di Roberto PECCHIOLI
Alcuni anni fa partecipammo a un’assemblea di dipendenti di un’agenzia fiscale indetta dai sindacati per stabilire il criterio di divisione delle somme dovute come premio annuale di prestazione, collegato al merito individuale. Le cifre in ballo non erano elevate, ma in assenza della quattordicesima mensilità, facevano gola. La discussione fu rovente, segno che la controparte aveva colto il suo primo obiettivo: dividere il fronte opposto con la semplice mossa di sottrarre allo stipendio “normale” una parte della retribuzione, collegandola a criteri da determinare. Chi scrive aveva un doppio dilemma, giacché, oltre a essere destinatario della valutazione legata al premio da riscuotere, avrebbe dovuto esprimere, da responsabile d’ufficio, un giudizio con ricadute economiche sui colleghi del proprio servizio. La convinzione che esprimemmo con grande sofferenza fu che la forma di ripartizione meno ingiusta era “a pioggia”, ovvero uguale per tutti a parità di qualifica. Restiamo purtroppo della stessa opinione, non certo per egalitarismo, ma per radicale sfiducia negli obiettivi delle oligarchie direttive.
Dopo la lunga ubriacatura collettivista dell’uguaglianza forzata che intossicò la nostra giovinezza, il metronomo si è improvvisamente spostato, in ossequio al trionfo liberale, sull’enfatizzazione del merito. Nessuno dei due principi regge alla prova dei fatti concreti. Marx non propugnò mai l’uguaglianza assoluta, anzi mutuò dagli Atti degli Apostoli la celebre espressione “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Il merito secondo i liberali si basa sulla glorificazione dei peggiori attacchi alla dignità delle persone, con le massime diseguaglianze economiche (le uniche care ai pretoriani del mercato misura di tutto) che vengono fatte passare per naturali. E’ una gigantesca giustificazione dell’ingiustizia, poiché in una società meritocratica nel senso oggi attribuito alla parola, non ottenere risultati diventa una colpa individuale. Sei tu che sei inadeguato, tu non sei capace di lottare, rispettare gli standard, competere. Il perdente nel gioco al massacro è colpevole, fatti suoi se dovrà contentarsi delle briciole o addirittura del nulla. La meritocrazia vigente, diciamolo senza paura, non è altro che la capacità, insindacabilmente decisa dall’alto, di adeguarsi al sistema dopo aver ricevuto un’istruzione strumentale a cui attenersi. Tutt’al più si tratta di un’abilità, non certo del “merito”, che è qualità intellettuale unità a preparazione, cultura, iniziativa.
Il principio negativo è l’ossessione di misurare, valutare, catalogare, tipica del nostro tempo e dell’ideologia dominante. Una dirigente del Forum della Meritocrazia, un organismo di cui non avvertivamo la mancanza, avverte che “misurare è sempre il punto di partenza migliore “. Questo è vero se si vuole conoscere la distanza tra due punti, il peso di qualcuno o il tasso di colesterolo. La retorica dell’oggettività dei criteri “scientifici” non funziona con le persone, a meno di selezionarle in base alla statura, al peso o al gruppo sanguigno. Non si può misurare il merito, che è una qualità, attribuendogli un punteggio, una scala di valore quantitativo. Quantità e qualità sono due insiemi indipendenti, irriducibili, come l’olio non si scioglie nell’acqua.
La verità è che tutto, da qualche decennio, deve essere misurabile in termini di performance. Si tratta di una falsa retorica dell’oggettività, autorappresentata come una modalità incontestabile in quanto rapporta ogni cosa al valore di scambio, ovvero al costo. Di qui il successo del modello dei quiz a risposta multipla in tempi ristretti, i punteggi assegnati ai più fantasiosi elementi dei curricula (da compilare in un modello prestabilito, detto europeo, pena l’esclusione dalla valutazione), l’eccessiva importanza di percorsi e competenze costruite appositamente per formare un certo tipo di candidato, quello che diventerà meritevole, quindi cooptato nei posti che contano.
Questo ci sembra il punto decisivo: il nuovo criterio meritocratico è in realtà assai antico. Sono meritevoli coloro che si adeguano più docilmente alla volontà del potere, alla logica dominante, al pensiero corrente. Per questo la scuola subordina il pensiero critico del sapere umanistico alla conoscenza tecnoscientifica, specializzata nel conoscere i meccanismi, ma incapace di verificare le ragioni, scoprire i risvolti, indagare i perché. Per lo stesso motivo è in atto nel mondo del lavoro una gigantesca sostituzione dei quadri più esperti con i più giovani. Spazio ai giovani è senz’altro giusto, ma l’anzianità, oltreché esperienza, oggi svalutata per la rapidità dei cambiamenti, significa(va) maggiore capacità di giudizio, soprattutto una più tenace resistenza al nuovo ordine. L’età, del resto, in un senso o nell’altro, non è un merito, ma una circostanza; Amintore Fanfani, la cui carriera fu lunghissima, sosteneva che “se uno è bischero, è bischero anche a vent’anni”.
La conseguenza è la sostituzione della giustizia con l’efficienza, nonché la generalizzazione del conformismo, divenuto più che mai un merito, esattamente come l’appartenenza, familiare, politica, sindacale, a gruppi di potere, clan interni. La partita è truccata all’origine, la selezione ha regole ingiuste, tanto da far considerare meno iniquo il principio di uguaglianza. Il motivo è la fanatica riduzione di tutto alla misura, alla quantificazione orientata a ottenere omologazione, consenso acritico, cinismo nella competizione e indifferenza ai principi morali. La conclamata meritocrazia odierna altro non è che un inganno volto a riprodurre senza discussione gli scopi, le indicazioni, le metodologie del sistema di produzione e direzione vigente, fondato su obiettivi di breve termine e la riduzione della persona a risorsa umana eterodiretta da protocolli impersonali, regole e procedure prestabilite, indiscutibili, inderogabili.
Tende quindi ad escludere più di prima le personalità critiche, dotate di carattere, meno facili da inquadrare negli schemi, definiti senz’altro inaffidabili, ergo privi di meriti. In tale ottica, la meritocrazia liberale è speculare al frusto egalitarismo, entrambi costruzioni ideologiche di opposti regni della quantità. Il comunismo di ieri e il liberismo di oggi restano fratelli le cui opposte polarità tendono a neutralizzarsi. La loro relazione ricorda un detto toscano: da Montelupo si vede la Capraia, Dio li fa e poi li appaia.
Dovrebbe essere invece ristabilita un’antica saggezza del diritto romano accolta dal cristianesimo, suum cuique tribuere, dare a ciascuno il suo. Un principio del diritto civile applicabile ad ogni ambito di vita. Gli uomini non sono uguali, è ingiusto trattarli o valutarli alla stessa maniera; il rispetto della dignità di ciascuno impone un giudizio personalizzato, caso per caso. Poiché il merito è una qualità, non può essere ridotto a grafici, tabelle, quiz a crocette, punteggi arbitrari il cui peso è stabilito a priori in base non a un idealtipo, ma al profilo standard preferito dall’oligarchia per ciascun anello della catena gerarchica. Il merito è diventato la somma algebrica del valore d’uso e del valore di scambio degli esseri umani, secondo l’interesse della cupola tecnocratica.
Illuminante è un brano di René Guénon, tratto dal Regno della quantità e i segni dei tempi: “negli individui la quantità predominerà tanto più sulla qualità, quanto più saranno ridotti ad essere dei semplici individui, e quanto più saranno, appunto per questo, separati gli uni dagli altri, il che non vuol affatto dire più differenziati, poiché v’è anche una differenza qualitativa che è proprio l’inverso di quella differenziazione del tutto quantitativa che è la separazione in questione. Tale separazione fa degli individui solo altrettante unità, nel senso inferiore del termine, e del loro insieme una pura molteplicità quantitativa. Al limite, questi individui saranno paragonabili ai pretesi atomi dei fisici, sprovvisti di ogni determinazione qualitativa; e benché di fatto questo limite non si possa raggiungere, è questo il senso in cui il mondo attuale si dirige. Non c’è che da guardarsi intorno per constatare che ci si sforza di ricondurre ogni cosa all’uniformità, si tratti degli uomini stessi, o delle cose in mezzo alle quali vivono, ed è evidente che un risultato del genere non può ottenersi se non sopprimendo, per quanto possibile, ogni distinzione qualitativa; ma quel che veramente è degno di nota è il fatto che per una strana illusione taluni scambiano volentieri questa uniformizzazione per una unificazione, mentre in realtà, essa ne rappresenta esattamente l’inverso, dal momento che implica un’accentuazione sempre più marcata della separatività. La quantità può soltanto separare, non unire; sotto forme diverse, tutto ciò che procede dalla materia non produce altro che antagonismo fra quelle unità frammentarie che sono all’estremo opposto della vera unità, o che almeno vi tendono con tutto il peso di una quantità non più equilibrata dalla qualità “.
Con principi siffatti, difficilmente lo studioso francese sarebbe stato ammesso ai test attitudinali oggi in voga, né, forse sarebbe stato in grado di compilare correttamente il proprio curriculum in formato europeo. Escluso per demerito dai burocrati del merito. Che disgrazia l’ingegno!
ROBERTO PECCHIOLI