di Roberto PECCHIOLI
Se è giovedì deve essere il Belgio era il titolo di un filmetto americano sulle peripezie di un gruppo di turisti portati in giro per l’Europa a ritmi tanto serrati da confondere nazioni e luoghi. Fu Nicolàs Gòmez Dàvila a bollare il crescente turismo di massa, mordi e fuggi come la contemporaneità tutta, in un memorabile “scolio”: le cattedrali non sono state costruite per l’ente del turismo. Ma il Moloch postmoderno incede senza ostacoli, tanto che il pensatore francese Paul Virilio ha coniato il neologismo dromocrazia per definire il nostro presente: il potere della corsa, il viaggio alla massima velocità verso il nuovo, chiamato progresso. E’ ben noto l’aforisma africano del leone e della gazzella, entrambi obbligati a correre, l’una per sfuggire al destino di preda, l’altro per assicurarsi il pasto. Potremmo concludere che è la vittoria postuma di Eraclito, il filosofo del movimento, Panta Rei, tutto scorre.
Ci sembra appropriato il titolo di una famosa opera di Ernst Juenger, La mobilitazione totale. Il grande ribelle interpretò la guerra come esito di un titanico sforzo collettivo. La metafora vale adesso per un mondo in cui il movimento è tutto, imposto dal dominio dell’economia, della finanza, dell’innovazione, dal primato della tecnica. Tutto è corsa, o distruzione creatrice secondo Joseph Schumpeter, economista contemporaneo dell’autore dell’Operaio. Homo consumens et mobilis potremmo chiamare la specie umana d’occidente.
E’ opportuno riflettere su taluni concetti tematizzati da Konrad Lorenz, il grande scienziato e pensatore austriaco fondatore dell’etologia, la scienza che studia abitudini, caratteri e costumi dei viventi. L’uomo è pur sempre un essere biologicamente definito, con necessità, invarianze, limiti che la civiltà della corsa tende a cancellare. Negli Otto peccati capitali della nostra civiltà, Lorenz boccia senza appello l’ingegneria sociale delle moderne civilizzazioni, dimostrando come le vicende delle società umane sottostanno a leggi biologiche. Per lui, i meccanismi sociali ed economici rivestono secondaria importanza rispetto alle costanti naturali, così come le capacità cognitive. Dunque, al di là delle ricadute etiche e spirituali, i mutamenti antropologici imposti dalla mega macchina tecnoeconomica sono processi di disumanizzazione.
Il fondatore dell’antropologia filosofica, Arnold Gehlen, parlò dell’“ esonero” , il fenomeno in base al quale l’uomo, carente di istinti e di dotazione naturale, apprende i comportamenti, trasmettendoli alle generazioni successive come bagaglio metà culturale e metà biologico. Due visioni diverse del conflitto tra la natura biologica e le pratiche sociali dell’uomo, l’animale politico di aristotelica memoria. Il modello pseudo democratico vigente da ormai due secoli ha subito devastanti accelerazioni. La vittoria dell’homo oeconomicus ha prodotto fenomeni di enorme impatto, la cui causa è indicata da Lorenz nei seguenti peccati capitali : la sovrappopolazione; la devastazione dell’habitat umano; l’accelerazione di tutte le dinamiche sociali a causa dell’accanita competizione tra gli uomini ; la necessità indotta di soddisfazione immediata di tutte le esigenze e capricci; il deterioramento genetico per la scarsa selezione naturale dell’uomo civilizzato ;la scomparsa a ritmi accelerati di antiche tradizioni culturali; l’’indottrinamento prodotto dal dispiegamento dei mezzi di comunicazione; gli armamenti nucleari in grado di provocare la scomparsa della specie.
Otto elementi che ci paiono tutti riconducibili alla dimensione della mobilitazione totale, della corsa, della perdita del rapporto dell’uomo con lo spazio, il tempo e la natura. Dromocrazia, con l’efficace neologismo di Virilio, ancora più pervasiva per l’imposizione di modelli economici e meta culturali che Gregory Bateson chiamò processi monotòni. In biologia non ci sono valori monotòni, non esiste cioè un albero che cresce indefinitamente, è anzi vero il contrario, la perdita progressiva di energia disponibile (il fenomeno dell’entropia, le strutture dissipative descritte da Ilya Prigogine). La normalità, in natura, sono la conservazione e l’omeostasi, ossia la tendenza di tutti gli organismi viventi al raggiungimento di una certa stabilità delle proprietà chimiche, fisiche e comportamentali.
L’umanità moderna si sta allontanando sempre più dalla natura e dalla biologia, vittima di un brutalismo che non solo cancella lo spirito ma manomette la materia con gli esiti negativi che sperimentiamo, a partire dall’assurda accelerazione impressa ai ritmi della nostra esistenza, la cui “crescita” e velocità indefinita contraddice l’ontogenesi (lo sviluppo della specie) e produce gravi cortocircuiti nella salute fisica, psicologica, comportamentale, cognitiva individuale (filogenesi).
L’imperativo categorico è avanzare, come un esercito in battaglia; pazienza se i fantaccini delle prime linee esposti al fuoco nemico soccombono in massa. Andare avanti è accogliere il Nuovo, programmaticamente buono. Avanti, con il punto esclamativo, era la testata dell’antico giornale socialista, avanguardia storica per definizione. Non sfugge alla mobilità la religione cattolica, che arretra invece per l’opposto motivo, la rinuncia alla maestà dell’Eterno in nome della corsa verso i tempi. Una diocesi ligure celebra il sinodo con un imperativo: Chiesa, rinnovati! Il pastore è sempre in movimento, certo, ma anche per lui c’è il tempo del silenzio, della riflessione, della quiete introspettiva. Vince il convento (luogo dove si “con- viene”) sul monastero, che evoca il raccoglimento, la ricerca interiore del trascendente.
Movimento possente fu la rivoluzione cinese (la lunga marcia, il grande balzo in avanti), corsa allo stato puro è la società attuale. Anche nella musica, sfuma l’armonia, domina il ritmo. Il mito futurista della velocità si invera nell’amore per gli sport dei motori, auto e motociclette che superano ormai i 350 km orari. E’ mobilitazione l’impegno a costruire strade e ferrovie sempre più veloci affinché corrano le persone e soprattutto si muovano le merci. Da un capo all’altro del mondo, sempre più in fretta, le navi sono mostri alti come palazzi, lunghi come treni, trasportano ciascuna migliaia di contenitori carichi di merci destinate a ogni angolo di un pianeta sempre più piccolo. Gallerie di oltre cinquanta chilometri perforano le Alpi in omaggio al Consumo, agli Affari, allo Scambio. Le frontiere vengono cancellate non per amore dell’umanità, ma in nome della corsa senza ostacoli dell’accumulazione. Le transazioni si regolano attraverso la mobilitazione della tecnologia informatica: email, contratti e promesse di denaro che viaggiano nel cyberspazio ad una velocità che non è più neppure definita. E’ il “tempo reale”, l’istante che corre e mobilita persone distanti migliaia di chilometri.
Cambia anche la mobilitazione bellica. Al tempo di Juenger, masse umane di coscritti e volontari raggiungevano il fronte mentre altri esseri umani organizzavano nelle fabbriche le tempeste d’acciaio fabbricando nuovi materiali. Oggi, da sicure postazioni informatiche, si possono sganciare bombe, far arrivare aerei esattamente sull’obiettivo prescelto. La guerra, per chi è più forte, si riduce ad un gioco da remoto sulla pelle delle vittime. Sconfiggiamo lo spazio, restringiamo il tempo. Nel manifesto del partito comunista, Marx capì tutto, salvo prevedere il comportamento dei suoi seguaci analogo a quello del nemico di classe: “Lo sconvolgimento costante della produzione, l’incessante messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il moto perpetui differenziano l’epoca borghese da tutte quelle che l’hanno preceduta. “Il borghese, tuttavia, possedeva anche un sistema etico che il liberalcapitalismo terminale – antiborghese quanto antipopolare – ha travolto sull’altare della corsa illimitata del profitto.
L’economia è innanzitutto economia di tempo, dunque occorre correre, leoni o gazzelle, per sostenere i ritmi della produzione, della circolazione e del consumo. Ogni stabilità è vietata, l’omeostasi è espulsa dall’orizzonte. L’intero mondo della vita è sconvolto dalle nuove parole d’ordine. Il tramontato fordismo obbligava ai movimenti ripetitivi della catena di montaggio, la coazione a ripetere resa grottesca da Charlie Chaplin in Tempi moderni. Poi è arrivato il toyotismo a sostituire l’uomo con il robot per “fare prima”. Ora siamo al just in time, si produce in gran fretta, mobilitando le maestranze un attimo prima della vendita.
Le stesse sacralizzate libertà dei postmoderni sono libertà di circolazione: merci, capitali, servizi, persone devono “circolare”, muoversi, correre, raggiungere in tempo ogni luogo, reale o virtuale. Qualunque luogo, non sono ammesse eccezioni o zone franche: la dromocrazia non conosce riposo, festività, si disinteressa dei ritmi della vita, del giorno e della notte. Presto la sovrastruttura tecnologica violerà l’ultima Thule, il sonno degli esseri umani. E’ seccante, per i promotori della mobilitazione, per i sacerdoti della maratona perenne, doversi fermare perché gli umani, creature biologiche, riposano. Il sonno occupa circa un terzo delle nostre vite e nessun “esonero” può (ancora) privarci di questa necessità naturale che gli organizzatori della mobilitazione totale considerano un’intollerabile libertà dei sudditi.
Il capitalismo mobile batterà anche il sonno. Lo rivela un libro dell’americano Jonathan Crary, 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno. Viviamo una vita senza pause, notte e giorno, una veglia globale. Sperimentiamo nostro malgrado un “non tempo” interminabile che offusca ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. 24/7 delinea questo processo di erosione del tempo: un adulto di oggi dorme sei ore e mezzo per notte in media, contro le otto della generazione precedente e le dieci dei primi anni del XX secolo. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata, non c’è momento della vita che sia realmente libero.
Quanto siamo lontani dall’ingenuità seicentesca del finto manoscritto che il Manzoni pose a base dei Promessi Sposi: “l’historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo”. Guerra vinta dal tempo per fine della storia; l’umanità, nella corsa del capitalismo assoluto, ha trovato scopo e destino. Lo storico Jacques Le Goff distinse il “tempo della Chiesa”, con i suoi rintocchi, i ritmi circolari, i momenti di festa, il lavoro alternato alla preghiera e alla vita comunitaria e il moderno “tempo del Mercante “. Vincendo, il mercante ha imposto il suo ritmo, poiché il tempo è denaro e fermarsi significa perdere opportunità, lasciare spazio alla concorrenza, consumare lo stesso consumo.
I bisogni, nome nobile che accomuna necessità e capricci, devono essere soddisfatti qui e adesso. Di più, vanno creati poiché il sistema si autoalimenta: di qui il potere pervasivo della pubblicità intrecciata allo spettacolo. Vent’anni fa non avremmo sopportato l’invasione pubblicitaria in televisione, al cinema, sui giornali, nella rete, ovunque. Forti dei messaggi che stimolano i desideri, corriamo nei supermercati, nei centri commerciali, consultiamo compulsivamente il web per compiere il rito dell’acquisto. Di corsa, naturalmente. Il buon centro commerciale si distingue per l’assortimento, ma anche per l’ampiezza del suo parcheggio. Non solo per l’automobile: negli outlet si possono parcheggiare i bambini negli appositi stalli sorvegliati da precari, gli anziani nelle gallerie commerciali con panchine che imitano gli obsoleti spazi urbani, e, perché no, gli animali, gli amici a quattro zampe per i quali ci sono catene commerciali dedicate.
La modernità fu inaugurata dalla prima rivoluzione industriale con masse di lavoratori costretti a spostarsi dalle campagne in città, vicino ai nuovi luoghi di lavoro. Il misconosciuto, affaticato eroe del nostro tempo è il pendolare, uno che deve spostarsi da casa sua alla massima velocità consentita da code, sistema di trasporti scomodo e obsoleto per aggiungere il lavoro lontano. Una mobilitazione totale che comincia prima dell’alba. Si svegliano i figli ancora in fasce per condurli di gran carriera all’asilo nido, i più grandi a scuola, poi via sul treno o in autostrada, sino allo sfinimento, ripetendo a sera gli stessi gesti febbrili, sorvegliando mille volte l’orologio. Conosciamo per esperienza diretta quella vita, e ciò che sempre ci impressiona è che milioni di forzati della mobilità riprendono la corsa nel fine settimana. Le stesse code in autostrada, i medesimi mezzi pubblici sporchi e affollati per poche ore di mare o montagna da vivere a balzi, orologio alla mano, in coda anche per il gelato o il pranzo.
Nelle giornate lavorative non si interrompe più la giornata. Ci si getta nella pausa pranzo, breve, fatta in genere di alimenti poco salutari, la premura di chi vive sul filo. Alcuni, specie donne, sono costretti a dividere il tempo (gestirlo, dicono loro) con acquisti frettolosi, per necessità. C’è anche chi va in palestra per tenersi in forma, ma tutti sono mobilitati nel breve volgere della mezz’ora, un’ora al massimo tra l’uscita e il rientro. La vita guadagna certo in estensione, per quanto scomoda, stressante, vissuta in guerra col tempo e spesso in obbligata compagnia di estranei, ma perde drammaticamente di profondità. Nel “tempo della Chiesa” si poteva riflettere, nel “tempo del mercante” è obbligatorio correre. Ma un’umanità che rinuncia a pensare, perde il segno più grande della sua grandezza.
Rimane la superficie, verniciata con i colori sgargianti voluti dal mercato. Non grattiamo più oltre lo smalto scintillante dell’apparenza, ci è estraneo lo stupore del viandante fermo nella natura per osservare un panorama, un particolare, un colore, ascoltare un rumore, riconoscere un profumo, apprezzare l’intensità del silenzio. Il silenzio atterrisce il corridore contemporaneo. Anche quando siamo immersi nella natura, non la esploriamo più, tanto meno la interroghiamo. C’era uno stupore nelle scorribande tra i boschi, ci sedevamo su una pietra, poi veniva la voglia di vedere che cosa ci fosse sotto e scoprivamo l’esistenza di uno sconosciuto mondo naturale sottostante. Ci fermavamo e, confusamente, riconoscendoci appartenenti all’universo, ci ponevamo le grandi domande degli uomini di ogni generazione.
Inseguiti dalla tirannia delle mode, agiti dalla grande orchestra dello spettacolo a scopo di consumo e manipolazione, ci limitiamo a mobilitarci in conto altrui. Diventiamo degli sradicati in viaggio perenne. Da fermi, a nervi tesi, somigliamo ai tristi carrozzoni dei girovaghi in sosta, un groviglio di cavi, qualche sedia, fili disordinati di panni stesi. Nulla che sia davvero “nostro”, la provvisorietà che genera ansia, combattuta da farmaci assunti fin dall’infanzia. Nuove dipendenze, come le droghe da prestazione, la cocaina, i ritrovati chimici che consentono di reggere il ritmo, mantenersi performanti nella corsa. Si diffonde l’ansia da prestazione. La terapia è ritrovare il silenzio, interrompere la corsa, riprendere il filo del tempo, stare con se stessi e con persone amate, presenze stabili, consuete, attese. Per ammirare il panorama, guardare negli occhi i nostri cari, scrutare oltre l’orizzonte, bisogna essere fermi. Fermi, disconnessi, smobilitati. L’alternativa è guardare senza vedere, fare senza agire, vivere senza esistere, desiderare senza volere.