UNITED COLORS OF MONEY
Il centrodestra è ormai soltanto un mero strumento elettoralmente tattico. Esso risponde ad un nome senza più sostanza. Nominalismo allo stato puro. Nel centrodestra sono attualmente costrette a convivere una corrente apertamente conservatrice, incarnata da Forza Italia, ed una corrente sovranista a forte vocazione social-nazionale, incarnata da Lega e Fratelli d’Italia.
La prima corrente crede nel primato dell’offerta ed auspica politiche di austerità, deflattive, contenimento salariale, flessibilità del lavoro e tagli alla spesa pubblica anche se produttiva. Questa corrente conservatrice del centrodestra, che non a caso occhieggia al PD renziano, è prona al potere dell’eurocrazia, nella più totale dimenticanza del defenestramento subito da Berlusconi per imposizione di Bruxelles nel 2011, onde impedire l’emergenza già allora anti-mercatista e sovranista dell’ex ministro Tremonti (nonostante la sua politica di tagli alla spesa).
L’illusione dell’anima conservatrice del centrodestra è la stessa di tutti i conservatorismi liberisti ossia quella per la quale l’austerità sarebbe espansiva e la chiave per la crescita economica. Ma senza una domanda forte – ossia buoni salari e sostegno al reddito di lavoratori autonomi e dipendenti mediante politiche di spesa pubblica – la produzione industriale resta nei magazzini a testimoniare il fondamento mitologico della vantata “centralità dell’impresa”.
I lavoratori precarizzati e non tutelati risparmiano e non consumano. In assenza di domanda anche gli imprenditori non investono. Lo aveva perfettamente compreso, negli anni ’30 del secolo scorso, Henry Ford. Nell’interesse della sua fabbrica di automobili, egli capì che avrebbe dovuto pagare i suoi impiegati ed i suoi operai in modo sufficiente affinché essi potessero comprare le stesse auto che costruivano con il proprio lavoro. Non si trattava, evidentemente, di carità o di spirito di solidarietà sociale ma soltanto di un prosaico ragionamento utilitarista. Un ragionamento tuttavia che coglie la questione sicché non si comprendono affatto le ridicole reazioni di Boccia, presidente della nostra Confindustria, al cosiddetto “decreto dignità”. Un decreto che si è limitato soltanto a tenuamente reintrodurre qualche minima tutela del lavoro e non già il tanto ingiustamente vituperato articolo 18.
Come mai quel che un capitalista americano del secolo scorso, come Henry Ford, aveva facilmente compreso è oggi tanto estraneo al paradigma culturale dei nostri imprenditori, un paradigma che quindi dovrebbe essere cambiato anche nel loro stesso interesse? Quel che gli imprenditori dovrebbero tornare a comprendere è che le politiche dal lato dell’offerta falliscono puntualmente e portano alla recessione. E’ la domanda che crea l’offerta, non il contrario. Per quanto l’offerta possa stimolare la domanda, ad esempio mediante la pubblicità, se i lavoratori non hanno reddito a sufficienza l’offerta resta nei magazzini.
A differenza della corrente conservatrice del centrodestra, il sovranismo – nonostante l’equivoco monetarista della flat tax, un residuato bellico conservatore infiltratosi nei suoi programmi – si mostra keynesiano come i suoi economisti di riferimento: Claudio Borghi, Alberto Bagnai, Paolo Savona, Antonio Maria Rinaldi. Il sovranismo difende la domanda interna, la sovranità monetaria, tutela il lavoro autonomo e dipendente, mette in discussione l’impianto ordoliberale e tedesco dell’UE. Il sovranismo avversa la separazione della Banca Centrale dallo Stato e vuole una rinnovata convergenza tra politica fiscale e politica monetaria.
Ed allora quale casa comune può ancora sussistere tra conservatorismo liberista e sovranismo? Non a caso su “La Verità” del 20.08.2018 l’ex sindaco, berlusconiano, di Milano, Gabriele Albertini, in un’intervista, ha riesumato, quale via alternativa al governo giallo-verde, il “Patto del Nazareno” ossia l’unione tra i liberali moderati del vecchio centrodestra e quelli del PD renziano che ha avuto il merito di marginalizzare la sinistra massimalista. Questo Patto, per Albertini, dovrebbe nascere quale alternativa al sovranismo e su una base programmatica già nota (e vecchia), ricomprendente liberalismo, economia sociale di mercato (ossia l’ordoliberalismo teutonico) e le radici giudaico-cristiane dell’Occidente in uno scenario che vedrà contrapposti globalismo, nel quale il patto politico sognato da Albertini è arruolato, e sovranismo. Più o meno quel che, dall’atra parte, va dicendo il piddino Calenda che invoca un “partito dei competenti”. La politica, lo sappiamo, è sempre anche mediazione ma, nel caso in cui il centrodestra restasse, sebbene solo formalmente, unito quella tra conservatorismo e sovranismo, a quanto pare, a detta degli stessi conservatori liberisti, è una evidente separazione in casa.
Ci permettiamo, innanzitutto, di osservare che, in vero, quelle occidentali sono radici più giudaico postbibliche che ebraico-cristiane, essendo la Cristianità pre-occidentale una realtà storica alquanto diversa dall’Occidente attuale ed essendo il giudaismo postbiblico cosa diversa da quella universalizzazione del vero ebraismo che è il Cristianesimo. Ma il punto più rilevante è nella convergenza, qui si ha ragione Albertini, tra liberali di Forza Italia e liberali del PD. Liberalismo come pensiero unico trasversale agli schieramenti formali dei partiti. Il deputato del PD Luigi Marattin, che in questi giorni si è scatenato sul web con toni truculenti contro il governo giallo-verde, intervistato su Tg Sky ha ricordato, con enfasi ed approvazione acritica, che negli anni ’90 in tutti i Paesi occidentali c’è stato il passaggio dallo Stato gestore allo Stato meramente regolatore, sicché parlare oggi di “nazionalizzazioni” sarebbe contro il senso della storia.
E’ incredibile che esista ancora qualcuno che crede al “senso della storia”. Quel che però Marattin non dice è che non sta scritto da nessuna parte, se non nella narrazione liberista alla quale egli aderisce, che il pubblico sia sempre e comunque meno efficiente e meno trasparente del privato. In Austria le infrastrutture sono a gestione pubblica, funzionano bene e con costi sostenibili. L’Asfinag, la società pubblica austriaca che gestisce la rete autostradale, è organizzata secondo il modello “Iri”, inventato, come diremo più avanti, proprio da noi italiani e le tariffe, assolutamente convenienti per l’utenza, coprono l’intero costo di gestione comprese le manutenzioni, senza bisogno di ricapitalizzazioni statuali. Nella Germania ordoliberista, al contrario, proprio in questi giorni, a seguito dei fatti di Genova, è divampata la polemica sullo stato di totale abbandono della rete viaria tedesca ceduta in concessione ai privati. I tedeschi lamentano la mancanza della presenza pubblica e di investimenti pubblici.
La questione Stato/mercato è insieme fondamentale e relativa. Il sistema della “concessione amministrativa” non è nuovo nella storia istituzionale degli Stati moderni e certo non è una invenzione postmoderna. Lo scrivente, nella sua attività professionale, nel decennio ’90, è stato responsabile delle procedure di concessione amministrativa di alcuni servizi comunali a domanda individuale. Si trattava di una casa di riposo per anziani e di una piscina che l’ente locale era stato costretto a chiudere a causa dei tagli ai trasferimenti statali che avevano reso insostenibili i costi di tali servizi a tariffe “sociali”. Per riaprirli l’unica strada, in assenza di risorse finanziarie pubbliche, era la concessione amministrativa ai privati, naturalmente mediante gara. La concessione trasferisce al privato l’esercizio di pubbliche funzioni sotto controllo e vigilanza pubblica ma i ricavi tariffari diventano il compenso per l’investimento privato e quindi non entrano più nella casse dell’erario. Le restrizioni di finanza pubblica, iniziate negli anni ’80 a seguito del divorzio tra Tesoro e Bankitalia, erano finalizzate a togliere servizi al pubblico per privatizzarli o almeno per consentire il subingresso in concessione dei privati. Naturalmente le rette che le famiglie furono chiamate a pagare per l’assistenza degli anziani, nella casa di riposo comunale concessa al privato, non furono più “sociali”, così come anche le tariffe per l’utenza della piscina pubblica. Il privato, infatti, non avrebbe risposto se il controllo e la vigilanza fosse stata, oltre una certa misura, incidente sulla tariffazione. Una analoga gara per la concessione del cinema comunale, che prevedeva a carico del concessionario anche i lavori di ristrutturazione dello stabile chiuso da tempo, andò deserta proprio perché i margini di profitto erano risicati.
In linea di principio, quindi, lo Stato può anche lasciare la gestione ai privati per riservarsi soltanto la regolazione dei servizi ed il controllo ma deve essere chiaro a tutti che così esso rinuncia ai proventi. Tuttavia, come ricordava nell’intervista Marattin, spesso l’ente pubblico, a causa del mancato turn over delle necessarie professionalità (sempre in nome del contenimento della spesa, d’obbligo per Stati senza più padronanza dei meccanismi di creazione monetaria), non è in grado di esercitare i previsti controlli. Nel caso delle concessioni autostradali, i controlli, pare, sono stati affidati agli stessi concessionari (in tal modo controllori d sé stessi), proprio perché negli organici pubblici mancano ingegneri e tecnici.
La questione che però Marattin ha eluso è quella del primato del Politico sull’Economico. Una cosa è dare in concessione una casa di riposo o una piscina, altra è dare in concessione la rete autostradale nazionale e le infrastrutture di una nazione. Qui sono in gioco valori molto più alti che non la mera efficienza o il contenimento dei costi. Qui sono in gioco direttamente la sovranità di uno Stato, il quale privandosi della gestione delle infrastrutture nazionali si rende dipendente dal capitale finanziario oggi oltretutto apolide e transnazionale. Quindi il passaggio dallo Stato gestore allo Stato regolatore, che tanto entusiasma Marattin, comporta la sostanziale perdita di sovranità popolare, con conseguente deficit di democrazia, in favore del profitto del Capitale. Che questa perdita di sovranità sia magnificata da un deputato che si reputa di sinistra è davvero, questo sì, un chiaro “segno dei tempi”. Anche perché, come diremo tra breve, proprio l’Italia ha nella sua storia un grande esempio di ottimale funzionamento dello Stato gestore.
Nonostante gli entusiasti del “privato è bello”, come Albertini e Marattin, i fatti sembrano tuttavia dare ragione al sovranismo. Dopo un trentennio di invadente neoliberismo, di liberalizzazioni e privatizzazioni ampiamente perorate ed attuate dalla sinistra filo-capitalista, con la crisi economica il vento ha iniziato a cambiare nonostante le forti resistenze globaliste ed eurocratiche. Anche se Mario Monti, riformando l’articolo 81, è riuscito ad imporre nella nostra Costituzione, originariamente ispirata ad una concezione keynesiana, il pareggio di bilancio, è però ormai evidente a tutti che l’austerità, raccomandata dalla Troika (FMI, UE, BCE), è ovunque fallita.
Anche in Grecia, nonostante i comunicati trionfalistici di questi giorni sulla fine del programma di risanamento. La Grecia ha finito di ripagare le banche francesi e tedesche, verso le quali i suoi governi socialisti e conservatori hanno lasciato che i cittadini ellenici si indebitassero per acquistare le esportazioni franco-germaniche. Ma Atene, per pagare i debiti pregressi, ha acceso altri esosi prestiti con FMI e BCE. Che andranno comunque ripagati in futuro, perché i salvataggi con nuovo debito – quello che piace ai creditori usurai –, a differenza dell’annullamento del debito, servono a perpetuare lo stato di perenne rischio di insolvenza ossia a mantenere la vittima alla mercé del parassita finanziario. Il salvataggio della Grecia è avvenuto nel disfacimento di qualsiasi carattere sociale dello Stato, definanziato per pagare i debiti ai mercati. Il presunto risanamento della Grecia è’ avvenuto tutto sulle spalle di lavoratori, dei disoccupati e dei pensionati, la cui condizione non è affatto migliorata, anzi è tragicamente peggiorata.
La sottomissione della Grecia al “memorandum”, imposto dalla Troika, sta lì a dimostrare che la via europeista della sinistra radicale di Tripas si è risolta in una tragica utopia. Fin quando il coltello, ossia la sovranità monetaria, è dalla parte del manico nella mani dell’eurocrazia germanofila, nessuna speranza hanno la nazioni, in particolare quelle la cui economia è fragile come la Grecia. Ma questo ineguale rapporto di forza costituisce un rischio che incombe anche sul governo “populista” giallo-verde di una nazione pur economicamente salda come l’Italia, se tale governo non riesce a ribaltare le regole attuali in sede europea.
A Ferragosto in Italia, mentre i ponti, un tempo costruiti e gestiti dall’IRI, crollavano per mancanza di manutenzione non effettuata dai concessionari privati, abbiamo scoperto che le privatizzazioni e le liberalizzazioni lungi da offrire servizi più efficienti, come la narrazione liberista ci raccontava negli anni ’80 e ’90, sono servite soltanto a produrre ingenti utili per i capitalisti di turno come la famiglia Benetton, azionista di maggioranza della concessionaria privata Autostrade per l’Italia.
Una concessionaria tanto cara alla sinistra “United Colors” che, infatti, a suo tempo le regalò i gioielli di Stato. Accade quando Romano Prodi e Gian Maria Gros Pietro, “prodiano” di ferro, quali presidenti dell’IRI svendettero il patrimonio industriale di Stato al capitalismo apolide ed a quello nazionale ma cosmopolita. Prodi e Gros Pietro, che non a caso hanno goduto di prestigiosi incarichi presso Goldman Sachs e Autostrade per l’Italia (ossia i Benetton), non fecero altro che eseguire il piano concordato, con le banche d’affari anglo-americane, tra gli altri da Mario Draghi, all’epoca Direttore del Tesoro, il 2 giugno 1992, sul panfilo “Britannia” di proprietà di Sua Maestà Britannica, ancorato al largo di Civitavecchia.
In quei mesi, tra primavera ed estate 1992, George Soros aveva scatenato una attacco speculativo contro la lira, che di lì a poco sarebbe stata costretta ad uscire dallo Sme, proprio allo scopo di spingere l’Italia alla svalutazione monetaria in modo che il prezzo di vendita – o meglio, di svendita – del patrimonio industriale pubblico al capitalismo internazionale (il quale ricomprendeva anche la gran parte del capitalismo nostrano che aveva sposato i dogmi globalisti) sarebbe stato estremamente favorevole ai privati e, certo, non così interessante per lo Stato italiano.
Poco dopo l’incontro al largo di Civitavecchia, nel luglio dello stesso anno, il governo fu affidato a Giuliano Amato, “dottor sottile” e professore della confindustriale Luiss, che era della squadra dei privatizzatori globalisti.
Giuliano Amato era stato per anni consulente e braccio destro di Bettino Craxi quando questi spingeva per una Italia “moderna” ossia laicizzata. Lo abbandonò, senza clamorose rotture, quando il “Bettino nazionale” virò politica in favore di una concezione a suo modo sovranista, che si ispirava al “socialismo tricolore” ovvero risorgimentale (quello, per intenderci, proudhoniano di un Carlo Pisacane, federalista e mazziniano di sinistra), dando, per primo, avvio allo sdoganamento del partito “anti-costituzionale”, ossia il Msi, erede del fascismo sociale e repubblicano, nel quale egli sapeva albergavano forze culturalmente ed idealmente legate al socialismo risorgimentale.
Quando Craxi fu coinvolto in Tangentopoli – una operazione politica, come giustamente ricorda oggi Diego Fusaro, per smantellare lo Stato imprenditore e sociale, più che una operazione giudiziaria – non a caso Giuliano Amato restò del tutto immune da qualsiasi inchiesta della magistratura.
Intanto all’opinione pubblica, con la complicità dello stesso mediasystem che anche oggi è portavoce del globalismo anti-sovranista, si fece credere che (s)vendendo il patrimonio statale si sarebbe abbattuto il debito pubblico. Il quale invece continuò a crescere per via degli alti interessi che lo Stato, in assenza, dal 1980, di una Banca Centrale monetizzatrice del bilancio statale, deve pagare ai mercati per finanziarsi.
Onde acquietare l’opinione pubblica fu scatenata una campagna di stampa contro il cosiddetto “panettone di Stato” ridicolizzando il fatto che l’IRI possedesse imprese come la Motta e l’Alemagna. Si evitava però di rammentare agli italiani i motivi per i quali l’IRI producesse anche i panettoni.
L’Istituto per la Ricostruzione Industriale fu creato dal socialista e massone (convertitosi in vecchiaia alla fede cattolica) Alberto Beneduce, con l’avvallo e l’appoggio di un altro antico e impenitente socialista ossia Benito Mussolini, allo scopo di salvare l’economia italiana dalle disastrose conseguenze della grande depressione del 1929.
Beneduce ben sapeva che la borghesia nazionale, sin dall’unità d’Italia, era sempre stata al soldo delle banche private perché non aveva capitali propri né era stata in grado di accumularli in settant’anni. Questa dipendenza aveva creato imprenditori incapaci alla loro funzione nazionale e per questo egli chiese ed ottenne da Mussolini anche la Legge Bancaria del 1936 (che sarà abrogata dal solito Giuliano Amato tra il 1990 ed il 1993) mediante la quale il sistema creditizio fu pubblicizzato in modo che l’imprenditoria italiana potesse finanziarsi da banche pubbliche o sotto stretto controllo pubblico. In mancanza di imprenditori capaci, quindi, lo Stato, negli anni ’30, intervenne sussidiariamente e nazionalizzò molte industrie mettendo così le basi dell’economia mista che consentì il decollo industriale italiano del secondo dopoguerra (il cosiddetto “miracolo economico”, le cui radici storiche affondano negli anni del regime fascista).
L’idea magistrale di Beneduce fu quella di creare una holding a totale capitale pubblico ma gestita con i metodi privatistici, ad iniziare dalle alte competenze del management prescelto e dalla sottoposizione della industrie risanate alla normale disciplina civilistica. Le aziende irizzate, dopo il primo salvataggio con capitale pubblico, dovevano, in linea di principio, fare utili come una qualsiasi azienda privata e reggersi autonomamente sul mercato, senza contare su eventuali ricapitalizzazioni statali. In caso di fallimento avrebbero dovuto portare i libri contabili in tribunale, salvo l’eventuale salvataggio “interno” ossia con la devoluzione, se possibile, degli utili in surplus dalle aziende IRI in attivo.
La gestione privatistica che Beneduce volle per l’IRI e le sue aziende era esattamente il contrario della gestione burocratica e pianificatrice delle conduzioni “stataliste”. Nessuna “pianificazione sovietica” e nessuna interferenza ministeriale. Queste ultime purtroppo, nella forma della lottizzazione partitocratica, arrivarono a partire dagli anni ’70 creando i presupposti dei problemi finanziari dell’IRI sui quali poi Romano Prodi, Giuliano Amato e Mario Draghi fecero leva per disfarsene.
Quando, nel dopoguerra, Enrico Mattei, con l’appoggio di Alcide De Gasperi, inventò l’ENI, anche in tal caso sul troncone dell’Agip di epoca fascista, per evitare la dipendenza energetica dell’Italia del cartello oligopolista delle multinazionali petrolifere anglo-americane (le “sette sorelle”), imitò l’esempio di Beneduce e fece dell’ENI una holding pubblica a gestione privatistica.
Il successo dell’IRI, tuttavia, non fu dovuto soltanto al fatto che si trattava di una società pubblica gestita come una società privata. Il suo successo fu dovuto soprattutto al fatto che, ad iniziare dallo stesso vecchio socialista risorgimentale Alberto Beneduce, l’intero management era costituito, inizialmente, da uomini non solo altamente competenti, dal punto di vista tecnico e professionale, ma animati da autentica fede nella “religione della Patria”. Un clima spirituale mazziniano e risorgimentale era quello che Beneduce impresse e pretese dai suoi uomini.
Si trattava, quindi, senza dubbio, di una spiritualità aliena dalla fede tradizionale degli italiani, ossia il Cattolicesimo, con il quale lo stesso regime fascista era venuto a patti all’atto della Conciliazione (dimostrando una possibile via, rimasta poi inattuata, di riconversione religiosa) e, tuttavia, era comunque una “spiritualità” capace, per quanto metafisicamente priva di un fondamento sicuro e stabile, di vivificare la “missione nazionale” che Beneduce ed i suoi uomini si erano assunti, con l’appoggio, ripetiamo, di Mussolini.
I capitalisti italiani degli anni ’30 furono felici, onde evitare il fallimento e la galera, di abbandonare alla mano pubblica le loro industrie decotte, a causa del fatto che nel capitale di quelle industrie i soci di maggioranza erano le grandi banche private a loro volta sull’orlo del collasso conseguente al Venerdì Nero di Wall Street del 1929. In realtà la speranza dei nostri capitalisti era quella che, passata la bufera e risanate le industrie a spese dello Stato, si tornasse poi alla riprivatizzazione e quindi alla restituzione ai privati, magari a prezzi convenienti, delle imprese “irizzate”.
Nonostante che la tentazione della riprivatizzazione serpeggiasse in alcuni ambienti del regime – quelli di provenienza “fiancheggiatrice” votati alla monarchia borghese dei Savoia – le industrie risanate restarono in mano pubblica, anche nel dopoguerra. Questo per due motivi: la filosofia nazionale che ispirò l’intera operazione e la mancanza di una classe imprenditrice non solo capace di amministrare industrie, molte delle quali vitali, ma soprattutto devota alla nazione per vocazione storica e culturale. I grandi imprenditori italiani, infatti, invocano il patriottismo soltanto quando si tratta di ottenere prebende e protezioni statali.
Qui stanno le principali ragioni che presiedettero alla nascita in Italia dello Stato imprenditore, un modello che ci fu invidiato da Roosevelt e che fu imitato da tutti gli Stati occidentali nel dopoguerra. L’ampliamento delle infrastrutture nazionali, negli anni del “miracolo economico”, fu realizzato dall’IRI o sotto stretta sua supervisione. L’“autostrada del sole”, costruita dall’IRI con capitali pubblici e l’apporto minoritario dei capitali privati della Fiat e della Pirelli, fu inaugurata con tre mesi in anticipo rispetto ai termini contrattuali previsti dal capitolato d’appalto.
Orbene, se è vero che, nel 1992, al momento dello smantellando dell’IRI, imposto dai mercati finanziari transnazionali e devotamente attuato dalla sinistra filo-capitalista, lo Stato possedeva anche le imprese dolciarie, le quali ben potevano tornare ai privati laddove si fossero trovati imprenditori capaci di far crescere quelle imprese, ossia imprenditori convinti del proprio ruolo nell’economia reale e non meri “faccendieri” o “delocalizzatori” esperti in “commercio di imprese”, è tuttavia altrettanto vero che, mediante l’IRI, lo Stato controllava imprese strategiche come quelle autostradali, infrastrutturali, aereoportuali, energetiche, le acciaierie. Imprese che nessuno Stato veramente sovrano può sognare di abbandonare al mercato, interno o globale, senza metter in conto di perdere la propria sovranità. Ed erano esattamente queste imprese, non certo la Motta o l’Alemagna, a far gola alle banche d’affari anglo-americane con le quali i nostri politici e tecnici dell’epoca, “traditori della Patria”, si intrattennero sul panfilo Britannia davanti a Civitavecchia.
La svendita della Patria avvenne negli anni nei quali, dopo la fine dell’Unione Sovietica, i cantori della “fine della storia” e della “guerra giusta” (la prima guerra del Golfo fu del 1991) avevano messo in scena il concerto del “pensiero unico”: privatizzazioni, liberalizzazioni, globalizzazione. Creare un artificiale clima mondialista ed antisovranista era strumentale alla globalizzazione dei capitali. La sinistra, vittima ed erede del malinteso internazionalismo marxista, vide nel globalismo mercatista l’insperata ideologia di sostituzione dopo la fine invereconda del comunismo sovietico.
Ecco perché gli storici del futuro scopriranno che a cavalcare l’onda globalista e privatizzatrice, negli anni ’90, sono stati proprio gli esponenti ex comunisti o ex catto-comunisti, come D’Alema, Bersani, Prodi, e che in questa estate 2018 una vecchia voce della sinistra radicale come Radio Popolare ha difeso a spada tratta, contro la presunta xenofobia del governo “populista”, i Benetton, non certo del tutto esenti da responsabilità nell’incuria che ha causato il dramma del ponte Morandi a Genova mentre i loro profitti crescevano a dismisura. Da “Radio Popolare” a “Voce del Padrone” in nome dell’anti-razzismo: un esito antropologicamente interessante, non c’è che dire.
L’antirazzismo, che in sé è cosa giusta e sacrosanta, in realtà è oggi strumentale alle strategie del capitale transnazionale ed apolide. Una strategia che tende a confondere agli occhi dell’opinione pubblica, magari con l’avvallo delle gesta xenofobe di qualche imbecille di turno, l’odioso e inconsistente concetto di “razza” con quello di nazione, cercando di nascondere che la nazione è innanzitutto storia ed identità culturale e che queste, ossia le identità storiche e culturali, sono sempre dinamiche e soggette a contaminazioni inter-culturali nel corso dei secoli, senza che per questo venga meno, in sé, il senso di giusta appartenenza, quell’Amore di Patria che non è odio per l’altro da sé ma solo equilibrato rispetto di sé.
Del resto gli storici del futuro potranno scoprire anche che lo stesso era già accaduto nell’ex Unione Sovietica all’atto del passaggio dal comunismo al capitalismo più selvaggio. Ad appropriarsi delle imprese di Stato furono le grandi famiglie della Casta, della Nomenklatura di Partito, i cui esponenti si trasformarono in “oligarchi” in affari con i predatori capitali occidentali. Gli oligarchi svendettero l’economia nazionale pur di conseguire o conservare una quota di potere. Poi arrivò Putin e, anche lui in nome di una rinnovata fede nella Patria russa (nel suo caso armonica con la Fede cristiana ortodossa), mise il morso e le briglia agli oligarchi. Naturale che per il nostro mediasystem, al soldo dei “mercati”, Putin è un dittatore. La sua colpa? Non lasciar mano libera al capitale transnazionale.
Chi scrive ha l’età per ricordare come, negli anni ’90, mentre l’onda privatrizzatrice e globalista, insieme a quella euro-monetaria, montava coloro che osavano alzare critiche, sospetti e dubbi erano civilmente e mediaticamente proscritti, ridotti a paria del pensiero, messi alla pubblica gogna quali “complottisti”, “euroscettici”, “negazionisti”, “revisionisti” e via dicendo. Una sorte che è capitata anche a numi tutelari dell’intellighenzia, come Luciano Gallino o Paolo Savona o Ida Magli, mica solo a gente alla Giulietto Chiesa o alla Maurizio Blondet, non accreditati nei salotti buoni della stessa intellighenzia ma non per questo meno perspicaci e puntuali dei primi.
Adesso, quando gli effetti nefasti delle false promesse millenaristiche di pace e benessere universali del globalismo si sono ampiamente manifestati, i fatti danno ragione ai proscritti di un tempo. Ma l’intellighenzia, padrona del discorso e soprattutto delle tribune mediatiche, non si arrende, non vuole arrendersi, esattamente come la nomenklatura sovietica che preferì mandare tutto alla malora piuttosto che ammettere il vicolo cieco della via imboccata nel 1917-18.
La lezione che John Maynard Keynes – le cui dottrine economiche sono vietate nell’Europa ordoliberale ed in Italia dall’articolo 81 della Costituzione come riscritto da Mario Monti – resta ancor oggi del tutto valida. Lasciare mano libera al capitale, credere che il libero mercato sia capace di spontanea armonia ed equità, privatizzare anche quanto è per natura proprio dello Stato (che non è solo regolatore ma ha anche una propria sfera economica naturale di gestione diretta: lo riconosceva persino un liberale quale Luigi Einaudi), porta al disastro sociale, alla sudditanza nazionale, al peggioramento dei servizi nell’ottica del “meno costi, maggior profitto”.
Per esperienza professionale, l’autore di queste considerazioni ha ben presente quanti errori sono capaci di compiere uomini politici incompetenti, privi di senso della Polis ed attenti solo alla propria carriera elettorale. Di cattedrali nel deserto, che sono senza dubbio sprechi di pubblico denaro, ne abbiamo molti esempi. Ma resta comunque vero che quella del mercato efficiente ed efficace per principio, più del pubblico, è soltanto una mitologia che i recenti fatti, dalla crisi esplosa nel 2008 al ponte Morandi di Genova, si stanno incaricando di demolire.
Lo Stato può essere efficiente quanto e forse anche più del privato come l’esempio storico dell’IRI di Beneduce, prima che la partitocrazia ne invadesse il campo, sta lì a dimostrare. Ma, come abbiamo ricordato, alla base del successo dell’impresa pubblica creata da Beneduce e Mussolini stava una etica discendente da una “spiritualità” che, sebbene metafisicamente spuria e quindi alla lunga incapace di reggere, dava a chi operava il senso di una più alta missione a scopi di bene comune. In fondo tutto dipende dal cuore dell’uomo. La secolarizzazione ha ucciso anche quella laica spiritualità e nel conseguente vuoto nichilista è emerso il nudo potere dell’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI, Quadragesimo Anno, 1931).
United Colors of Money, per l’appunto!
Luigi Copertino