L’ILLEGITTIMA DIFESA

di Roberto PECCHIOLI

Si è riaperto il dibattito sulla legittima difesa. Da un lato un progetto di legge leghista secondo cui la difesa è sempre legittima, dall’altra la reazione stizzita dell’ANM, Associazione Nazionale Magistrati, che ha espresso con la consueta veemenza irrituale la propria contrarietà alla nuova formulazione giuridica dell’antichissimo istituto della legittima difesa. Lasciamo da parte ogni polemica nei confronti del sindacato dei giudici, i cui interventi a gamba tesa in politica sono quotidiani e sembrano animati dal timore di perdere un pezzo di discrezionalità nel valutare gli episodi di reazione all’illegalità e alla violenza subita. Non assumiamo interamente il punto di vista di Salvini, poiché difendere se stessi, la propria famiglia, il proprio pane è senz’altro giusto e lecito, ma non deve significare legittimare ogni reazione. Per capirci, io ho il diritto di fermare con ogni mezzo, sino all’uccisione, chi sta minacciando la vita mia e dei miei cari, ma non posso sparare a qualsiasi ladruncolo o truffatore. Altra cosa è la triste alternativa tra un brutto processo e un bel funerale.

La materia è estremamente complessa e merita una riflessione un po’ più ampia di un alterco sovreccitato, animato purtroppo da fatti drammatici, sentenze talora sconcertanti a favore dei delinquenti. I buonisti in servizio permanente effettivo evitino il solito comico argomento dell’Italia ridotta a Far West, giacché le armi, disgraziatamente, le possiedono e le usano bande di criminali di ogni risma, pericolosità e provenienza geografica, non gli uomini della strada. Dall’altro lato, il pericolo è quello di affidare ai singoli i compiti che spettano allo Stato, il grande assente. Henri de Montherlant scrisse che “moriamo di indulgenza”. Per questo si giustifica il gioco di parole del nostro titolo: esiste e diventa ogni giorno più grande l’illegittima indifesa.

Indifesa è la maggioranza stragrande degli uomini e delle donne normali. Illegittimo, benché non illegale, è il comportamento delle istituzioni. Distorto se non invertito è il rapporto tra diritto, istituzioni, senso comune e violenza. Il principio irrinunciabile è quello di stare dalla parte delle vittime, non con la retorica ridondante di cui danno prova i rappresentanti del potere, ma nei fatti. Chi entra in casa mia, penetra nel mio ufficio o commercio deve avere chiari due concetti: sta rischiando concretamente una condanna penale che espierà per intero in un carcere; la comunità nella sua interezza è contro di lui. I fatti, una volta di più, narrano esattamente il contrario.

Pagare il fio di comportamenti criminali è raro, le pene sono fin troppo pesanti nella lettera, ma miti nella sostanza, tra permessi, condoni, norme che riducono per i più svariati motivi la carcerazione e non di rado la evitano del tutto. Cesare Beccaria, l’illuminista milanese autore del citatissimo Dei delitti e delle pene, era tutt’altro che un buonista del XVIII secolo. Le sue parole sono pietre: “uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse. (…) La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”.

Un’impunità determinata dal combinato disposto di un impianto legislativo che favorisce i colpevoli unito alla genetica indulgenza delle società individualiste e alla discrezionalità di una giurisdizione prigioniera delle gabbie ideologiche. Discrezionalità che, peraltro, non è responsabilità dei magistrati, ma di una legislazione sconcertante. E’ recentissima una sentenza, pronunciata applicando una norma emanata dal governo Renzi sui piccoli reati, che ha mandato assolta una badante colpevole del furto e rivendita di gioielli appartenenti ad una coppia di anziani del valore di 60mila euro.

Non resta che dare ragione al grande cancelliere Bismarck, per il quale “con cattive leggi e buoni funzionari si può sempre governare. Ma con cattivi funzionari le buone leggi non servono a niente. “Le nostre leggi sono talmente numerose e contrastanti che il primo problema di chi le applica è districarsi tra di esse, con grande vantaggio di chi vuole sfuggire alle conseguenze dei suoi atti. Nella Politica, il sommo Aristotele aveva già sintetizzato il problema: “La legge è ordine; e una buona legge è un buon ordine”.

Da almeno mezzo secolo qualsiasi accenno al concetto di ordine provoca fastidio, reazioni, opposizioni, dunque il problema, come dicevano gli intellettualini di qualche decennio fa, “è a monte”. A monte c’è un rapporto distorto con la violenza, l’ordine civile, il principio di responsabilità. Sullo sfondo, mostra la corda il monopolio dell’uso della forza attribuito al potere pubblico, dunque allo Stato. Indebolito dalla prevalenza dei potentati privati, screditato culturalmente dall’estensione illimitata dell’idea di libertà, reso impotente dal soggettivismo dominante, lo Stato non riesce più a esercitare con il giusto equilibrio di forza, efficacia e proporzione il delicato monopolio che possiede. Per di più, varie correnti ideologiche ne contestano i fondamenti: da un lato, l’inimicizia per lo Stato del liberalismo egemone, libertario e liberista. Dall’altro, il pregiudizio della sinistra di ascendenza socialcomunista contro l’ordine “borghese”, definito reazionario, conservatore, patriarcale che induce a simpatizzare per chi infrange leggi proclamate ingiuste e classiste.

La miscela dei due atteggiamenti è esplosiva: garantismo esasperato, attenuanti, esimenti per i reati dei “colletti bianchi” fanno il paio con la malcelata indulgenza verso rapinatori, ladri, immigrati, proclamate vittime del sistema. In mezzo, l’illegittima indifesa, ovvero l’inerme figura della persona per bene, vittima di imbrogli, prevaricazioni, furti, rapine, insicurezza diffusa. L’uomo comune ha la certezza di essere l’agnello della fiaba di Fedro apostrofato dal lupo al ruscello. “Perché mi hai fatto diventare torbida l’acqua che sto bevendo? E l’agnello, tremando: come posso – dice – fare quello che lamenti, lupo? L’acqua scorre da te alle mie sorsate!” Sappiamo come finì, il lupo divorò l’agnello inerme. Quell’agnello si è stufato del ruolo di vittima e reclama il diritto di sparare al lupo prima di essere divorato.

Sono saltati due passaggi logici, capovolti a favore dei lupi. Manca la legalità, ovvero un impianto normativo concretamente dalla parte degli onesti e dei miti, ma fa cortocircuito la legittimità, ovvero la società, malata di soggettivismo e spezzata in mille segmenti non componibili a unità, non è più d’accordo su ciò che è bene e ciò che è male. Il risultato è che spadroneggiano i delinquenti, pesci nell’acqua di un sistema debole, contraddittorio e formalista. Se c’è un punto su cui concordiamo con il modo di pensare progressista è che la pericolosità sociale dei delinquenti in giacca e cravatta non è inferiore a quello dei mascalzoni armati. Ne sono prova il crollo del ponte Morandi non meno che le malversazioni finanziarie di tanti banchieri e la corruzione diffusa nell’economia, nella politica, nell’amministrazione.

Ciò non significa che si debba invocare severità, Stato e giustizia a corrente alternata. La legittima difesa nei confronti dei soprusi del potere deve stare nelle leggi e nella volontà di applicarle senza sconti. La protezione dai criminali comuni passa da un ulteriore attitudine, quella di esercitare senza timori il monopolio della forza legittima. Poliziotti e carabinieri pistoleri non ci piacciono, ma i malviventi devono avvertire, oltre al peso reale della legge (pene effettive espiate in carcere, seguite, per chi è straniero, dall’espulsione) anche il rischio concreto dell’incolumità e della vita nella sfida alle forze dell’ordine. Le cose non vanno così e da questa disfunzione drammatica sorge la domanda di farsi giustizia da soli.

Noi non crediamo affatto che commercianti, imprenditori aggrediti nel lavoro quotidiano, padri e madri di famiglia attaccati negli affetti e nel focolare, cittadini rapinati, donne assalite sessualmente abbiano il desiderio diffuso di uccidere. Se però la paura prevale, con buona pace dell’insopportabile disprezzo dell’allarme sociale delle finte anime candide, è insensato gridare al Far West prossimo venturo anziché fermare quello presente e reale alimentato da chi le armi se le procura senza fatica e le usa indifferente alla vita umana. Meglio sarebbe affrontare alla radice il problema della sicurezza piuttosto che negarlo, avviare interminabili dibattiti sociologici, sfoderare statistiche di parte o menare il torrone con disquisizioni giuridiche. Una popolazione sicura, ragionevolmente convinta di non correre pericoli, rassicurata dalla forza e dall’azione della legge, non chiede il porto d’armi, non invoca la legittima difesa né sollecita pene abnormi.

Milioni di illegittimi indifesi sperimentano ogni giorno sulla carne di avere torto a prescindere. Fisco, burocrazia, giustizia, malavita, diritti sociali: la presunzione di colpevolezza è caricata alle persone comuni da un potere insolente, arrogante, spesso corrotto. Nulla di strano se qualcuno ritenga primario difendere in armi se stesso e la “roba” di verghiana memoria. Aleggia un errore di fondo della mentalità occidentale moderna, non distinguere tra forza e violenza. La forza è una virtù, comunitaria e personale, che viene trasferita allo Stato a fini di difesa e giustizia. La violenza è la sua degenerazione. Insorgere anche fisicamente, reagire a partire da se stessi è un diritto naturale che nessun potere o concezione irenistica del diritto può sottrarre all’essere umano.

La normalità quotidiana è diventata una perniciosa indifferenza che confonde, opacizza i confini, logora i principi a tutto vantaggio del malaffare e della malvivenza. Ci si attarda a stabilire se sia peggiore la delinquenza in guanti bianchi (idea della sinistra) o quella armata della strada (idea della destra), con il risultato di offrire spazio all’una e all’altra, le opposte facce di una stessa realtà. Il quadro giuridico è preoccupante, i processi diventano sempre più un gioco agonale di esperti a pagamento dal quale è espunta la giustizia e assente il senso comune.

Affiora il pensiero di un artista divorato dall’angoscia, Cesare Pavese, allorché, nel Mestiere di Vivere, prendeva atto che “non ci si libera di una cosa evitandola, ma attraversandola”. Non affrontiamo la violenza diffusa di mille bande proterve, sprecando energie in dibattiti, diatribe, difendendo ciascuno un punto di vista ideologico che perde di vista l’essenziale. Ossia il diritto di ciascuno a una vita normale, violata da rapine, furti, aggressioni, ricatti, estorsioni, libero spaccio di sostanze che danno morte, tanto quanto dal clima di corruzione diffusa, privilegio di casta, imposizioni oligarchiche. In più, si esige a fronte corrugata il rispetto di un presunto spirito del tempo nelle leggi. Avverso alla legalità quanto alla legittimità, esso è bollato dal Beccaria con parole taglienti: “non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni “, specie in un’epoca individualista, relativista e nemica della decisione, cui si preferisce sempre la discussione sterile e interminabile.

Legittima difesa è cosa assai distinta dal ricorso ai giustizieri armati, i Ringo e i Sartana dei film western-spaghetti. E’ il riconoscimento di un fatto naturale, un dato permanente della personalità umana che volentieri lasceremmo ai casi estremi, poiché una convivenza ordinata si realizza nella comunità e nelle norme che la sorreggono, non certo nell’iniziativa individuale o peggio nella sociopatia diffusa. Serve una legittima difesa collettiva contro ogni malaffare e prevaricazione. Soprattutto, si deve sconfiggere l’equazione figlia della viltà secondo cui forza è uguale a violenza. Lo Stato, unico baluardo dei giusti, deve poter esercitare una santa, legittima violenza contro i crimini con il peso della legge, fatta di norme semplici e pene non esemplari ma certe, e, ove necessario, con l’uso senza complessi delle armi, oggi monopolio dei mascalzoni.

Ci piace citare alcuni venerati maestri dei sedicenti non violenti, Karl Marx e il pomposo signore della gauche caviar parigina, Jean Paul Sartre, l’autore de L’essere e il nulla. Il pensatore tedesco riconobbe, dinanzi alle elucubrazioni intellettuali, che “l’arma della critica non può, in verità, sostituire la critica delle armi; la potenza materiale deve essere abbattuta da potenza materiale.“  Per il philosophe de La nausea, addirittura, “solo con la violenza si diventa uomini.“ Una sciocchezza cui è facile opporre una riflessione positiva di un cattivo maestro, Jean Jacques Rousseau.“ La forza è un potere fisico; la pistola del brigante è anch’essa un potere fisico “. A cui abbiamo il diritto dovere di contrapporci senza timidezza.

La civiltà italiana seppe esprimere splendidamente già nel XIII secolo il senso della comunità e del vivere civile nell’ affresco senese di Ambrogio Lorenzetti Il buono e il cattivo governo e gli effetti sulla città. In una parte del grande dipinto, un’opera d’arte intrisa di filosofia e scienza politica, nell’aria vola la personificazione della Sicurezza, che reca un delinquente impiccato, simbolo di giustizia implacabile e regge un cartiglio su cui si legge: “Senza paura ogn’uom cammini / e lavorando semini ciascuno”. L’ideale di una comunità forte e giusta è simboleggiato dal contrasto tra la carnale sensualità della Sicurezza e la dura allusione alla pena di morte. Lo Stato protegge gli onesti e punisce chi non segue la legge. Nell’Allegoria del cattivo governo, la città è ingombra di macerie, sul punto di crollare, i cittadini distruggono anziché costruire, la legge imprigiona gli innocenti, languono le attività economiche. Tutto è rovina, le campagne sono in fiamme e un esercito nemico marcia sotto le mura. In cielo aleggia sinistro il Timore.

Dobbiamo scegliere: sicurezza o timore, vita o rovina, legittima difesa o il suo contrario, l’abbandono al destino. Per prendere posizione, bisogna decidere, assumere responsabilità, agire, rischiare. Seguire il Bene o il Male, l’Amico o il Nemico. Che disgrazia per il debosciato collettivo, il moderno “Narcisetto Adoncino d’amor. Non più avrai questi bei pennacchini, quel cappello leggero e galante, quella chioma, quell’aria brillante, quel vermiglio donnesco color.” Con la musica mozartiana delle Nozze di Figaro, i versi di Lorenzo Daponte paiono scritti per l’incipriato, indifeso damerino del secolo corrente, tutto chiacchiere, tolleranza e codardia.

Roberto PECCHIOLI