticati negli ultimi dieci anni dalla Federal Reserve americana, dalla Banca Centrale nipponica e negli ultimi due anni anche dalla Bce non hanno prodotto neanche l’ombra dell’inflazione: si è trattato, infatti, soprattutto di operazioni puramente contabili, di aperture e chiusure di crediti, tra Banca Centrale, Stato e banche ordinarie, senza alcuna circolazione di maggior quantità di moneta legale.
Sicché, se quest’ultima ha ancora una propria “materialità” e “visibilità” che può avvicinarla, sotto certi aspetti, alla moneta oro e quindi essere facilmente percepibile nella sua apparenza quantitativa ossia essere percepita, al modo di una qualsiasi merce, di valore maggiore o minore a seconda della sua quantità disponibile, la moneta immateriale perde, o tende a perdere, tale percettibilità e dunque a sfuggire da ogni rischio di svalutazione quale possibile concausa dell’aumento dei prezzi, ovvero di inflazione. Quest’ultima, in presenza di moneta sempre più immateriale, come quella di formazione bancaria consistente in meri trasferimenti contabili senza passaggio di moneta legale materiale, laddove si verificasse dipenderebbe quasi esclusivamente soltanto dall’eccesso di domanda di beni reali rispetto al difetto di offerta nel mercato reale dei beni.
Da un punto di vista storico, si potrebbe osservare che la moneta parallela, sotto forma di cambiali di Stato (i “mefo”, riservati solo alle transazioni tra Stato ed industriali e tra questi ultimi), utilizzata negli anni ‘30 in Germania da Hjalmar Schacht, il banchiere centrale di origine ebraica, ma fatto ariano d’onore, che (sì, fu lui e non il “caporale” a realizzare il miracolo!) portò fuori la nazione tedesca dalla grande depressione, riavviando l’economia e riassorbendo la disoccupazione di massa aggravata dalle cure di austerità dei governi di Weimar (già allora, come oggi, quando la finanza domina le ricette sono sempre “sangue e lacrime” per i popoli a profitto della banche e degli speculatori), può essere ritenuta una antesignana della virtualizzazione della moneta. Schacht – è bene ricordarlo – ruppe poi con il regime nazista quando si avvide che il suo piano di riforma economica veniva usato per il riarmo bellico, laddove lui, da patriota, aveva solo l’intenzione di risollevare la Germania dal default.
Il circuito, tra Stato, Banca Centrale, imprese e famiglie, di accreditamento ed addebitamento di entrate ed uscite puramente contabili, ossia di moneta immateriale, è, d’altro canto, un sistema che comporta che tutti siano in un certo senso “registrati”, “tracciati”, mediante i propri conti correnti da una sorta di nuovo Grande Leviatano “central-bancario”. Sovviene, in proposito, alla memoria della rivelazione biblica (Ap. 13, 16-18) sul “segno anticristico” impresso a tutti i popoli per poter “vendere e comprare”, ossia sul potere globale esercitato dalla finanza la quale, se non governata alla luce di principi di etica finalizzata al bene dell’uomo e non all’avidità di potere, svela un volto chiaramente maligno.
Questo ci porta a considerazioni, che tuttavia esulano dall’immediatezza degli intenti di questo nostro contributo, sull’importanza, proprio perché quello monetario è esercizio di sovranità anche quando è esercitato dal sistema bancario, di un ferreo controllo della Comunità politica sul potere monetario e sulla finanza, assoggettando l’uno e l’altra, anche coattivamente, a norme che assicurino la loro subordinata posizione a servizio della stessa Comunità e dell’economia reale. Ad esempio, non può più essere possibile ad una Banca Centrale, la Bce, ricattare una nazione, la Grecia, minacciando di sospendere ad essa l’erogazione di liquidità. Cose come queste, laddove fosse il Politico e non il potere finanziario a dettare le regole del gioco, non sarebbero mai ammesse ed anzi sarebbero sanzionate in modo persino brutale.
(continua)
Luigi Copertino
NOTE
3) Così nella traduzione di F. Cartiglia nell’edizione italiana del 1984 del libro di Nicholas Kaldor.
4) Per questo paragrafo siamo ampiamente debitori del saggio di A. Kalajzic “Endogenità dell’offerta di moneta e modello macroeconomico del ‘consenso’: l’importanza dei contributi monetari di Nicholas Kaldor per la rivalutazione del paradigma keynesiano” 2011/11 Università dell’Insubria Facoltà di Economia, reperibile su http://eco.uninsubria.it .
5)Cfr. Kaldor ibidem 192-193.
6) Cfr. Kaldor ibidem 229.
7) Da Wikipedia: «Le operazioni sul mercato aperto (open market operations) sono transazioni che la banca centrale effettua nel mercato interbancario. Il termine è usato con riferimento alle sole banche centrali, che per statuto non hanno profitti e, diversamente dagli altri operatori, agiscono non con finalità di lucro, ma per sostenere la moneta nazionale. Mediante operazioni sul mercato aperto la banca centrale acquista/vende titoli di Stato, immettendo o assorbendo moneta. I titoli di Stato vengono collocati in un’asta (esterna alla Borsa), riservata a grandi investitori istituzionali che rivendono i titoli ai risparmiatori e ad altri soggetti economici. In Borsa esiste un mercato secondario dei titoli, in cui i titoli scambiati non sono degli emittenti, ma di acquirenti (piccoli risparmiatori e imprese, ma anche banche che li rivendono alla clientela), che decidono di vendere. La compravendita dei titoli di Stato è il principale canale con il quale la Banca centrale assolve il suo compito statutario di regolare la quantità di moneta. Comprando titoli, inietta moneta nel sistema; vendendoli, raccoglie moneta riducendo la liquidità in circolazione. Le operazioni sul mercato aperto assicurano la liquidità necessaria al sistema bancario, come è riportato nei testi di economia. Da notare che non è affatto equivalente ad assicurare la liquidità al sistema economico (di cui quello bancario è solo un sottosistema), ovvero a monetizzare il mercato. Le operazioni sul mercato aperto sono quindi il modo in cui tecnicamente le banche centrali danno attuazione alla politica monetaria, a seguito di una decisione di alzare/abbassare i tassi». Va notato che, fino al 1981, le banche centrali acquistavano direttamente, a basso interesse, i titoli di Stato all’atto della loro emissione da parte del Ministero del Tesoro, o di quello dell’Economia. Si parlava, all’epoca, di “mercato primario”. Generalmente, poi, le banche centrali giravano questi titoli di Stato, in Italia mediante il servizio postale o il sistema bancario che era per lo più pubblico, ai risparmiatori interni, ossia nazionali, imprese e famiglie, per le quali quindi i rendimenti garantiti, anche se non molto alti, costituivano una fonte di tesaurizzazione del reddito che metteva a disposizione della Nazione, dell’economia nazionale, il risparmio. Non esisteva, o era solo marginale, il mercato globale ed apolide dei titoli ed il debito pubblico restava prevalentemente nelle mani della popolazione dello Stato che emetteva i suoi titoli di debito. In tal modo, il debito pubblico, che diventava una sorta di partita di giro tra lo Stato ed il suo popolo senza alcuna intrusione estera e quindi senza trasformazione del debito pubblico in incontrollabile debito estero, era molto più facilmente gestibile e controllabile. Ancora oggi il Giappone, che ha un debito pubblico pari a circa il 200% del Pil (e quindi, secondo la prospettiva liberista, dovrebbe essere in assoluto default), non è affatto esposto verso i mercati finanziari esteri essendo quasi tutto il suo debito nelle mani degli stessi giapponesi. Questo ha messo il Giappone al riparo da ogni tentativo di speculazione. Invece, la Grecia, senza sovranità monetaria e con un debito pubblico valutato in una moneta sostanzialmente estera (come, per tutti gli Stati aderenti all’eurozona, è l’euro ossia il “marco tedesco” gestito dalla Bce controllata dalla Germania), con un debito pari al 177% del Pil non solo è stata attaccata dalla speculazione finanziaria internazionale ma è in evidente stato comatoso da default.
8) Cfr. Kaldor ibidem 135.
9) In fondo, a ben rifletterci, si tratta del passaggio storico verso una sempre maggiore immaterialità della moneta. Un passaggio conseguente a quello precedente, dalla moneta aurea a quella cartacea in forma di banconota o lettera di cambio emessa dai cambiavalute medioevali, che segnò il primo avvicinamento alla dematerializzazione dei mezzi di pagamento. Anche all’epoca del passaggio dalla moneta aurea a quella cartacea, l’elemento di garanzia, che costituiva la base fiduciaria della banconota, era nella promessa di pagamento, ossia di convertibilità in oro, stampigliata nella lettera di cambio e della quale la dicitura che ancora campeggiava sulle vecchie banconote in lire, ossia “pagabili a vista al portatore”, era il ricordo storico. Come in epoca medioevale era il cambiavalute ad addossarsi l’onere di onorare all’incasso, convertendola in oro, la lettera di cambio, che era sostanzialmente una cambiale, oggi è il Banchiere centrale a dover assicurare all’occorrenza, mediante il rifornimento di moneta legale alle banche commerciali, la conversione della moneta bancaria in moneta legale e, quindi, il funzionamento dei bancomat dai quali preleviamo – ma in misura sempre minore – il contante.