Non è stata l’iper-inflazione tedesca a portare Hitler al potere. E’ stato Bruening con la deflazione”: così avverte Robert Kuttner, economista-Nobel e gran divulgatore. Fatto interessante, articoli sullo stesso tema “storico” e dello stesso tenore sono apparsi quasi simultaneamente su Economist, The Guardian, Independent, New York Times e Salon.com ., più qualche medium francese autorevole.
Chiaramente queste centrali stanno avvertendo la Commissione Europea e Berlino che il loro “malsano pregiudizio a favore dell’austerità” deve cessare, altrimenti “prospera il fascismo”. Il punto inquietante è che questi articoli sono corredati non da foto dei Gilet Gialli, ma da allusive foto di Salvini, “the far-right leader”.
L’Economist, in un articolo sulla “Germany’s hyperinflation-phobia”
https://www.economist.com/free-exchange/2013/11/15/germanys-hyperinflation-phobia
non solo esorta i tedeschi a smollare l’austerità, e spiega che il loro timore dell’inflazione è mal riposto, e che è la deflazione che devono temere. Fornisce anche con acutezza il perché l’iperinflazione – anni 1922-23 – benché rovinosa, non portò ad Hitler nessuna fortuna politica, anzi i mesi di galera seguiti al fallito Putsch della birreria di Monaco: “l’iperinflazione del ’23 ha creato nel ceto medio vincitori e vinti: quelli che mutui e debiti sono stati alleviati, quelli con risparmi li hanno persi” – e di conseguenza, i voti della classe media si sono divisi tra i vari partiti.
Per contro, “praticamente tutte le classi ci hanno perso quando il cancelliere Heinrich Bruening reagì ad un previsto deficit di bilancio e deflusso di oro nel 1930 con politiche deflazionistiche. La crisi economica che ne seguì ha danneggiato tutte le componenti della società tedesca. La disoccupazione è aumentata tra gli operai come nella classe media. Gli imprenditori sono andati in bancarotta. I dipendenti pubblici sono stati licenziati o hanno subito ripetuti tagli degli stipendi. Nel 1931, quando il sistema bancario è crollato nel 1931, hanno perso sia i creditori i loro risparmi, sia i debitori, che hanno visto i loro appartamenti e case sequestrati. Insomma, l’aver sperimentato la deflazione ha reso una vasta gamma di gruppi della società tedesca sensibili alla promessa di Hitler di vincere la disoccupazione con ogni mezzo, trasformandoli in aderenti a un movimento politico di massa, per la prima volta. Il resto è storia”.
La ricetta di Bruening è tanto simile a quella che oggi viene imposta della UE per volontà germanica, che vale la pena di raccontarla meglio. Il vostro cronista l’ha fatto in Schiavi delle Banche, citando ampiamente il giornalista ebreo-tedesco Bruno Heilig, che poi dovette fuggire dalla Germania.
Finita l’iper-inflazione, la Germania fu inondata di capitali americani, sovrabbondanti (gli Usa durante la grande guerra erano stai i fornitori dello sforzo bellico alleato, e pagati in oro) in cerca di rendimenti: nel 1926 il denaro che in America era pagato il 4%, in Germania fruttava l’8%. In più, cacciato il Kaiser, il paese era diventato il paradiso del “mercato” e della “democrazia” (folleggiava Weimar) e la impareggiabile manodopera tedesca costava poco. E nell’economia globalizzata, i bassi salari stimolano investimenti industriali. Alimentata dai capitali finanziari roventi Usa, il complesso industriale tedesco si rinnovò: “La Germania era aviata a diventare il più avanzato paese industriale del mondo. La sete di manodopera risucchiò milioni di uomini nelle città. Berlino passò da2 a 6 milioni e mezzo di abitanti”, scrive Heilig. Ovviamente, case e terreni rincararono (anche del 700 per cento a Berlino) e di conseguenza rincararono gli affitti operai. Il grande boom durò 7 anni. Poi la crisi del 1929: i capitali americani scomparvero, risucchiati in patria. Alle imprese tedesche rimasero da pagare “i costi incomprimibili”: il servizio del debito per l’acquisto degli impianti, terreni ed immobili rincarati.
E’ il deficit che Heinrich Bruening (un cattolico, fra l’altro), eletto cancelliere nel marzo 1930 curò, secondo i dettami del liberismo di mercato, tagliando la spesa che i mercati ritengono a cuor leggero comprimibile: i salari. “Ogni segno di crisi fu scongiurato comprimendo i salari e licenziando lavoratori”. Il risparmio sui salari fu usato nell’acquisto di macchinari sempre più efficienti: la corsa alla “razionalizzazione” e alla “maggior produttività” dettata dal liberismo globale anche oggi. Risultato prevedibile e mai previsto dal liberismo dogmatico: le merci sempre più abbondanti non trovano compratori perché i consumatori, da lavoratori, sono diventati disoccupati o hanno perso potere d’acquisto. Poiché ciò viene chiamato “sovrapproduzione” nella dogmatica liberista, gli imprenditori tedeschi, nel 1931, nel tentativo disperato di sostenere i prezzi (che calavano), ridussero la produzione di merci. Ma con ciò, scrive Heilig, “gli interessi sui debiti, le tasse, gli ammortamenti e gli affitti, divisi su un volume minore di beni, aumentarono il costo unitario di ogni bene. Il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti calanti, fino a divorarli”.
Allora “gli operai furono licenziati in massa”, aggravando la crisi: “per ogni lavoratore licenziato, era un consumatore che spariva”.
Nel corso del 1931 parecchi industriali non furono più in grado di pagare i debiti, perché i profitti erano erosi. “i cosiddetti costi incomprimibili, divenuti insopportabili, cessarono di essere pagati”. Con l’insolvenza dei debitori, presero a fallire le banche.
A questo punto cosa fece Bruening, allievo modello del capitalismo liberista? 1) spese miliardi pubblici per salvare le banche (come farà prossimamente la Merkel per Deutsche Bank) 2) accordò amplissimi sussidi alle imprese in difficoltà.
Come si vede, anche allora – come oggi – il liberismo non si applica quando si profila la rovina del capitale e dei capitalisti: allora essi pretendono ed ottengono che “la mano visibile dello Stato” li salvi dalla “mano invisibile del mercato”. Coi soldi dei contribuenti.
Bruening fece una terza cosa: “decretò una riduzione generale dei salari, che furono tagliati del 15%”. Il tragico è che chiamò questa “politica anti-deflazionista”, mentre ne era il contrario. La sua idea era che, riducendo il potere d’acquisto dei lavoratori, ciò avrebbe indotto una successiva riduzione dei prezzi.
E’ la stessa “idea” che coltiva Mario Monti e che ci è imposta oggi dalla UE: – la “cura Monti” (che ha fatto aumentare il debito invece di diminuirlo), “l’austerità fa crescere”, “chi ha troppo debito deve ridurlo”, e “niente deficit”. Il risultato è il contrario di quello predetto.
Anche allora, la riduzione in miseria di classi intere parve un prezzo accettabile. Alla fine del 1931 “sette milioni di salariati un terzo della forza produttiva, era disoccupato; la classe media spazzata via”. I deputati nazisti eletti al Reichstag passarono da 8 a 107. Nel ’33 il cancelliere si chiamava Hitler e come abbiamo già raccontato, già sei mesi dopo i disoccupati erano dimezzati …
Solo nel 1944 l’ungherese Karl Polanyi spiegava che le popolazioni europee avevano accettato i fascismi perché le tensioni che genera nella società un sistema di mercato che pretende di “autoregolarsi” e rigetta ogni regolamentazione della politica, sono sostanzialmente anti-umane. L’utopia liberista ha creato un mercato del lavoro e quindi dell’uomo, della terra (ossia della natura), della moneta – che sono altrettanti progetti distruttori della società e generano contraddizioni insolubili.
Possono applicarsi perfettamente a Macron, alla Merkel, a Monti come agli oligarchi europeisti le parole di Polanyi riferite agli anni ‘30:
“L’ostinazione con cui per ben dieci anni i tenutari del liberismo economico avevano sostenuto autoritariamente le politiche deflazioniste ha avuto per conseguenza pura e semplice un indebolimento delle forze democratiche che, senza ciò, avrebbero potuto scongiurare la catastrofe fascista”.
Altri passi che colgo nei vari numerosi articoli sullo stesso tema: “La lezione di Polanyi: la democrazia non può sopravvivere a un mercato eccessivamente libero; e contenere il mercato è compito della politica. Chi lo ignora, attira il fascismo”.
“Pensatori come Hannah Arendt, Karl Polanyi e molti alti ci hanno ripetutamente avvertito che il fascismo è diretta conseguenza della subordinazione dei bisogni umani alle esigenze del mercato”.
https://salon.thefamily.co/brexit-doom-or-europes-polanyi-moment-3e97269e6b67
“Il confronto tra la politica di Macron oggi e quella degli anni ’30, analizzata da Karl Polanyi, colpisce. Leggete “Gilet Gialli, Camicie nere e bandiere rosse su Mediapart”.
Tutte cose dette benissimo. Solo che sono sempre corredate da foto di Salvini. Come incarnazione del fascismo che la democrazia deve “scongiurare” anche a prezzo di attenuare il liberismo di mercato?
Attenzione: Markus Walker, Wall Street Journal (è il capo redattore per l’Europa meridionale e ci conosce bene) attribuisce alla UE, nello scontro insensato contro il governo italiano, una strategia: “mettere alla prova il rapporto Salvini di Maio oltre il limite. Se si arrivasse ad elezioni anticipate, la UE ritiene che un governo di destra guidato da Salvini sia più facile da affrontare”. Più facile bollare di “fascista” tale governo e demonizzarlo. Atti di questa propaganda sono già visibili sui media stranieri.
Has Italy caved in? Not so fast.
The Rome-vs-EU chicken game is turning into a pushing match, or rather two – Rome/EU & within Rome – with Salvini at the center. (Thread)https://t.co/bZMpUJDcqo via @WSJ— Marcus Walker (@MMQWalker) December 13, 2018
Vedremo.
Per completezza, riporto un “diverso parere” sulla diagnosi “causa capitalismo, sta tornando il fascismo” da parte di Khartika Sankara, un economista e geopolitico docente dell’Università di Singapore, che mi sembra molto acuto:
“Oggi le divisioni economico-sociali sono diverse da quelle degli anni ’30. Allora, il capitale favorì i movimenti di massa ipernazionalisti perché si sentiva minacciato dal socialismo o comunismo. Oggi, il capitale più avanzato è cambiato tanto, che sente la sua attività più minacciata da una destra ipernazionalista”.