Autunno della Chiesa, inverno dell’Occidente.

 

                                                              di Roberto PECCHIOLI

Apocalisse in greco significa rivelazione.  Come tutti sappiamo, è il titolo del libro finale della Bibbia, attribuito a Giovanni. Dimenticato, messo da parte con imbarazzo dalla Chiesa modernista, resta come metafora di qualcosa di terribile, indicibile. La rivelazione, un apocalisse davvero di monsignor Viganò sull’esistenza di una spaventosa rete omosessuale nella Chiesa, in grado non solo di determinare carriere, nomine, coprire abusi e nefandezze, ma anche di mutare profondamente la dottrina cattolica, sorprende soltanto chi non segue le vicende della più antica istituzione della terra. Per citare il titolo di un’opera storica di Johan Huizinga, Autunno del Medioevo, siamo all’autunno della chiesa cattolica, ovvero all’inverno della civiltà occidentale.

Il problema è devastante, nonostante la sottovalutazione del pontefice argentino, che attribuisce ogni colpa, supportato dal coro di apologeti novatori, al clericalismo. Insomma, la responsabilità del cancro è degli oncologi. Apocalisse, manifestazione drammatica di fatti travolgenti. Occorre che gli scandali vengano alla luce, è Vangelo di Matteo (18,7), ma l’antico pubblicano aggiungeva “guai all’uomo per colpa del quale lo scandalo avviene.”  Non si può guardare ai fatti raccontati senza un aspro travaglio interiore per la vastità del male commesso, per il dolore arrecato, ma innanzitutto per la distruzione tenacemente perseguita di un’intera antropologia.

La coscienza vive con sgomento il crollo di insegnamenti bimillenari. Crollata la famiglia, accolta come normale se non come positiva l’omosessualità, addirittura nelle forme rivoltanti dell’efebofilia e della pedofilia, l’intera dottrina umana del cristianesimo crolla. Dal biblico “maschio e femmina li creò” all’immagine della sacra famiglia, al matrimonio sacramentale, tutto va in frantumi. Poiché il cristianesimo è l’architrave della civiltà europea ed occidentale, la frana è destinata a sconvolgere tutto e tutti. Simul stabunt, simul cadent: cresciuti insieme, cadranno insieme. Huizinga, nell’incipit della sua opera scrisse parole significative: “ogni epoca desta in noi maggiore interesse quando vi troviamo una promessa di futuro.“  Nella storia non meno che nella natura, “la morte e la nascita camminano sempre di pari passo.“

Una civiltà ricca e rigogliosa, la nostra, si è condannata all’aridità e all’irrigidimento, i suoi capisaldi etici, spirituali, le certezze che hanno accompagnato decine di generazioni si sfaldano e, come quasi sempre accade, l’erosione viene da dentro. Come in certi tramonti, la rivelazione è la profondità di un cielo serale, pesante di oscurità livide e pieno di una falsa luce di rame.

Ancora con le parole profetiche di Huizinga, “nel mondo non c’era promessa alcuna di cose migliori”. Lo studioso olandese rivolgeva la sua attenzione alle strutture dell’ultimo Medioevo svuotate di linfa vitale, sopravvissute ma conservate artificialmente, cristallizzate in un divorzio perenne tra principi e dottrine non più credute. Questo appare la chiesa cattolica, tale è la civiltà che essa ha improntato. Oswald Spengler parlò di tramonto, giocando sul termine tedesco Abendland, l’occidente patria della sera. Un secolo dopo, la notte sembra avere preso definitivamente il sopravvento e, come comprese Hegel dei grandi fenomeni storici, la nottola di Minerva, cioè la conoscenza consapevole, inizia il suo volo solo al crepuscolo, quando il sole è tramontato e tutto si è compiuto.

Ci sentiamo necrofori di una civiltà e di una religione che hanno oltrepassato il tramonto per raggiungere l’epilogo. Da credenti, sappiamo che la notte passerà e una nuova alba verrà. Tale è il significato purificatore degli scandali nel pensiero dell’evangelista, e la tenebra non è definitiva. Lo è, molto probabilmente, nelle nostre esistenze personali che non vedranno l’aurora. Avvertiamo vivissima la tragedia di un mondo crollato sulle antiche credenze, le vecchie sicurezze, le venerande istituzioni in cui siamo vissuti, senza intravvedere luce alcuna. Come i sopravvissuti a un naufragio, rari nantes in gurgite vasto, rientriamo tristemente nella caverna dalla quale ci trasse Platone due millenni e mezzo or sono. Finiamo per lasciarci alle spalle – e non possiamo- il messaggio dell’uomo di Nazareth.

Il sentimento più forte è il rancore per un tradimento gigantesco. Si ha il diritto di pensare: mi hanno imbrogliato, mi hanno mentito fin dall’infanzia. Non credevano affatto in ciò che ci proponevano a credere, dunque appare menzogna l’intero edificio della fede e della civiltà che ne è scaturita. Costruiscono ponti, ma tra bene e male, luce e tenebra. Le civilizzazioni umane possono, devono mutare nel tempo, le religioni hanno come misura l’eterno. Non si possono rovesciare capisaldi della dottrina perché sgraditi allo spirito del tempo (e del luogo, giacché è l’Occidente, non l’universo intero a essersi invertito). Invece, oltre a sopportare prelati pervertiti, seminari trasformati in bordelli e ponti gettati verso tutto ciò che è stato chiamato peccato per millenni, dobbiamo ascoltare superiori gesuiti affermare che il Vangelo è poco più di una fiaba, giacché non c’erano registratori della parola di Gesù, cardinali convinti che Cristo fosse “un potente guaritore”, servi di Dio che scandalizzano asserendo che molti santi erano omosessuali.

Inutili, insulse, risibili le parole di Paolo di Tarso, Agostino, Tommaso, Pier Damiani, Bernardino e Caterina da Siena; il quinto evangelo è la parola di padre James Martin (servus Jesus?) con l’ausilio delle associazioni LGBT, l’uomo ha sostituito Dio, l’inferno, se c’è, è vuoto. Lo stesso Bergoglio, parlando con il neo evangelista Eugenio Scalfari, ha affermato che le anime degli empi si dissolvono. Perché, di grazia, dovrei ancora credere? Ebbe allora ragione Feuerbach, nell’Essenza del Cristianesimo, a concludere che non Dio crea l’uomo, ma l’uomo inventa Dio, proiezione rassicurante delle sue angosce, rappresentazione di ciò che vorremmo essere.

Il nuovo cristianesimo accoglie tutti i mali che aveva combattuto: le pulsioni gnostiche, secondo cui la creazione è intrinsecamente cattiva, dunque maschio e femmina è male; il relativismo morale, che cambia tutto a seconda dei tempi e dei luoghi; il nichilismo, poiché non esiste la verità, tutt’ al più la sua interpretazione. Dei sette, il sacramento più in crisi è la confessione, più dell’eucaristia o del matrimonio. L’uomo moderno, noi stessi, fatichiamo a raccontare il male che abbiamo dentro, riconoscerlo come tale, pentirci e in qualche modo tentare di non perseverare nei comportamenti negativi che la tradizione chiamò peccato.

Come faremo, adesso, a confidarci con consacrati che non conosciamo, delle cui possibili condotte abbiamo orrore, e non solo, naturalmente, nell’ambito sessuale? E il cristianesimo, la fede di duemila anni, è ridotta alle opere di misericordia corporale? Per compierle, basta un onesto volontariato, l’umanitarismo generico, la filantropia massonica. La carità è cancellata e con essa forse l’enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas Est, in cui Eros, l’amore umano si trasforma in Agape, l’amore che si conclude in Dio. Basta, passato remoto, come i principi non negoziabili e tutto il resto.

Marc Augé scrisse un paio di anni fa un libretto, Le tre parole che cambiarono il mondo, immaginando il Papa, il giorno di pasqua del 2018, affacciato a San Pietro, intento a proclamare urbi et orbi l’inesistenza di Dio. Secondo il sociologo francese, ciò fermerebbe i conflitti tra i popoli, un’illusione che non fa onore all’ acuto teorizzatore dei nonluoghi. Temiamo che la distopia si stia realizzando. Nessuna dichiarazione formale, una ritirata progressiva a passi sempre più rapidi. Dissoluzione gaia, in ogni senso, un oscuro desiderio di fine, di fango, un cupio dissolvi che è il contrario dello spirito cristiano.

La rocca sta cedendo, lo sconcerto prevale solo in pochi spiriti inquieti, gli altri si adeguano, continua il ballo sul Titanic. Autunno della Chiesa, inverno di una civiltà, agonia penosa simile a quella pronosticata da un nichilista come Emil Cioran. Una chiesa di geometri troppo occupata a edificare ponti per osservare le rive. Intanto, crolla il tetto della chiesa romana intitolata a San Giuseppe dei Falegnami, un simbolo della sacra famiglia. Doveva celebrarsi un matrimonio nell’antiquata modalità di unione tra un uomo e una donna. Forse, un segno della collera di Dio, ma bisognerebbe credere in Dio. Chissà se ci credono ancora i gai cardinali, i vescovi corruttori, i preti mondani.

 ROBERTO PECCHIOLI