di Andrea Cavalleri
(MB. Lo posto al posto d’onore perché avrei voluto scriverlo io. Mette utili puntini sulle i nel dibattito attuale)
Il dibattito politico attuale ha riportato agli onori delle cronache dei temi che ebbero grande impatto nel secolo scorso e che si credettero risolti a causa dell’evidenza, dopo l’esito catastrofico della seconda guerra mondiale.
In realtà questi temi, cioè quelli delle identità collettive, quelli delle razze umane e quelli del loro eventuale legame, furono più che altro accantonati dalle sedi di riflessione sensata e qualificata, per venire relegati nell’ambito del luogo comune e del “politicamente corretto”.
La confusione che si è generata, che è quella che si produce sempre quando una discussione viene trasferita dalle università alle osterie, non giova certo né al livello del dibattito politico, sollecitato da fenomeni vasti e dolorosi come le ondate migratorie, e neppure all’ordine pubblico, dove si registrano reazioni scomposte che derivano spesso dall’incapacità di inquadrare i problemi o dalla presunzione di poterli ignorare.
Per queste ragioni vorrei fare un tentativo di esporre ordinatamente i termini della questione, sperando di fornire elementi utili a un approccio sereno e razionale a queste tematiche.
Parole imprecise
Per prima cosa vorrei far notare che i termini stessi di “razza umana” e di “identità nazionale” designano delle realtà fluide.
I popoli infatti non sono delle realtà chiuse e immutabili, ma si modificano nel tempo sia per interscambio con l’esterno sia per possibili variazioni interne.
Inoltre ogni razza umana si manifesta in un ventaglio di esemplari che assommano caratteristiche comuni ad altre più specificamente individuali, pertanto il concetto di razza umana può essere presentato solo dal punto di vista statistico come una curva a campana i cui confini sono decisamente sfumati (per tutta una serie di esemplari esistono dei problemi a decidere se appartengono a una razza o a un’altra).
Simmetricamente, e in modo ancora più evidente, la questione identitaria non può essere racchiusa entro parametri univoci e ristretti, perché riguarda la cultura.
Già la difficoltà di definire semanticamente la parola “cultura” dovrebbe mettere sull’avviso che il territorio dell’identità culturale è un campo minato.
Purtuttavia, con tutte le riserve del caso, bisogna ammettere che le identità culturali esistono, non fosse altro perché, nella realtà, vasti gruppi di persone afferiscono a un substrato comune fondato sulla stessa lingua e sul deposito tradizionale da essa portato.
In secondo luogo perché questi ampi gruppi si riconoscono in uno stile peculiare di convivenza, stile coerente con le leggi espresse dalla giurisprudenza di quella comunità.
Ecco quindi che, per ovviare alle lacune di precisione nel descrivere la realtà, nel tempo è stato adottato il termine etnia, volutamente più complesso e più sfumato rispetto ai termini di razza, stirpe, e simili.
La questione della razza.
Se delle due questioni cominciamo a esaminare quella materiale e quindi più semplice, la razza, il riferimento obbligato è quello delle classificazioni biologiche.
Il primo rilievo da fare è che la razza non è compresa tra le categorie tassonomiche (dominio, regno, phylum, classe, ordine, famiglia, genere, specie), ma è soltanto una sottocategoria di comodo.
La categoria più ristretta, in base a criteri oggettivi (la fertilità della prole) è la specie, mentre la razza va a designare dei sottoinsiemi della specie, generalmente riferiti ad animali domestici, creati artificialmente dall’uomo tramite incroci.
Tra il XVI e il XIX sec. Il termine fu abbastanza in auge, ma le risultanze degli studi indussero il Congresso Botanico Internazionale a eliminare il valore tassonomico della razza nel 1905.
La razza è dunque un termine tuttora usato in zootecnia ma non in zoologia.
Due criteri particolarmente significativi per le classificazioni dei viventi sono il genotipo e il fenotipo.
Il genotipo consiste nell’insieme delle caratteristiche genetiche “scritte” nel DNA di un individuo, mentre il fenotipo è l’insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un organismo vivente, che comprendono l’aspetto fisico e il comportamento.
Il genotipo è un corredo genetico dato e immutabile, il fenotipo dipende invece da più fattori quali il suo genotipo, le interazioni fra geni e anche eventi esterni: per queste ragioni può variare.
Ora non può sfuggire che nel regno animale il genotipo e il fenotipo hanno un legame strettissimo, come dire che l’aspetto fisico, grazie a cui si riconosce ad esempio una pecora, è inscindibilmente legato a un comportamento da pecora.
Esistono degli esperimenti condotti su animali allevati in cattività, che hanno mostrato come, una volta liberato, l’animale mettesse in atto comportamenti che non aveva mai praticato né visto praticare, tipici della sua specie.
Un caso spettacolare è quello del capovaccaio, un piccolo avvoltoio africano, capace di usare pietre come utensili. Infatti il volatile per cibarsi di uova di struzzo prende sassi col becco e facendo oscillare il collo li scaglia ripetutamente sull’uovo fino a romperlo.
Ebbene avvoltoi d’allevamento, nutriti dall’uomo, e quindi non addestrati dalla madre né da precedenti esperienze, di fronte a uova di struzzo hanno cominciato a scagliare pietre col becco.
Simili fatti suggeriscono che il comportamento animale sia determinato da un protocollo dato, comune alla specie, il che porta a concludere che sia inscritto nel suo patrimonio genetico.
Forse per abitudine o riflesso condizionato, non manca mai qualcuno che tende ad applicare anche all’uomo i criteri di classificazione degli animali, associando l’aspetto al comportamento.
Ma trattare in questo modo della specie umana significa omettere totalmente la sua caratteristica più vistosa, cioè la sua capacità di adattarsi all’ambiente attraverso l’apprendimento.
E tutta la psicologia e la pedagogia moderna hanno mostrato in modo evidentissimo che non solo l’uomo apprende, ma impara ad imparare, elaborando tecniche, strategie e forgiando strumenti che potenziano indicibilmente questa sua capacità.
Del resto già gli scienziati di 2400 anni fa, cioè i filosofi greci, sapevano benissimo che l’uomo è libero, esplicando questa sua dote con la capacità di agire morale, non vincolato agli istinti in modo meccanico, neppure a quello di autoconservazione.
Il razzismo.
Fin dall’antichità sono esistiti gruppi umani che definivano se stessi superiori, o gli altri inferiori.
La domanda importante, a questo proposito, è: “da dove provengono queste convinzioni?”
Le ipotesi più ricorrenti suggeriscono che questi atteggiamenti derivino da superstizione, ignoranza, credenze religiose o riluttanza a giudicare equamente se stessi.
E’ possibile che ognuna di queste cause contribuisca all’insorgere del razzismo, ma l’elemento costante, che si riscontra in tutti le grandi manifestazioni razziste, è di natura politica ed è un conflitto, tipicamente una guerra di conquista.
Un esempio molto importante è quello dell’India delle caste. Lo status di fuori casta (considerato inferiore e che confina i membri a una condizione di miserevole servitù) è infatti riservato alla popolazione di colore.
La religione indiana tuttavia non presenta questioni di questo tipo, anzi taluni dei si presentano nelle loro apparizioni con la pelle colorata di blu o di nero; come Krishna rappresentato blu scuro, o Kali, sovente dipinta di nero.
La contrapposizione indiana dei gruppi (casta e fuori-casta) nasce invece dall’invasione ariana dell’India, avvenuta in varie ondate nel II millennio avanti Cristo, iniziata probabilmente come migrazione di gruppi nomadi e sfociata in una totale dominazione degli Ariani sui nativi dalla pelle scura.
Accadde quindi che il gruppo dominante, per consolidare il proprio potere, impose delle restrizioni religiose ai vinti, in un percorso che nasceva dalla politica e strumentalizzava alcuni aspetti religiosi per opportunismo e non, viceversa, una convinzione religiosa che sfociasse nell’azione politica.
Un altro esempio importante, che come quello indiano sopravvive oggi, è quello ebraico in cui, a parte la contrapposizione tra ebrei (superiori) e resto del mondo (inferiore), si registra una dichiarata avversione per la popolazione di colore (che comprende gli stessi ebrei, come i Falasha dell’Eritrea), giustificandola con la “maledizione di Canaan, figlio di Cam”.
In effetti il suprematismo universale ebraico è contraddetto dalla Bibbia: ad esempio in Deuteronomio 7, 7-8 (Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – ma perché il Signore vi ama…) dove Dio dichiara di amare ciò che è piccolo agli occhi del mondo e non superiore. Oppure in Deuteronomio 23,9 in cui si detta la norma per accettare gli stranieri nel popolo a pieno titolo (i figli che nasceranno da loro alla terza generazione potranno entrare nella comunità del Signore), mostrando così che, secondo la Bibbia, si è ebrei per obbedienza a Dio e non (solo) per nascita.
Ma ben più interessante è il caso dello specifico razzismo verso i negri.
Una rapida ricerca sulla Bibbia digitalizzata mostra che il termine “pelle scura” non compare mai in tutte le scritture, mentre l’allocuzione “pelle nera” si registra un’unica volta nella descrizione della patologia di Giobbe (la mia pelle è nera e cade a pezzi).
Dunque in base a quale indicazione si può concludere che Cam o suo figlio avessero un colore diverso dai fratelli e cugini? Le leggi di Mendel lo escludono categoricamente.
Se invece che ricercare nell’ambito religioso, ci rivolgiamo un attimo alla politica, scopriamo che per alcuni secoli gli Israeliti furono in guerra quasi permanente con i Cananei (dal nome presunti discendenti di Canaan), con dispute di carattere territoriale.
E’ quindi estremamente probabile che anche in questo caso la religione sia stata strumentalizzata dalla classe dirigente per disumanizzare il nemico e giustificare l’oppressione del vinto, piuttosto che il contrario, cioè che il nemico fosse odiato perché maledetto da Dio.
Esistono anche rescritti rabbinici moderni che descrivono la pelle nera come “difetto” legato alla maledizione di Cam (vedi ad esempio qui https://www.andreacarancini.it/2016/08/gilad-atzmon-giudaismo-e-pelle-nera/) che possono al massimo servire per una disputa sul fatto se siano meno intelligenti i rabbini ebrei o i bramini indiani, ma nulla di più.
E’ anche molto eloquente il caso del Rwanda-Burundi in cui è avvenuta una tragica guerra di sterminio a presunta base razziale.
In realtà i tratti somatici di Hutu e Tutsi sono difficilmente distinguibili e non esistono neppure le tipiche barriere che contraddistinguono le tribù che aspirano ad assurgere a razza dominante, come il divieto dei matrimoni misti, i freni alla mobilità sociale o le restrizioni migratorie.
In realtà i Tutsi, nel tradizionale regno del Burundi, erano suddivisi in due sottoclassi, una delle quali costituiva l’aristocrazia (questa sì separata dal popolo) mentre l’altra viveva al pari degli Hutu.
La pretesa separazione razziale fu un portato della colonizzazione belga del 1916 che, in forza dei pregiudizi dell’epoca, vide nei Tutsi una popolazione superiore, adatta alla guida politica degli Hutu (insomma li nominarono caporali degli schiavisti), attirando su di loro i risentimenti della popolazione oppressa.
Anche in questo caso il cosiddetto razzismo fu un prodotto politico, interpretato su presunta base razziale dall’esterno e a volte persino istillato nelle menti dei protagonisti, sempre dall’esterno.
Eugenetica, materialismo, razza.
Abbiamo accennato che il concetto di razza decadde dalla scienza al sorgere del 1900, tuttavia nel XX sec. si sono prodotti vistosi fenomeni di razzismo.
Questo fatto non è una pura contraddizione, perché a lato del “ordinamento delle razze” in superiori e inferiori, insorse il fenomeno del “perfezionamento delle nazioni”, che ebbe nefaste conseguenze.
Tutto ebbe inizio quando il biologo e Presidente della Stanford University, David Starr Jordan, nel 1902 scrisse la lettera aperta “Blood of a Nation”, in cui il professore dichiarava che le qualità umane e le condizioni di vita, come il talento e la povertà, si trasmettessero attraverso il sangue, ovvero fossero ereditarie.
Queste affermazioni, indimostrate, indimostrabili e perciò tutt’altro che scientifiche, fecero presa sulla mentalità anglosassone dell’epoca, predisposta dall’humus religioso calvinista che separa drasticamente le persone in base al concetto di predestinazione.
Le conseguenze non si limitarono alle chiacchiere nei salotti degli intellettuali, né ad un movimento di opinione, ma fecero irruzione nella realtà sociopolitica, con leggi che imponevano la sterilizzazione forzata dei disabili, il divieto di matrimonio, la segregazione in colonie e, in molti casi, probabilmente, poiché la cosa fu tenuta segreta, anche la morte.
Il programma fu avviato negli Stati Uniti, in cui 27 stati promulgarono simili leggi persecutorie dei minorati con l’avallo di due giudici della Corte Suprema (Holmes e Brandeis). In particolare il giudice Oliver Wendell Holmes giunse a scrivere: E’ meglio per tutto il mondo, se invece di aspettare di condannare la prole degenerata per atti criminosi, o di lasciarla morire di fame per la loro imbecillità, la società possa evitare che coloro che siano manifestamente inadatti perpetuino la loro specie. . . Tre generazioni di imbecilli sono sufficienti.
Il programma eugenetico sbocciato in America ottenne l’appoggio entusiasta delle grandi organizzazioni “filantropiche”, quali la Carnegie Institution, la Fondazione Rockefeller e la Harriman Railroad Fortune, che non si limitarono a finanziare i programmi di pulizia genetica in casa propria, ma fecero ingenti donazioni all’estero, in particolare in Germania.
Grazie ai dollari dei Rockefeller furono fondati l’Istituto di Psichiatria Kaiser Wilhelm di Ernst Rüdin, e l’Istituto per l’Antropologia, l’Ereditarietà genetica ed Eugenetica di Otmar Freiherr von Verschuer, il cui assistente era un certo Josef Mengele.
Questi centri divennero il motore principale della repressione medica nazista; del resto Hitler era tutt’altro che ignaro della provenienza di tali correnti di pensiero, dato che nel “Mein Kampf”, pubblicato nel lontano 1924, Hitler citò l’ideologia eugenetica americana, mostrandone una conoscenza approfondita e ammirata.
Dunque, alla contrapposizione di razze, reputate superiori e inferiori, si sostituì l’aspirazione alla purificazione e all’elevazione qualitativa intra-razziale.
È evidente che il perno di tutte queste teorie è la convinzione (che sarebbe meglio definire pregiudizio) che il comportamento delle persone umane dipenda solo dalla loro costituzione materiale. Ammettere l’esistenza di un’anima immortale, infatti, non solo attribuirebbe un valore intrinseco alla vita umana, ma renderebbe inutile e insulso l’accanimento contro i corpi malati.
Quindi le basi del pensiero eugenetico e in buona parte anche di quello razzista risiedono in un pensiero esplicitamente o implicitamente materialista.
Potrebbe far sorridere il fatto che due professori attuali, Harry Ostrer e Raphael Falk, spendano il loro tempo (e i soldi dei finanziatori) ricercando “il gene dell’ebraicità”, ma la cosa si spiega benissimo alla luce della mia tesi sopra esposta, cioè che il razzismo proceda dal bisogno di giustificare una situazione politica.
Infatti l’odierno Stato di Israele, nato artificialmente e conflittualmente nel 1948, è in continuo contenzioso territoriale sia all’interno (con la popolazione palestinese) sia all’esterno (con la Siria e altri vicini) e ha continuo bisogno di motivare la propria popolazione a vivere in una situazione di tensione belligerante perpetua, convincendola col fatto che “ha ragione”, in base a qualunque pretesto, anche (pseudo) scientifico.
Ecco dunque che le ricerche sul “genoma ebraico” servirebbero a stabilire un legame tra un popolo e una terra di cui si rivendica la proprietà.
Ci si potrebbe chiedere però quale radice abbia il razzismo “ab intra” di stampo eugenetico, dato che non può essere una guerra di conquista.
Si tratta della trasposizione di un modello, replicandolo dal contesto nazionale al contesto cosmopolita.
Nel modello di supremazia nazionale ed etnica, la razza è presa a pretesto per giustificare il dominio di una nazione su altre, nel modello cosmopolita la “superiorità genetica” è usata come pretesto per giustificare il dominio di una élite (intellettuale, di potere e di censo) sulle masse.
In entrambi i casi l’atto del dominare esclude chi è considerato inferiore e non si propone di integrarlo; infatti l’elitarismo cosmopolita è tipicamente malthusiano.
Talvolta, come nel caso del nazionalsocialismo germanico, razzismo ed eugenetica si sono infelicemente sposati: la purezza della razza doveva essere preservata dalle “infezioni esterne”, col risultato di praticare persecuzioni ab intra e ab extra.
La premessa coerente doveva essere una weltanschauung materialista. In effetti, sulla base di simpatie esoteriche e neopagane facilmente manipolabili dal potere, il nazismo praticò una dura repressione religiosa, portando avanti una crociata contro i concetti di divinità trascendente e di anima immortale.
Identità culturale.
Ho scritto sopra che questo concetto è difficilmente definibile, ma non per questo se ne può negare l’esistenza.
Il primo elemento fondamentale che contraddistingue le nazioni è la lingua.
E una lingua diversa non significa solo avere un dizionario e una grammatica differenti: se così fosse le traduzioni sarebbero semplicissime; invece nell’era in cui il programma per computer Mathematica inventa raffinate dimostrazioni e risolve i problemi algebrici più complessi, i migliori traduttori informatici si comportano peggio di parecchi scolari di terza media.
Il fatto è che la lingua è il mezzo con cui ci rappresentiamo la realtà, con cui ragioniamo, con cui esprimiamo i sentimenti, compresi quelli sacri, con cui manifestiamo il senso del vero del giusto e del bello. E ogni lingua favorisce un approccio peculiare a tutte queste cose, approccio che è quasi un orientamento metafisico.
Perché la lingua è un complesso organico che porta inscritto in sé delle strategie espressive e queste strategie sono come dei sentieri predisposti per esprimersi (e quindi ragionare) in un certo modo piuttosto che in un altro.
Se è importante il meccanismo del linguaggio, altrettanto fondamentale è il repertorio prodotto in ogni singola lingua.
Talvolta penso alla mia fortuna di essere italiano, per cui, per studiare la mia lingua, mi sono dovuto accostare a Dante, Petrarca, Ariosto, Machiavelli… se invece, per caso, fossi nato in Portogallo, per la mia formazione mi sarei dovuto accontentare del modestissimo Luis de Camoes.
La lingua dunque è il più forte elemento identitario collettivo, perché accomuna gli esseri umani nella loro capacità di relazione (che secondo Aristotele è la differenza specifica che li distingue dagli animali) e ne orienta, almeno in parte, l’approccio alla realtà e quindi la visione del mondo.
È probabile che chi parla una lingua indoeuropea non ragioni allo stesso modo di chi parla una lingua sassone.
Potenza del linguaggio.
Per sottolineare quanto appena detto, vorrei portare un esempio evidente e macroscopico di come il linguaggio possa costringere il ragionamento entro binari preordinati: si tratta del pensiero “politicamente corretto”, che si basa non tanto su concetti, quanto sulle parole.
Senza voler esprimere giudizi nel merito delle questioni accennate, ma solo per mostrare il meccanismo di modificazione o deformazione concettuale che può essere operato dalle parole, citerò ora alcuni casi conosciuti che illustrano il funzionamento del processo di ingabbiamento del pensiero in base ai termini linguistici.
Il caso più semplice è quello del neologismo, una singola parola, capace però di orientare la discussione.
Consideriamo il termine omofobo, questo sostantivo alla lettera significa “che teme o che odia l’uguale”.
Applicato alla sfera sessuale esprime la naturale repulsione che la stragrande maggioranza delle persone prova nell’approccio carnale con persone dello stesso genere, maschile o femminile che sia. Tuttavia il termine è stato coniato con un’accezione negativa (anche l’assonanza col termine idrofobo sembra ben studiata) per indicare un odio o avversione irrazionale che le persone normali (mi si passi il termine statisticamente ineccepibile) proverebbero verso gli omosessuali.
Il fatto interessante è che coloro che invocano la massima libertà dei costumi, quindi la libertà di schifare i rapporti eterosessuali per darsi a quelli sodomitici, accusano di odio coloro che praticano i rapporti normali schifando quelli omosessuali, cioè che esercitano lo stesso tipo di libertà dai primi invocata.
La logica non accetterebbe mai una simile sproporzione di trattamento, l’uso della parola sì.
Un secondo caso di manipolazione del pensiero attraverso il linguaggio avviene legando inscindibilmente un termine a un altro.
Prendiamo il binomio, largamente utilizzato, neonazista negatore dell’olocausto.
Il nazismo ha predicato e praticato la persecuzione antiebraica e una delle massime accuse mosse al regime di Hitler è proprio quella di aver teorizzato l’odio razziale.
Quindi per un nazista di ieri o di oggi (neonazista) l’olocausto dovrebbe rappresentare il massimo successo della sua ideologia e dovrebbe essere un risultato di cui va orgoglioso.
La logica quindi esclude che un negatore dell’olocausto, soprattutto in mala fede, possa essere nazista: equivarrebbe a un aristocratico inglese che, mentendo sapendo di mentire, negasse la vittoria di Waterloo.
Ma ciò che è impossibile alla logica l’eloquio lo permette.
Un terzo caso è quello della parola proibita.
L’esempio calzante si trova nel campo dell’informazione: se un giornalista in un dibattito facesse un elogio della Cassa del Mezzogiorno e si chiamasse Mancuso, verrebbe naturale ai suoi critici osservare che parla pro domo sua, in conflitto di interessi e con una chiara predilezione per i suoi compaesani.
Ma se il giornalista si chiamasse Venezia e facesse un elogio della politica di Israele, l’osservazione, del tutto innocente ed evidente, che parla a favore dei suoi compaesani non si può fare, perché sarebbe necessario pronunciare la parola proibita ebreo.
E chiunque in un simile contesto osasse proferire il termine interdetto subirebbe le accuse infamanti di razzismo, antisemitismo e sarebbe sottoposto a vessazione ed ostracismo professionali ed infine alla damnatio memoriae.
In questo caso l’eliminazione di una parola esclude la possibilità di certe argomentazioni che di tale parola si dovrebbero avvalere (nell’esempio in questione risulta impossibile parlare di lobby ebraiche).
Questo fenomeno del politicamente corretto è stato perfettamente descritto nella sua globalità dal filosofo Emanuele Samek Lodovici, oltre quarant’anni fa: “Se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole”.
Il diritto.
La legge di uno Stato, comunque la si voglia vedere, esprime, tra le altre cose, quelli che sono i corretti rapporti tra i cittadini; e lo fa in modo forte, proibendo quelli considerati scorretti, appoggiandosi a un apparato di repressione che possa trasformare la teoria in realtà con l’uso della forza, se serve.
La legge, per questa sua caratteristica di influire sul comportamento delle persone, fa cultura, in quanto contribuisce a plasmare la sensibilità etica della gente, la sua percezione di ciò che è giusto o ingiusto, creando mentalità.
E in base alla mentalità supportata dalla legge, non solo si influenzano i comportamenti obbligatori (vincolati con precisione dalle norme giuridiche) ma anche molti di quelli volontari, che aderiscono per coerenza con lo spirito della legge, oltre lo stretto dettato della lettera.
L’influsso culturale della legge è però differente a seconda della genesi del diritto.
Dobbiamo prima di tutto separare i due grandi filoni della giurisprudenza, ovvero quella che si basa su principi esterni (di solito religiosi) da quella che legifera per autorità sua propria.
La fonte esterna della giurisprudenza è la legge naturale.
Essa può essere considerata conoscibile per sola rivelazione divina (come nell’islam e nell’ebraismo veterotestamentario), o dalla ragione (vedi gli stoici antichi o i giusnaturalisti del 1600, come Grozio e Locke), o da entrambe le fonti, (come per i Padri della Chiesa).
Anche il diritto positivo deve essere suddiviso in due sottocasi: quello prodotto da una élite che, in base a un’etica utilitaristica, cerca di perseguire i vantaggi più vasti per tutti, e quello dei “notai” che si limitano a trascrivere le voglie della maggioranza (con le varianti del legislatore che persegue il proprio interesse personale, quello delle lobby etc), rinunziando totalmente a un giudizio sul valore della legge stessa.
E tuttavia, volenti o nolenti, per ognuno dei casi esposti, la tradizione legislativa ha un influsso sul sentire comune, sulla concezione della convivenza civile e quindi nello stile di vita dei cittadini che contribuisce a determinare l’identità nazionale.
I tre modelli storici delle identità nazionali.
In base alla concezione della legge, si sono sviluppati nella storia diversi tipi di aggregati nazionali di cui illustrerò tre casi esemplari.
1) Il primo è la monarchia di diritto divino.
Dal suono delle parole si è portati a pensare che la divinità conferisse il diritto a un prescelto e ai suoi eredi di regnare e, per questa ragione, il monarca potesse esercitare un dominio assoluto sulla nazione.
In realtà il significato del termine è opposto, e cioè che, stabilito come assoluto il diritto divino, il re veniva incoronato quale garante di tale diritto;
Ci si può chiedere quale fosse considerato sulla terra il “diritto di Dio”: ebbene il primo diritto era il riconoscere che le cose sono quel che sono (come le ha create Lui) con il loro valore e la loro funzione. Il che equivale a riconoscere un codice di istruzioni su come deve comportarsi l’uomo nel creato, che è la legge naturale.
Il monarca del Sacro Romano Impero, si faceva dunque difensore della legge naturale e anche di quella della fede (tant’è che il braccio secolare puniva anche i reati religiosi), nonché di tutti coloro che stavano sotto la protezione di Dio, come gli orfani, le vedove, i pazzi, i deboli, gli indigenti e, naturalmente, il clero.
Solo su aspetti accidentali il re poteva legiferare secondo le proprie voglie.
Nella tripartizione della società in oratores, bellatores e laboratores, ciascuno era conscio del proprio compito, con la percezione di concorrere a uno scopo comune. E le cattedrali, sorte come funghi nel basso medioevo, stanno lì a dimostrare come un popolo libero ma motivato potesse produrre lo sforzo titanico necessario alla loro edificazione.
Il simbolo che che ha riassunto gli ideali della monarchia di diritto divino e che riluceva agli occhi del popolo quale esempio, ambizione e stimolo al miglioramento personale, fu quello del cavaliere.
Il primo compito del cavaliere consisteva nella difesa dei deboli, compito che richiedeva integrità morale, lealtà verso il proprio signore (ma anche verso il nemico) e valore militare.
Il cavaliere svolgeva il compito consapevole di tutelare e mantenere quello che era considerato un cosmo ordinato e denso di significato, per cui i suoi sforzi e sacrifici erano giustificati da un ideale più vasto di sé che lo trascendeva e lo motivava; la sua ambizione precipua era quella di concorrere in modo significativo all’edificazione di tale cosmo ordinato, di quel sacro regno da tutta la società promosso e auspicato.
2) Il secondo modello di identità collettiva fu quello dello Stato nazionale.
Non può sfuggire che l’autodeterminazione dei popoli costituisca un passaggio da ciò che prima si accettava come dato, prodotto dalla nascita e pacificamente accettato, all’espressione di una volontà.
E, passaggio ancora più significativo, nello Stato nazionale la sovranità non è più di Dio e amministrata dal re per suo conto, ma appartiene al popolo, che dunque risponde solo a se stesso.
È ironico che lo Zar fosse ripetutamente accusato di essere un’autocrate, quando governava “per grazia di Dio”, come ripeteva inascoltato il conte Malynski, e quindi rispettava un criterio esterno a sé (la legge naturale e la legge di Dio).
Mentre la repubblica si governava in base alle utopie dei suoi capi, malamente mascherate dai neologismi di “volontà generale” o “riscossa del proletariato”, che significavano una cosa sola: che non dovevano rispondere a nessuno. Chi fu l’autocrate fra i due?
Il concetto di Stato nazionale, affermandosi, sancì la definitiva vittoria del diritto positivo.
Questo, abbandonando il concetto di intelligibilità del cosmo da cui se ne potevano dedurre le leggi anche sul piano morale e sociale, si avvicinava più a una contrattazione (sulla scia di Locke) tra il popolo e i governanti che dovevano garantirne i diritti, il benessere, il perseguimento degli ideali.
Ma proprio le finalità dell’azione di governo risultano la sfera più nebulosa dell’universo repubblicano, che, perse le linee guida della religione (che fu immancabilmente perseguitata), dovette adottare degli ideali laici alternativi, come ad esempio il mito del progresso.
Non è un caso che il più importante leader populista del secolo scorso proclamasse: se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, laddove la direzione dell’avanzamento non era però data da un criterio universale e perenne, ma dalle circostanze storiche, transeunti, mutevoli, potenzialmente cangianti persino nei propri opposti.
Il simbolo dell’identità collettiva nazionale è quello dell’eroe, considerato tale non per le sue virtù e per la sua fedeltà ai valori condivisi, ma per l’eccezionalità dell’atto con cui dona lustro alla Patria.
Il passaggio dal cavaliere all’eroe segna quindi il passaggio dal criterio qualitativo al criterio quantitativo: da colui che fa il bene a colui che fa il tanto, dato che il concetto di bene, storicizzato e relativizzato, aveva perso la sua immutabilità universale.
3) Il terzo modello storico dell’identità nazionale è quello della democrazia.
Naturalmente il “potere del popolo” (così alla lettera la parola democrazia) non significa che tutti comandano, ma solo che tutti concorrono alla scelta dei governanti.
Tuttavia, il fatto che il voto sia “uno uguale a uno” (paritetico sul piano quantitativo) e che l’esito delle scelte sia basato sui criteri di maggioranza e minoranza, ha ingenerato una deformazione nella percezione della democrazia che chiamerò illusione democratica.
I problemi connessi all’illusione democratica sono sostanzialmente due: il primo è la pretesa di interpretare in modo individualista il funzionamento di un organismo collettivo (lo Stato), il secondo è il regresso della civiltà, che dopo aver abbandonato il sacro come criterio delle proprie scelte, abbandona anche la razionalità per approdare ai puri rapporti di forza, che tanto ricordano la legge della giungla.
Poiché, da un punto di vista puramente teorico e virtuale, ciascuno può essere autore degli indirizzi e degli atti di governo, accade sovente che le singole persone si pongano nella posizione di dettare la propria linea boicottando quelle differenti, facendo del tutto mancare lo spirito di squadra.
Questo fatto produce una frammentazione della società, in cui i sottoinsiemi (singoli o gruppi) si muovono in modo caotico e naturalmente conflittuale, svuotando l’organismo collettivo del suo significato.
Non può sorprendere dunque che nella democrazia liberale si cerchi quasi di eliminare l’organismo collettivo, sottraendo tutte le competenze possibili allo Stato (che si vede ridotto ai minimi termini) per affidarle ai privati.
Conseguenza naturale di questa situazione è che gli individui più potenti e privi di scrupoli utilizzino la propria forza per far prevalere i propri punti di vista.
Elemento prevalente della forza democratica è la ricchezza in denaro, che consente di orientare il consenso tramite la proprietà dei mezzi di informazione, e di controllare la società dispensando posti e cariche di lavoro, evitando così noiosi e antieconomici spargimenti di sangue.
E che i potenti siano consapevoli di questo andazzo lo confermò la sfrontata proposta di un governo mondiale di banchieri, avanzata dal banchiere David Rockefeller.
La giurisprudenza democratica è tipicamente il diritto positivo su base emotiva: il legislatore diventa colui che interpreta le voglie del popolo per soddisfarle e che legittima la sua posizione (trasformata da servizio allo Stato in mera ambizione di carriera personale) quanto meglio asseconda gli umori generali.
E poiché tali umori sono generalmente espressi dagli organi di informazione, proprietà di pochi privati, ecco che tosto la democrazia si auto annulla trasformandosi in oligarchia; e tanto più l’illusione democratica spinge a svuotare lo Stato delle sue funzioni, quanto più e quanto prima si impone una dittatura oligarchica, seppur mascherata nelle forme.
Il simbolo democratico è l’uomo di successo, colui che ha acquisito ricchezza e notorietà e per questo stesso fatto diventa influente.
Bisogna notare l’estremo individualismo del simbolo democratico: se il cavaliere serviva il bene comune (criterio esterno a sé e allo Stato) e l’eroe serviva la Patria (criterio esterno a sé ma interno allo Stato), l’uomo di successo serve solo se stesso, ammirato, invidiato e imitato, a prescindere da come abbia fatto le sue fortune.
Sono considerati uomini di successo certi imprenditori, ma anche campioni sportivi, imbonitori televisivi e vincitori di lotterie.
Non ho fatto esempi di cavalieri ed eroi per non dilungarmi troppo, ma voglio fare un esempio di uomo di successo, per mostrare quanto paradossale possa essere questa figura.
Issei Sagawa nel 1981 era uno studente di letteratura a Parigi, quando uccise una compagna di corso e la mangiò.
Ottenuta la dichiarazione di infermità mentale e l’estradizione nella sua patria giapponese, nel giro di un anno e mezzo il giovane fu rimesso in libertà.
Dopodiché scrisse un libro in cui narrava la sua esperienza che divenne un best seller, e fu autore nell’editoria e nel cinema, tenendo anche una rubrica su una testata a diffusione nazionale.
Quindi Issei Sagawa, a norma delle leggi democratiche, è un uomo di successo, pagato, conosciuto e chiacchierato, a cui è concesso diffondere le proprie vedute con una risonanza superiore a quella di molti filosofi o magistrati.
Qui sotto una tabellina che riassume le caratteristiche dei tre modelli storici delle identità nazionali.
MODELLO | GIURISPRUDENZA | SIMBOLO |
Monarchia di diritto divino | Diritto naturale | Cavaliere |
Stato nazionale | Diritto positivo razionale | Eroe |
Democrazia | Diritto positivo emotivo | Uomo di successo |
Centralità dell’educazione.
Ho illustrato come la lingua e il diritto siano le due variabili più sensibili attorno a cui ruota il concetto di identità culturale.
Ma ho anche sottolineato come l’uomo non nasca possedendo questi codici per via genetica, bensì li apprenda, e non c’è bisogno di dimostrare questa affermazione in quanto è nota da chiunque per esperienza diretta.
Appare dunque fondamentale il ruolo dell’educazione nella formazione dell’identità culturale: se educato da italiano, un bambino imparerà a parlare da italiano, a seguire le leggi italiane, e, in qualche modo, a ragionare e a comportarsi da italiano, mentre un bambino lappone imparerà la lingua e i costumi lapponi.
Purtroppo lo stile e i contenuti dell’educazione non sono affatto neutrali: ad esempio un bambino educato in una famiglia mafiosa apprenderà i valori della mafia (fanno testo le leggi della mafia e non quelle dello Stato, la famiglia viene prima e gli estranei sono subordinati e sfruttabili, la lealtà alla famiglia è superiore a qualunque scrupolo morale, etc etc) e svilupperà una percezione etica coerente con l’insegnamento ricevuto.
Queste osservazioni, anche se semplici e piuttosto scontate, permettono di smentire i periodici ritorni delle tesi razziali, proposti oggi in forma statistica.
Dato che nel mondo contemporaneo la statistica è diventata il surrogato della scienza (che in realtà si occupa di scoprire le cause degli avvenimenti, e solo in seconda battuta usa esperimenti e statistiche per dirimere i dubbi) l’uso dei conteggi viene usato per conferire la pretesa di scientificità a queste tesi.
Ad esempio il successo negli studi, la capacità di rinunciare a un beneficio immediato per conseguirne uno maggiore in futuro, la capacità di seguire un ordine (negli orari, nell’obbedire alle disposizioni degli educatori) e altri indicatori di qualità personali e morali, vengono analizzati razza per razza, con l’intento di stilare una classifica di quali siano le razze migliori sotto il profilo cognitivo e comportamentale.
Ovviamente una simile statistica presuppone come vera la tesi che si vorrebbe dimostrare, cioè che l’agire di questi bambini dipenda dal loro genotipo.
In realtà si ha buon gioco ad obiettare che si comportano in modo diverso perché sono cresciuti ed educati in famiglie diverse (e magari anche in scuole diverse) entro culture completamente differenti le une dalle altre.
Il grande problema dei sondaggi e delle statistiche consiste nel modo in cui si pongono le domande, che orienta il risultato. Per questa ragione la statistica non fornisce una conoscenza valida in sé, ma tanto più valida quanto più distingue con precisione tra due ipotesi di cui l’una risulti vera e l’altra falsa.
Nei casi in questione una statistica avrebbe senso se si evidenziassero differenze ricorrenti tra bambini di provenienza razziale diversa, allevati ed educati nello stesso tipo di famiglie.
Quindi ad esempio genitori americani bianchi che hanno adottato bambini bianchi, afroamericani, asiatici, latini etc etc
E non basterebbe, perché occorrerebbe mettere a confronto le eventuali differenze emerse nella statistica ordinata per razza con le differenze emerse dalle statistiche suddivise per fascia di ricchezza, di cultura e di religione nelle famiglie educatrici, e vedere quale di queste suddivisioni ha incidenza maggiore.
La centralità del fattore educativo pone anche il problema della possibilità o impossibilità di una identità multiculturale.
Quale sarà infatti un’educazione multiculturale? Quella in cui si illustrano ai bambini tutte le culture ed essi sceglieranno da grandi la loro? O quella in cui il maestro a scuola educherà a una cultura unificata, ammessa dallo Stato e i genitori, a casa, sussurreranno nell’orecchi ai loro bambini che ciò che si racconta a scuola è sbagliato?
E quando una cultura è forte e non ammette compromessi (tipici i casi di cultura religiosa, come l’islam)?
E quando addirittura il modello dello Stato è del terzo tipo (democrazia) e la cultura di certe minoranze è orientata al modello del primo tipo (monarchia di diritto divino)?
In effetti la sola idea che possa esistere un’identità multiculturale è contraria alla logica e l’esperienza dimostra che la società viene detta “multiculturale” fin quando i conflitti restano ad uno stadio di latenza senza giungere alla conflagrazione aperta.
O, ancora più semplicemente, la società è detta multiculturale, finché le forze dell’ordine riescono a reprimere i moti devianti dalla linea auspicata dall’etnia maggioritaria e dal governo.
Suprematismo culturale.
A differenza di presunte superiorità razziali, che avrebbero la caratteristica di essere universali e invarianti nel tempo (in quanto fondate su cause di ordine genetico), talvolta avvengono contatti fra popolazioni di cui l’una può vantare una supremazia culturale sull’altra, superiorità contingente ma effettiva, che si manifesta in quel momento e per quella gente, evidenziandosi sotto gli aspetti della conoscenza, della tecnologia, dell’economia e delle protezioni sociali.
Questo non può fare scandalo. Come è normale che entro una comunità vi siano persone di maggior conoscenza e cultura, così è altrettanto normale che fra molte comunità ve ne siano alcune culturalmente più avanzate ed altre più arretrate.
Ciò che cambia radicalmente l’incontro tra persone culturalmente ricche e povere è l’atteggiamento dei ricchi: se questi desiderano condividere il loro sapere per elevare l’interlocutore ad un rapporto paritetico, o se intendono sfruttare la propria posizione per estorcere dei vantaggi a danno degli ingenui e degli ignoranti.
Un esempio di questo dilemma lo si ebbe nel decennio successivo alla scoperta dell’America.
Cristoforo Colombo, che aveva preteso il titolo di viceré delle “Indie”, non fece altro che organizzare il territorio come società commerciale, da cui estraeva il 10% da ogni transazione.
Nel 1495, allo scopo di arricchirsi e in aperta contraddizione con le direttive ricevute dai reali di Spagna, inviava nel vecchio continente una nave carica di schiavi, da vendere in Europa.
Isabella di Castiglia fece girare a ovest il timone, costringendo gli schiavisti a ricondurre a casa loro i prigionieri indiani rimettendoli in piena libertà.
E nel suo testamento del 1504, la santa regina scrive di …non permettere che gli indigeni subiscano il minimo torto nelle loro persone e nei loro beni. L’intenzione principale della colonizzazione, secondo Isabella, era indurre e portare i suoi popoli convertiti alla nostra santa fede cattolica.
Purtroppo la storia ci ha mostrato molti grandi esempi nello stile dell’avido, prepotente ed egoista Cristoforo Colombo e solo piccoli esempi (anche se numerosi, penso ai missionari) nello stile della generosa, lungimirante ed equa Isabella di Castiglia.
Perché di sicuro una cosa non manca a chi è culturalmente superiore, ed è l’abilità dialettica per giustificarsi.
Non riesco a non pensare allo slogan che l’Impero inglese ha utilizzato per motivare i suoi soprusi, non tanto verso i conquistati, ma agli occhi della sua stessa gente: il fardello dell’uomo bianco, in nome del quale si sono compiute ben poco onorevoli imprese.
Ad esempio le ordinanze con cui si vietò la produzione di tessuti in India: pochi sanno che nel 1800 i telai indiani erano tecnologicamente superiori a quelli inglesi. L’Impero dunque risolse il problema della concorrenza sparando agli Indiani che usassero i telai, e in questa occasione si scoprì che il famoso “vantaggio competitivo” della teoria economica, poteva essere sostituito a piacere dal vantaggio militare e dall’assenza di scrupoli nell’usarlo.
Ancor peggio fecero i britannici in Cina: poiché l’articolo di maggior esportazione della Compagnia delle Indie orientali, nella prima metà del ‘800, era diventato l’oppio e poiché il Governatore di Canton, esasperato dagli orrori della droga, ne fece sequestrare e distruggere un ingente carico, l’Impero dichiarò guerra alla Cina, per tutelare il “libero mercato” per le sue aziende.
Si succedettero così tre guerre, in cui i Cinesi vennero prima massacrati, poi espropriati di città e province, e infine, affermati i diritti di vendita dell’uomo bianco, avvelenati dalle sostanze stupefacenti.
Tra parentesi, la famiglia che più si arricchì col mercato cinese dell’oppio fu quella dei Sassoon (il socio di Casaleggio), che, anziché finire a sing sing per traffico internazionale di droga, ebbe il titolo nobiliare di baronetto.
Nell’incontro fra culture diverse non è dunque un male insormontabile essere convinti della superiorità della propria, ma è fondamentale la fiducia nella crescita dell’altro, come sanno tutti gli educatori e i formatori di successo.
Il rispetto della libertà altrui, seppur inizialmente faticoso, è tuttavia foriero della grande soddisfazione di veder crescere ciò che si è seminato e offre il compenso dell’amicizia.
La coercizione e lo sfruttamento conducono invece al suprematismo esclusivo del prossimo, che lo relega a categoria inferiore, in un modo non molto differente da come fa il razzismo e forse persino più colpevole.
Identità e aspetto fisico.
La mia prospettiva, prevalentemente culturalistica, potrebbe far concludere affrettatamente che la dimensione corporea non conti nulla.
Questo non è assolutamente vero, anzi proprio alcuni aspetti dell’educazione, comuni a quasi tutte le culture, portano a conferire all’aspetto fisico un’incidenza nella formazione dell’identità.
I bambini assomigliano ai genitori (dato di fatto) e dai genitori ricevono cure, affetto e sostentamento.
Quindi nel crescere il bambino sviluppa la percezione, dovuta al ragionamento analogico, che il simile a sé influisce positivamente sulla sua vita.
E come il simile gli ispirerà fiducia, così il suo opposto (per tante esperienze analoghe che avrà fatto nei più svariati campi), cioè il dissimile, gli ispirerà diffidenza.
Questo principio accompagnerà il bambino nella formazione delle sue micro relazioni intrafamiliari e delle sue relazioni sociali più estese, di classe scolastica, di condominio, di squadra sportiva e così via, fino alla sua percezione della società in cui vive, considerata nel suo complesso.
I singoli controesempi, tramite la conoscenza e l’abitudine, possono essere assimilati quali amici (bambini adottati, stranieri collaboratori di famiglia etc). Ma i gruppi stranieri di usi e costumi diversi presenti nella stessa città, le enclavi forestiere, o vengono percepiti quali nemici, oppure, se parificati a tutti gli altri cittadini, fanno perdere il senso di solidarietà collettiva e la fiducia reciproca di origine nazionale.
Perché il risultato di questa commistione è che la gente, perduta l’evidenza di una affinità collettiva, sviluppa la convinzione che ci si possa fidare solo di quegli individui che si conoscono uno ad uno personalmente.
Ciò che decade dunque, in una società multietnica, è il senso di appartenenza nazionale, inteso come fiducia generalizzata basata sul dovere sottinteso di aiuto reciproco.
Inoltre il caso di una popolazione multietnica che sia monoculturale sfiora l’impossibile.
Dunque la popolazione multietnica reca con sé anche i problemi del multiculturalismo.
Panoramica riassuntiva.
Si può tranquillamente affermare che la questione dell’identità nazionale sia un problema complesso.
La pretesa esistenza delle razze umane, recanti con sé caratteristiche cognitive o comportamentali, ha ben poche probabilità di essere vera, benché non sia neppure categoricamente smentita.
Un argomento a favore proviene da una recente scoperta della biologia, secondo cui alcuni elementi del sapere possono essere tramandati per via genetica (questo fatto in realtà potrebbe giocare a favore non di una superiore evoluzione razziale, ma di una superiore evoluzione familiare).
In ogni caso quello che sembra l’elemento costante delle tensioni razziali sono i grandi conflitti politici.
L’identità culturale è indiscutibile, anche se è tutt’altro che precisa.
Infatti, a parte il dato fondativo della lingua, gli altri elementi identitari, quanto più sono sviluppati, tanto più sono accolti e fatti propri dall’individuo in modo libero, non meccanico.
Questo significa che ogni persona, oltre ad avere un proprio modo di usare il linguaggio, ha una sua visione della giustizia e del diritto, una sua visione del governo, una sua visione di molti usi e costumi, che dovrebbero contraddistinguere la sua etnia, il suo popolo.
Come questi cocktail di preferenze, diversi da persona a persona, possano definirsi lapponi piuttosto che siberiani, non è sempre pacifico.
D’altro canto sembra che le identità collettive siano un bisogno insopprimibile degli esseri umani, che conosce un apice parossistico nell’adolescenza e che, pur acquietandosi in seguito, provoca un’acuta nostalgia quando viene negato con l’isolamento associativo.
Nella formazione dell’identità, personale e collettiva, un ruolo centrale spetta all’educazione, elemento decisivo per le aspettative e le decisioni future.
Non si può negare che una fonte primaria dell’identità nazionale sia proprio l’educazione.
Le identità culturali sono più importanti di quelle di origine fisica, ma quelle di origine fisica hanno un impatto più immediato ed emotivo e non possono essere trascurate nell’edificazione di una società.
E infine esiste un atteggiamento potenzialmente peggiore dell’arroganza razziale o culturale ed è la negazione dell’identità, che talvolta avviene affermando le utopie multietniche e multiculturali.
Questo atteggiamento, sovente sponsorizzato dalle centrali sovrannazionali e cosmopolite, ha l’unico effetto di isolare gli individui e di indebolirne la potenza contrattuale, così da renderli più facilmente controllabili da un potere sempre più vorace e pervasivo.
Così pure la sistematica denigrazione della propria Nazione, può essere letta come l’indebolimento di un gruppo, prodromico al suo asservimento (il caso italiano è da manuale).
Forse la posizione migliore sia quella di chi accetta di essere ciò che è, moderatamente orgoglioso della propria identità, nella misura in cui ha contribuito a migliorarla: ad esempio un Italiano che lavora onestamente per il benessere della propria famiglia e della propria gente; non si può essere orgogliosi solo per ciò che hanno fatto gli altri, magari nel passato.
Per Dante Alighieri la vera nobiltà è quella di fatto (il virtuoso operare), la nobiltà di sangue la avvalora.