INDEBITAMENTO E NEOCOLONIALISMO: ALLA RADICE MEFISTOFELICA DELLE MIGRAZIONI
prima parte
L’imperialismo è un sistema di sfruttamento
che si verifica non solo nella forma brutale
di chi viene a conquistare il territorio con le armi.
L’imperialismo avviene spesso in modi più sottili.
Un prestito, l’aiuto militare, un ricatto.
(Thomas Sankara)
La crisi non riguarda solo le nostre tasche, ma l’intera civiltà
(Luciano Gallino)
Quell’inquietante sinistro balenio dietro la Matrice Globale
Una colta ed intelligente giovane economista italiana – che, avendo prima studiato le teorie economiche mainstream, presso la Bocconi, per poi ripudiarle in favore di un nuovo keynesismo, si definisce “bocconiana redenta” – ha recentemente pubblicato un libro fondamentale per comprendere le vere cause dell’emigrazione africana verso l’Europa evitando di cadere in semplicistiche spiegazioni del tipo “invasione”, “islamizzazione”, “scontro di civiltà”. Soprattutto per evitare di rimanere incastrati nelle stupida ed inutile querelle tra xenofobi e xenofili. Lei si chiama Ilaria Bifarini ed il suo libro reca il titolo del tutto esplicativo de “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa” (2017). Consigliato a tutti, perché chiunque voglia trattare del problema immigrazione non può prescindere dalla lettura di questo libro ossia dalla comprensione delle dinamiche finanziario-economiche che spingono le masse del Terzo Mondo ad emigrare. Ricordiamoci che gli uomini sono esseri tendenzialmente radicati e non emigrano se non per necessità o, altrimenti, se spinti da ragioni di ordine spiritualmente superiore, come nel caso biblico di Abramo. Lasciare la propria terra, la patria natia, è per qualsiasi uomo sempre una grande sofferenza.
In questo nostro intervento seguiremo la Bifarini nelle sue spiegazioni sulle connessioni tra liberismo, austerità e fenomeno immigratorio. Tuttavia la nostra sarà una esposizione impegnata a presentare la questione anche sotto una prospettiva che, probabilmente, non è quella consueta all’autrice citata, la quale pur mostrando un approccio anche filosofico, oltre che economico, non sembra una frequentatrice della Metafisica Tradizionale. Vorremo, in altri termini, sottolineare, anche alla luce della sue ricerche di economista, la oscura presenza, in queste vicende, di una “menzognera volontà omicida”, secondo una lettura teologica della storia che è l’unica a dare davvero conto del “misterium iniquitatis finanziario”, da millenni carsicamente strisciante nelle vicende umane.
«Il neoliberismo – scrive Giulietto Chiesa nella Prefazione al libro della Bifarini – ha imprigionato il mondo in una Matrice, che è poi la “mappa del denaro”, assai simile a quella del più famoso video games, GTA, alias “Great Theft Auto”. La somiglianza tra le situazioni di questi due videogames è stringente. Entrambi sono dei disegni, appunto delle “mappe”. E, come tutti i disegni, hanno dei contorni. Oltre questi contorni non c’è più niente. (…). Studiare come funziona il neoliberismo è come giocare a Great Theft Auto. Puoi capire benissimo come si ammazza l’avversario là dove il disegno e i personaggi sono stati disegnati, cioè designati ad agire, ma al contorno tutto diventa privo di ogni logica, letteralmente inesistente. Si può solo tornare indietro. Uso questa metafora per dire che ormai sappiamo a menadito che il neo-liberismo ha fallito. Che tutta la sua costruzione era, ed è, “sbagliata”. Che era tutto un inganno. Che non c’è alcuna prospettiva di salvezza. Che l’austerità è già diventata la regola generale e non c’è nessuna alternativa ad essa. Che il denaro continuerà a concentrarsi nelle mani dei pochissimi …, mentre immense masse popolari saranno ridotte non in miseria, ma in schiavitù (…). Noi abbiamo scoperto che il nuovo capitalismo (ma possiamo ancora chiamarlo tale, questo Leviathano che ha ormai sembianze del tutto diverse?) non domina più attraverso il capitale, la produzione di merci, l’uso della forza lavoro umana e l’estrazione da essa del plusvalore. Domina attraverso il Debito. Un debito sempre più universale che si crea a prescindere dagli esseri umani viventi. Dentro la “mappa del denaro” tutti diventiamo debitori, anche se non abbiamo mosso un dito. Debitori per lo stesso fatto di esistere. Individui, famiglie, Stati. Tutti impossibilitati a pagare il debito che cresce vorticosamente, senza sosta. Fino a che punto potrà crescere senza spezzare qualche equilibrio? Esso presuppone un infinito che non esiste dunque è insostenibile. Prima o poi si vedrà la sua insostenibilità, anche se al momento essa è nascosta dalla coltre spessissima dell’inganno collettivo».
Frequentatori della Sapienza, nelle parole di Giulietto Chiesa percepiamo immediatamente, da parte nostra, l’eco, che lui da marxista non coglie, dell’antica profezia del Libro della Rivelazione. E’ la profezia che descrive il Potere Globale dell’Avversario, dell’Anticristo. Un Potere che viene profetizzato come mondiale e finanziario: «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere quel marchio…» (Apocalisse, 13 – 16,17).
L’universalizzazione del debito, strumento di dominio globale, che, come osserva Giulietto Chiesa, ci fa tutti debitori per il solo fatto di esistere, è, nella Luce della Rivelazione, l’esito terminale del percorso storico, segnato dal rifiuto dell’Amore di Dio, dell’umanità. Essa, come il figlio minore della parabola evangelica, ha lasciato la Casa del Padre, presso la quale viveva dei “frutti della terra”, della produzione reale, per andare a dissipare l’eredità con le prostitute della finanza predatoria, indebitandosi fino a cadere, appunto, in servitù ed a contendere, per fame, le ghiande ai porci.
E’ necessario tenere aperta la visuale su una prospettiva Metafisica se si vuol comprendere l’essenza mefistofelica della finanziarizzazione del mondo ed è nostro auspicio che prima o poi anche sagaci intelligenze come Giulietto Chiesa ed Ilaria Bifarini, uscendo dalla gabbia immanentista – perché l’Infinito se non esiste certo qui, esiste in prospettiva trascendente –, decidano di aprirsi alla reale comprensione delle radici ultime della storia umana.
Il sistema di indebitamento globale è riuscito a realizzare un dominio mondiale perché chi offre denaro trova sempre chi è disposto ad accettarlo, chi cioè chiede denaro. La finanza apolide non sarebbe riuscita in questo disegno di dominazione se governi e popoli fossero stati coscienti dei meccanismi di creazione del denaro per utilizzarli eticamente ossia per finalizzare il denaro a scopi produttivi e benefici. La mancanza di conoscenza, da parte dei popoli e delle Autorità politiche di tali meccanismi, quasi da sempre lasciati in appalto monopolistico alla perenne consorteria transnazionale ed apolide dei banchieri, ha consentito alla finanza di rendersi autoreferenziale, autonoma dal Politico, e di estendere mondialmente il proprio dominio fino a condizionare l’economia di tutte le genti ed a diventare padrona del destino di esse, esercitando un incontrastato potere globale di vita o di morte.
Ecco perché «… interi eserciti – ci dice ancora Giulietto Chiesa – di professori, giornalisti, politicanti, megafoni umani affetti dalla “Sindrome di Stoccolma” sono all’opera per imporci la loro tesi unica e ossessiva che è giusto che sia così, che non c’è alternativa alla loro narrazione, che le nostre incontestabili verità sono false, sono “complottismo” (…). L’intero complesso della comunicazione … è al servizio (degli) … innominabili che gestiscono la macchina del dominio. (…). Perché ormai … (gli innominabili) hanno i mezzi per comprare l’intero pianeta. Con dentro non solo tutti i governi dell’Africa, ma anche tutti i governi d’Europa. Anzi li hanno già comprati. Non solo l’Africa … è già stata ipotecata, ma tutto il mondo occidentale lo è. La differenza, semmai, è che … (in) Occidente il processo viene ancora mediato, con assicurate procedure, dalle leggi che i banchieri hanno scritto di proprio pugno, dunque “legalmente”. Anche in Europa, dove i pubblici sono ancora, in parte, in condizione di capire, o scoprire i meccanismi, e dunque sono potenzialmente pericolosi, seppure in misura che si riduce di giorno in giorno. E’ solo questo il motivo per cui si procede con cautela: per evitare ripercussioni sgradite da parte dei popoli che, nell’attesa della loro impossibile rivolta, sono già stati marchiati con il termine “populismo”. Mentre in Africa, il capitale finanziario ha agito con la selvaggia disinvoltura di chi non ha limiti. I prestiti sono stati di fatto imposti a classi dirigenti locali che erano state preventivamente trasformate in classi “compradore”. Ministri, Capi di Stato, Governi sono stati messi a busta paga. I loro figli sono stati formati nelle università europee e americane, dalle quali sono usciti con le idee dei magici (innominabili). Quando non fosse bastato, le massonerie occidentali li hanno formattati sulla base delle loro regole facendo loro credere di far parte dell’élite. Chi resisteva è stato semplicemente eliminato».
Vecchio e Nuovo Colonialismo. Bretton Woods e le illusioni di Keynes
Ricostruendo le vicende economiche del post-colonialismo la Bifarini si accorge che esse raccontano la storia della crisi da indebitamento dei Paesi del Terzo Mondo. Una storia costellata da omicidi politici, come quello del leader africano Thomas Sankara, e contrassegnata dalle politiche di indiscriminata apertura al libero scambio, dalle liberalizzazioni e dai tagli alla spesa pubblica imposte dai mercati e dalle Istituzioni di Washington.
La ricostruzione della Bifarini smonta la narrativa corrente, la quale utilizza i misfatti del vecchio colonialismo otto-novecentesco per attribuire al solo passato coloniale degli Stati europei la colpa del ritardo africano e dell’attuale fenomeno migratorio. Ogni volta che si parla dell’Africa siamo fin troppo abituati ad individuare il colpevole del dramma nel vecchio colonialismo e non ci accorgiamo affatto delle ben più gravi responsabilità del neo-colonialismo post-coloniale. Senza nulla togliere sul piano storico alle responsabilità del vecchio colonialismo, è evidente che spostare su di esso tutta l’attenzione serve a coprire, in realtà, le colpe successive della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, ossia degli apparati del Nuovo Colonialismo. Tali apparati hanno fatto del Terzo Mondo il proprio laboratorio per sperimentare l’ideologia globalista all’insegna della quale essi, del resto, sono stati creati. Il “nuovo colonialismo” è essenzialmente intrinseco al modello neoliberista globale. Non sono più gli Stati, come nel vecchio colonialismo, a esercitare il loro dominio sul Terzo Mondo, bensì gli interessi delle multinazionali e della finanza internazionale che specula e si arricchisce sul rimborso del debito, provocando l’emigrazione di massa dall’Africa.
Questo scaricare la cattiva coscienza soltanto sul passato europeo è funzionale all’egemonia americana. La Bifarini non lo dice apertamente. Pertanto ci permettiamo noi di aggiungere una nota in proposito. Dietro il paravento della libertà e dei diritti dell’uomo, la storia dell’egemonia americana sul mondo coincide largamente con quella del sostegno statunitense alla “lotta di liberazione” dei popoli contro le antiche forme coloniali: da quelle europee, ispano-portoghesi, sullo stesso continente americano, a quelle franco-inglesi nel resto del mondo. Tuttavia, a processo concluso, dobbiamo registrare che al posto del vecchio colonialismo europeo si è imposto, per l’appunto, il nuovo colonialismo delle multinazionali e della finanza apolide che negli Stati Uniti, quale potenza politico-economica globale, ha trovato il suo alfiere.
Quando, nel 1944, a Bretton Woods, si riunirono le potenze occidentali, che stavano vincendo la seconda guerra mondiale, per delineare un “Nuovo Ordine Mondiale”, in opposizione al “Nuovo Ordine Europeo” progettato dalle, ormai sconfitte, potenze fasciste, il più grande economista del XX secolo, l’inglese John Maynard Keynes, colui che ha rivoluzionato la scienza economica neoclassica fino ad allora dominante, propose la creazione di un Fondo Monetario Internazionale e di una Banca Mondiale. La sua prospettiva prevedeva l’istituzionalizzazione di una “camera di compensazione internazionale” basata su di un sistema monetario globale, a cambi semi-flessibili, che utilizzasse una moneta di conto universale, il “bancor”, completamente sganciata dall’oro, mediante la quale fossero regolati, tra gli Stati aderenti al sistema, avanzi e disavanzi delle rispettive bilance commerciali e finanziarie, in modo da far convergere verso un punto di equilibrio generale le economie deboli, in deficit, e quelle forti, in surplus.
In uno scenario di squilibri asimmetrici – osservava Keynes – non è possibile raggiungere alcuna convergenza economica mondiale. Infatti, mentre i Paesi poveri hanno necessità di opportune politiche intese a rafforzare la domanda interna, per rendersi indipendenti dalle importazioni, attraverso un prudente protezionismo a difesa del capitale nazionale (cosiddetta industrializzazione per sostituzione), dall’altro lato, i Paesi ricchi hanno necessità di trovare sbocchi di mercato per i loro prodotti e quindi sono indotti a favorire politiche di libero scambio. Ma il liberoscambismo è sempre asimmetrico e crea nelle economie più deboli una dipendenza dalle esportazioni a tutto svantaggio di qualsiasi possibilità di sviluppo industriale autoctono. Se il protezionismo assoluto è impensabile, dato che nessuno Stato ha in casa tutto quanto necessario alla sua economia – e tuttavia ciascuno Stato può certamente valorizzare quanto produce o potrebbe imparare a produrre autonomamente –, il liberoscambismo costringe i Paesi più deboli alla dipendenza economica ed al vassallaggio politico. Il liberoscambismo è lo strumento ideologico dei Paesi più forti ed esportatori.
Il mondo delle relazioni umane non è perfetto – la possibilità per l’umanità di raggiungere autonomamente la perfezione mondana è stato il tragico sogno di tutte le utopie – ed il cristiano sa molto bene che questo dipende dalla conseguita ferita ontologica della natura umana. L’uomo ha una interiore, negativa, spinta all’autocentrismo, all’autorefenzialità, all’egoismo – e quindi al dominio, alla sopraffazione, sul prossimo – che corrisponde spiritualmente al peccato, ossia al rifiuto dell’Amore Originario nel quale l’essere umano era stato pensato, voluto, amato e che era fonte della stessa originaria disponibilità della natura umana, ancora integra, al dono di sé verso l’altro. Questa è la causa spirituale ed antropologica, ineliminabile senza il risanamento della ferita ontologica del cuore umano, delle asimmetrie che storicamente travagliano i rapporti umani.
Alla luce di tale presupposto spirituale, possiamo ben comprendere perché, nonostante le promesse millenaristiche di pace e felicità universale avanzate dal liberismo, il libero mercato produce inevitabilmente polarizzazioni sociali ed asimmetrie economiche, tra ceti e tra popoli. In uno scenario asimmetrico, come quello riscontrabile nelle concrete relazioni storiche tra le diverse economie nazionali, per raggiungere una convergenza di equilibrio, che il libero mercato non può assicurare, è necessario da un lato aiutare i Paesi in deficit, riducendo la loro dipendenza dall’estero, e dall’altro lato indurre i Paesi in surplus a politiche interne intese ad aumentare il reddito nazionale, attraverso maggiorazioni salariali, onde favorire le esportazioni altrui, anche se questo significa per essi un aumento dei costi dei loro prodotti sui mercati esteri.
A Bretton Woods, Keynes propose esattamente una soluzione di tal genere. Una governance sovranazionale ed un sistema di regole internazionali che agisse come una camera di compensazione e mediazione tra le economie aderenti agli accordi. Al fine di far convergere tutte le economie verso un punto mediano di equilibrio generale, ai Paesi del Terzo Mondo, onde favorirne la crescita in misura tale da renderli concorrenziali alla pari con l’Occidente, si sarebbe dovuto consentire un temporaneo e prudente protezionismo, in modo da sottrarli alla dipendenza dalle esportazioni occidentali e di innalzarne il livello di industrializzazione interna. D’altro canto, i Paesi del Primo Mondo avrebbero dovuto, fino al raggiungimento tendenziale del punto generale di convergenza, non solo abbandonare le politiche mercantiliste, ossia limitare le eccessive esportazioni verso i Paesi emergenti, ma anche favorire le esportazioni del Terzo Mondo aumentando i livelli salariali interni al fine di sostenere la domanda e quindi l’offerta dei Paesi in via di sviluppo. Era una proposta che chiedeva un graduale rovesciamento dei rapporti di forza che pendevano dalla parte dell’Occidente. Solo quando le diverse economie fossero giunte al punto di convergenza generale, sosteneva Keynes, si sarebbe potuto aprire, in condizioni di parità e di reciprocità, i rispettivi mercati ed anche i Paesi del Terzo Mondo avrebbero dovuto abbandonare il protezionismo.
La proposta di Keynes necessitava di una “governance mondiale” dell’economia le cui Istituzioni fossero dotate dei poteri, anche sanzionatori, atti a indurre sia i Paesi in deficit sia quelli in surplus ad effettuare riforme intese alla convergenza economica internazionale ossia al tendenziale equilibrio delle reciproche posizioni commerciali e finanziarie. In sostanza Keynes chiedeva l’istituzione di una Autorità mondiale che coordinasse le politiche economiche degli Stati in modo da raggiungere la simmetria che il mercato, intrinsecamente asimmetrico per natura, non è in grado di assicurare spontaneamente.
Tutto ciò presupponeva, altresì, prestiti a basso tasso di interesse in favore dei Paesi in via di sviluppo. A questo avrebbe dovuto provvedere una Banca Mondiale quale organo esecutivo di un Fondo Monetario Internazionale. La moneta di conto auspicata da Keynes, il “bancor”, sarebbe servita allo scopo. In tal modo i Paesi poveri sarebbero stati supportati da un sistema internazionale di credito sostenibile e, soprattutto, senza condizionalità ossia senza imposizione di tagli alla spesa pubblica. Quest’ultima, infatti, nella prospettiva di Keynes, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo mediante la costruzione delle infrastrutture, necessarie alla crescita, e l’edificazione di un ottimale sistema scolastico e sanitario.
Insomma, Keynes chiedeva che gli Stati occidentali praticassero un “prestare senza (quasi) nulla sperare” onde consentire la crescita protetta e tutelata del Terzo Mondo e solo dopo, a crescita conseguita, l’apertura reciproca dei mercati tra le varie aree del mondo.
Keynes, che non era marxista ma piuttosto un “conservatore intelligente”, inseguiva la sua personale “utopia umanitaria”, di segno liberale, intesa ad un Nuovo Ordine Mondiale che garantisse la parità e l’equilibrio economico tra Stati e popoli. Egli, che era anche un brillante frequentatore degli studi filosofici (del resto non si può essere buoni economisti senza essere prima buoni filosofi), invocava, quale base etica del suo progetto, ragioni di giustizia.
Il punto di debolezza del progetto keynesiano, la sua illusione “umanitaria”, stava nel prescindere da qualsiasi fondamento metafisico delle ragioni di giustizia invocate. Senza una trasformazione del cuore, che soltanto una apertura all’irruzione della Luce dall’Alto garantisce, nessun uomo è capace di «prestare senza nulla sperare» (Lc. 6, 35). Figuriamoci gli Stati o le Organizzazioni Internazionali!
L’utopia “mondialista”, a carattere umanitario, propugnata da Keynes, nell’auspicio di un universalismo impossibile a realizzarsi secondo prospettive teologicamente immanenti, ipotizzava un’Autorità sovranazionale, super partes, slegata da qualsiasi legame con questa o quella potenza, questo o quello Stato, garante dell’equità di un sistema di scambio non asimmetrico e, quindi, dell’equilibrio tra le parti, tutte egualmente assoggettandole ad un unico Centro indipendente. Era, come sappiamo, un’utopia, una illusione.
Infatti, a Bretton Woods, prevalse non quello di Keynes ma il progetto proposto da Harry Dexter White, il plenipotenziario degli Stati Uniti d’America ossia della potenza realmente vincitrice della guerra mondiale, in quel momento, ancora in corso ma nella sua fase finale. La Conferenza si concluse decretando che, invece di una unità monetaria di conto universale, la moneta base del sistema sarebbe stato il dollaro americano e tutte le transazioni commerciali come anche le compensazioni tra le bilance commerciali e finanziarie degli Stati sarebbero state computate nella divisa statunitense. Il dollaro diventava la moneta internazionale alla quale le diverse monete nazionali furono collegate in un sistema di cambi semi-flessibili dominato dalla potenza statunitense. Contro gli auspici di Keynes, fu riconfermato anche il gold standard nella nuova forma del gold exchange standard: il dollaro, moneta internazionale assurgeva a copertura di tutte le altre valute essendo esso a sua volta garantito dalle riserve auree presso la Banca centrale americana. Furono, dunque, creati, come auspicava Keynes, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale ma il loro controllo fu saldamente assicurato alle potenze occidentali ed in primo luogo agli Stati Uniti.
Cambio di paradigma. Maschera e volto del globalismo.
Keynes fu il grande sconfitto a Bretton Woods. Ciononostante, tuttavia, almeno fino a quando in Occidente prevalse l’economia di tipo keynesiano, volta a favorire la domanda e quindi la crescita economica facendo leva sull’ascesa sociale delle classi subalterne in un quadro di capitalismo sociale o socializzato – un quadro, nato tra Europa ed America a partire dagli anni ’30 (Roosevelt praticò le stesse politiche interventiste di Mussolini ed Hitler), ed andato poi in frantumi tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del secolo scorso –, le politiche del Fondo Monetario Internazionale, pur senza mettere in discussione l’Ordine Mondiale instauratosi alla fine della seconda guerra mondiale, furono indirizzate al sostegno dei Paesi Africani, ed in genere del Terzo Mondo, attraverso prestiti a tassi di interessi relativamente contenuti onde favorire l’investimento pubblico nelle infrastrutture, nella scuola, nella sanità, nella costruzione, in quei Paesi, di un moderno apparato amministrativo in modo da consolidarne gli embrionali modelli di Stato nazionale e superare l’antico e, spesso, feroce tribalismo.
Lo scenario iniziò a cambiare con la crisi che colpì i Paesi Africani negli anni ’70 quale conseguenza della crisi petrolifera che in quel momento imperversava in Occidente e che stava mettendo in discussione i parametri stessi del keynesismo facendo riemergere, in forma aggiornata, le idee liberiste. Un cambiamento che fu consacrato dal “Washington Consensus”, nome con il quale è stato chiamato il nuovo corso economico globale neoliberista.
Non si può capire cosa ha significato per il Terzo Mondo il cambio di paradigma se non si approfondisce la conoscenza, anche sotto il profilo storico, dei meccanismi dell’indebitamento dei Paesi poveri. «L’imposizione – ha scritto M. Chossudovsky – di riforme macroeconomiche e commerciali sotto la supervisione di FMI, Banca Mondiale e OMC, ha lo scopo di ricolonizzare pacificamente i paesi attraverso la deliberata manipolazione delle forze di mercato» (Bifarini, p. 50).
Dopo la seconda guerra mondiale era iniziato un processo di decolonizzazione, che spesso, come ad esempio nei Paesi di tradizione mussulmana quali Egitto, Iraq, Libia, Siria, si accompagnò a rivoluzioni politiche di tipo socialista nazionale molto vicine ai fascismi europei precedenti la guerra. La decolonizzazione su basi nazionali, come quella dei Paesi testé citati, portò a risultati di crescita notevoli, fino a quando in Occidente non si è deciso di eliminare i “cattivi dittatori”, da ultimo con le “crociate di civiltà” e le “primavere arabe”. Nasser, Saddam, Gheddafi erano, certo, dittatori ma, al contrario di quelli che piacciono all’Occidente come i Sauditi ed i Pinochet, guidavano sistemi autoritari di modernizzazione e non autoritarismi militari o dinastici di depredazione ed impoverimento dei loro stessi popoli o almeno delle classi più deboli.
Anche in Africa ed in Asia lo sviluppo post-coloniale sembrò assumere inizialmente un carattere nazionale ed autarchico che trovava nell’impostazione keynesiana, pur deformata, delle politiche del FMI un appoggio in termini di sostenibilità dell’indebitamento, senza mandare in deflazione l’economia interna. Nonostante l’egemonia riconosciuta agli Stati Uniti come Stato Guida del sistema, a Bretton Woods in un primo momento, un po’ sotto l’influsso del pensiero di Keynes, un po’ per l’interesse americano-occidentale a contendere l’egemonia mondiale all’Urss, era prevalsa comunque l’idea per la quale bisognava ridurre le distanze tra Paesi occidentali ricchi e Paesi in via di decolonizzazione. Per questo, nel cosiddetto “trentennio keynesiano” furono apprestati strumenti finanziari adeguati ovvero una finanza di credito non predatoria.
Molti credettero, in quegli anni di ottimismo – gli anni di Papa Giovanni XXIII, dei Kennedy, di Krusciov, del Concilio Vaticano II e della pop music – che il mondo fosse finalmente giunto alle soglie della Pace e della Prosperità Globale, sotto il segno filosofico di un umanitarismo “buonista” nella linea pelagiana del progressismo che si dipanava da Rousseau fino ai Beatles passando per Compte e Saint-Simon. L’ottimismo non fu incrinato, fino agli anni ’70, nemmeno dai chiari segni che stavano ad indicare quanto fosse illusoria l’attesa dell’alba radiosa dell’umanità. Né la crisi dei missili a Cuba nel 1962, né i fatti dell’Ungheria e della guerra per il canale di Suez nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968, scalfirono l’attesa millenaristica del Mondo Nuovo. In pochi si accorsero che la necessità del capitalismo post-bellico, avviatosi verso la imminente globalizzazione, di trovare nuovi sbocchi di mercato già allora iniziava a svelare il volto, per l’appunto, neo-coloniale dell’assetto dei rapporti internazionali che si stava gradualmente elaborando. Stava sorgendo un Nuovo Colonialismo senza che quasi nessuno se ne accorgesse.
«Se il colonialismo di fine Ottocento – scrive la Bifarini – era frutto del capitalismo dell’epoca, orientato alla produzione e alla soddisfazione di una domanda di mercato già esistente, il nuovo colonialismo è figlio di una forma rinnovata di … capitalismo, dove alla produzione eccessiva di beni occorre far fronte con un incremento corrispondente della domanda. Da qui l’esigenza di nuovi mercati e nuovi schiavi, che svolgano contemporaneamente una duplice funzione per il sistema economico globale: offrire risorse e manodopera sottopagate e, allo stesso tempo, divenire consumatori delle merci per la cui produzione si viene sfruttati, attraverso l’incremento dell’indebitamento e dell’accesso al credito, da restituire con gli interessi» (pp. 58-59).
La logica del neo-colonialismo, descritta dalla Bifarini, del resto è la stessa che aveva guidato anche la ricostruzione europea del dopoguerra. Il Piano Marshall non fu altro che un intervento finanziario e commerciale, di sostegno, in un’ottica geopolitica antisovietica, alle nazioni dell’Europa occidentale, mediante il quale gli Stati Uniti smaltirono il proprio surplus produttivo conseguenza dello sforzo bellico. Gli Stati Uniti, con il Piano Marshall, da un lato contennero la pressione sovietica sull’Europa occidentale e dall’altro evitarono una recessione interna.
Fino a quando gli interessi monetari sono stati sostenibili, le economie del Terzo Mondo conobbero, in un quadro di parziale autosufficienza nazionale, un miglioramento nel periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e il decennio ’70. Poi però, per una serie di fattori contingenti, mentre si spegneva l’illusione di un mondo unificato nel segno di una pianificazione economica globale, che lasciava il posto alla nuova illusione dell’unificazione mediante le forza spontanea del libero mercato, cadde ogni maschera ed il Nuovo Colonialismo si mostrò per quel che è realmente.
Una logica del tipo di quella sottesa al neocolonialismo – la logica della concorrenza universalmente benefica ossia la logica hobbesiana dell’uomo lupo congiunta alla logica smithiana dell’empathy –, infatti, non può fermarsi ad uno scenario internazionale fatto di relazioni bilaterali o plurilaterali, relativamente autarchiche, pur sotto un flessibile coordinamento unitario. Essa tende inevitabilmente allo scambio asimmetrico tra centro e periferia, e rafforza l’egemonia della potenza o delle potenze che si pongono alla guida del sistema ossia, nella vicenda del dopoguerra, gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali.
«Con l’espressione neocolonialismo – scriva ancora la Bifarini – si intende … il concretizzarsi di una nuova forma di imperialismo: è il colonialismo che emerge sotto un aspetto inedito ed ancora più pericoloso. L’espediente consiste nel dotare il nuovo Stato dell’indipendenza e allo stesso tempo continuare a sfruttarlo sotto l’aspetto economico, influenzandone le sue decisioni politiche e controllandone – o meglio inibendone – lo sviluppo sociale e culturale. E’ un colonialismo che non vuole manifestarsi in quanto tale, ma si avvale della cooperazione internazionale per condizionare indissolubilmente la situazione del paese, in modo da realizzare il predominio su di esso e perseguire la massimizzazione dei propri interessi economici» (p. 57).
Il sistema neocoloniale è, pertanto, quello che lascia una apparenza di sovranità agli Stati ma in realtà dirige dall’esterno la loro economia attraverso, in particolare, l’indebitamento, condizionandone le scelte politiche. Non è più un sistema di Stati colonizzatori ma un sistema di multinazionali le quali, a loro volta, essendo non imprese nel senso tradizionale del termine ma organizzazioni apolidi alla ricerca di immediato profitto, sono l’espressione del potere globale della finanza transnazionale che ha conquistato in forma diretta le leve del comando politico all’interno degli Stati occidentali. Si tratta dell’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI, 1931). Dietro una maschera umanitaria di ottimismo progressista si nasconde l’arcigno volto luciferino del potere globale della finanza transnazionale.
Alvaro d’Ors, un grande giurista e filosofo cattolico del novecento, ha il merito di aver messo in evidenza il carattere mimetico, nei confronti dell’Universalismo tradizionale a prospettive trascendenti, dell’universalismo umanitario mediante il quale la finanza estende globalmente il suo dominio. Egli descrivendo questo carattere di subdolo mimetismo è giunto alle stesse conclusioni della Bifarini a proposito delle modalità di azione del neocolonialismo apparentemente rispettoso delle sovranità nazionali.
«…la Chiesa – ha scritto il d’Ors – è una società santa universale, “cattolica”. Ma si può dire di più: è l’unica società universale realmente santa. Le altre società che pretendono di essere universali … finiscono, di fatto con l’essere contrarie alla volontà di Dio, e, per ciò, compiono peccato, precisamente un peccato d’orgoglio. Questo è molto grave, perché vuol dire che l’unità, per sé stessa, non è sempre buona, ma che può essere riconosciuta come dannosa,(…) A sua volta, la non-unità, che potremmo chiamare pluralismo, non è sempre biasimevole per se stessa, ma può essere voluta da Dio. (…). L’idea di uno Stato universale sembra contraria non solo alla naturalezza delle cose imposte da Dio, ma anche in quanto è utopica. Per ciò, l’ambizione ad un potere totale del mondo si prospetta oggi come il predominio di un controllo economico nascosto, mantenendo l’apparenza di un pluralismo politico universale. (…). L’unità forzata di uno Stato universale sarebbe contraria alla libertà e, per ciò, alla morale cristiana. Ma nemmeno sembra essere conforme alla volontà di Dio, poiché attenta ugualmente contro il dogma della Potestà regia di Gesù Cristo, l’unità universale che pretende conseguire il governo sinarchico … anzi, questo potere universale segreto, il cui fine è il dominio universale per il controllo economico, è essenzialmente anticristiano; presenta rischi chiaramente satanici, imitare l’unità universale della Chiesa di Cristo e nascondersi come “autorità” clandestina fingendo che i popoli siano liberi di eleggere altre “podestà”; effettivamente, la menzogna, che si manifesta nell’imitazione grottesca del divino e nel travestimento davanti agli uomini, è proprio del demonio, “padre della menzogna” e necessariamente nemico, pertanto, della verità, che è lo stesso Gesù Cristo. Come abbiamo detto, l’unica unità universale positivamente voluta da Dio è la Chiesa, e sembra conforme a questa stessa volontà il fatto che esistano diverse podestà nell’ordine politico, adattate alle differenze naturali delle nazioni: all’unità della Chiesa corrisponde la pluralità del mondo secolare, e l’unità politica del mondo secolare, in cambio, attenta sempre contro l’unità santa della Chiesa. (…). Tutta l’organizzazione politica del mondo deve partire dalla pluralità politica come qualcosa voluto da Dio, a differenza dell’unità della sua Chiesa. Tutta la pretesa di unificare il governo del mondo, sia chiaramente, in forma di Stato universale o altra forma di organizzazione con podestà unica su tutti i popoli, sia in maniera occulta a modo della Sinarchia economica, è contraria alla volontà di Dio e non merita di essere accettata come potere costituito» (Cfr. A. d’Ors, “La violenza e l’ordine”, Cosenza, 2003, pp. 105-142).
Luigi Copertino
fine prima parte
continua