di Roberto PECCHIOLI
La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, cantava Giorgio Gaber. La libertà è partecipazione, concludeva, ma è anche, sottolineiamo noi, informazione. Quella che manca in Italia e in Europa e quando arriva viene nascosta come polvere sotto il tappeto. E’ il destino toccato, per colpa della “grande” stampa – grande per presunzione, piccola per tiratura – e della televisione, allo studio sull’euro realizzato da un “pensatoio” economico tedesco, il cuore dell’officina europea.
Il dibattito sulla moneta di proprietà della Banca Centrale Europea di Francoforte è arenato da molti mesi; silenziate le voci critiche di area governativa, riposte nel cassetto proposte come i minibond del professor Borghi, azzerato il confronto. Tutto va bene allora, madama la marchesa? No, a confermarlo ci pensano le aride, ma eloquenti cifre prodotte dagli economisti Alessandro Gasparotti e Mathias Kullas dell’istituto tedesco Centre for European Policy, dal titolo significativo dell’orientamento integrato degli autori: “20 anni di euro: vincitori e perdenti.” Tutto, nel nostro tempo dominato dalla ragione economica e finanziaria, si misura in termini agonistici: vincitori e vinti.
Nella fattispecie, tuttavia, bisogna essere grati ai due studiosi dell’approccio estremamente pragmatico, la cui conclusione è la stessa cui è pervenuta la maggioranza dell’opinione pubblica: la moneta unica ha dissanguato i paesi dell’Europa meridionale, specie Italia, Portogallo e la stessa Francia, e, in misura minore Belgio e Spagna. Eppure il rapporto di Gasparotti e Kullas non ha animato il dibattito in fase di stanca, né ha ottenuto i titoli dei giornaloni o suscitato pensose discussioni nel baccano di insulti e urla da foro boario della TV detta di approfondimento.
Tentiamo, nel nostro minuscolo spazio di libertà, di colmare il vuoto, iniziando dalle nude cifre. In assenza di una politica nazionale, ancor più di una strategia a lungo termine, l’Italia è l’unico Stato dell’eurozona ad aver perduto ricchezza sin dall’ingresso nell’euro, con due accelerazioni. La prima dopo il 2008, avvio in Europa della crisi finanziaria iniziata negli Usa l’anno precedente. La seconda a partire dal 2011, anno in cui entrarono in azione i commissari politici dell’UE Monti, Fornero e compagnia brutta. Dal 2008 al 2016, il PIL pro capite è precipitato del 10 per cento, mentre in Germania è salito del 6 e in Francia è rimasto praticamente invariato. In un solo triennio, 2012-2014, siamo scesi da 27.000 euro a 25 mila, quando una certa ripresa, con intensità diverse, si affacciava sul resto d’Europa. Attualmente, il PIL pro capite (distinto dal reddito individuale) non supera i 25.500 euro, a fronte degli oltre 34mila dei tedeschi e 32.500 francesi.
La contrapposizione delle idee, tuttavia, resta sequestrata dalla narrazione a senso unico, alimentata dagli interessi di ceti e gruppi legati a Bruxelles e alla finanza. Inutile parlare in nome del senso comune. Chi osa contrapporre dati, mostrare evidenze empiriche che rifiutano di piegarsi alla versione ufficiale, verità indiscutibile scolpita per sempre come le Tavole della legge, diffusa, sostenuta e soprattutto finanziata da “color che sanno”, entra a far parte della fastidiosa dissidenza. Peggio, è bollato come ignorante o populista, che poi sono la stessa cosa, nell’immaginario di lorsignori, gli unici a possedere le chiavi della conoscenza, i soli a sapere che “le cose non sono così semplici come credete voi”.
Nel caso dello studio tedesco, la strategia è la solita: occultare l’evidenza, e, se non riesce, screditare gli autori, il metodo, i risultati. Non possiamo dimenticare il cinismo di Monti, per il quale la crisi era un bene – voce dal sen fuggita di chi è dalla parte della finanza – e il rivoltante falso pentimento del presidente della Commissione UE Jean Paul Juncker a proposito della Grecia. “Non siamo stati solidali con la Grecia, l’abbiamo insultata”. No, signor ex primo ministro di un paradiso fiscale, l’avete distrutta, umiliata, avete banchettato, e continuate a farlo, con la carne viva del popolo che fondò l’Europa, quella vera, non la vostra, tremila anni fa.
Torniamo allo studio del think tank germanico. Vincitori e perdenti: già il titolo suona sinistro, è la sconfitta di un’idea che doveva migliorare la vita di tutti diventata incubo. Qualcuno, da un pulpito scientifico elevato, ammette che ci sono degli sconfitti. Gli Stati analizzati sono otto, Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio, Spagna, Portogallo e Grecia. Il metodo di analisi è originale, un procedimento quantitativo, un modello matematico volto a valutare l’impatto delle politiche pubbliche con riferimento allo strumento monetario. La domanda a cui intendono rispondere i ricercatori è questa: quale sarebbe il PIL pro capite di ciascun paese se non fosse stato introdotto l’euro?
Per farlo, hanno utilizzato un metodo statistico che permette di rilevare gli effetti delle misure politiche (l’introduzione dell’euro, nello specifico) sul PIL. Attraverso un procedimento di controllo sintetico, la tendenza reale del PIL è stata comparata con la tendenza ipotetica supponendo che il paese analizzato non avesse adottato la moneta unica. E’ stato cioè generato uno scenario controfattuale creando un gruppo di controllo – il criterio standard nelle analisi statistiche e negli esperimenti sociologici- costituito da paesi estranei all’eurozona che presentano un’evoluzione economica simile a quella degli Stati oggetto di studio. Interessante il caso della Spagna, che si è avvantaggiata dell’euro sino al 2010, per poi crollare rapidamente in concomitanza con la stretta adesione alle politiche di austerità imposte da Bruxelles, che, tra l’altro, hanno determinato il raddoppio in un solo decennio del debito pubblico.
I risultati confermano che è la Germania la nazione più favorita dall’introduzione dell’euro, il quale, non dimentichiamolo, in assenza di politiche fiscali, economiche, finanziarie e industriali comuni, non è che un sistema di cambio fisso. Dal 1999, data della fissazione dei tassi di cambio definitivi tra le monete sciolte tre anni dopo nell’euro, al 2017, il guadagno tedesco sarebbe addirittura di 1,9 bilioni di euro, quasi duemila miliardi. Si tratta di ben 23mila euro per ciascun abitante della Repubblica Federale. Tra gli altri Stati, solo l’Olanda ha ottenuto benefici, ovvio, si tratta del paese più vicino alle posizioni tedesche.
Al lato opposto, è enorme il dissanguamento subito dall’Europa meridionale, in particolare da Grecia, Portogallo e, sorpresa relativa, Francia. Meno pesanti le perdite per il Belgio (orbita tedesca) e la Spagna. La situazione greca è una sorta di enciclopedia dell’euro: benefici notevoli sino al 2011, anche per i trucchi contabili del governo, approvati sottotraccia dal sistema finanziario a trazione germanica, poi le enormi perdite. Chi dava le carte nel poker finanziario era complice del baro e la Grecia fu poi svenduta a pezzettini ai soliti noti.
La prosperità, dall’istituzione della moneta unica, è calata di 3.600 miliardi di euro in Francia, dove la popolazione si almeno si rivolta e le élite si arricchiscono attraverso lo sfruttamento coloniale dell’Africa che utilizza il franco CFA. Il quadro italiano è drammatico: la nostra ricchezza è diminuita dell’astronomica somma di 4.300 miliardi di euro, due volte e mezzo il PIL del 2018, il doppio del debito pubblico e, per chi ricorda la defunta liretta, oltre otto milioni di miliardi del vecchio conio. Ogni italiano ha perduto 74mila euro, rispetto ai 56mila dei francesi e ai 5mila degli spagnoli, il cui saldo negativo è significativo perché maturato in soli sei anni dopo un quindicennio di guadagni. La cura ha funzionato, ma il paziente, chissà perché, è in coma anche oltre i Pirenei.
Le nude cifre parlano chiaro, ma occorre cercare un perché e individuare una via d’uscita. Per prima cosa, evitiamo di credere agli interessati autoelogi di olandesi e tedeschi. L’efficienza generale di quei paesi è superiore alla nostra, e questo vale anche per la Francia, ma è il sistema Europa che non va nel suo complesso. Il difetto sta all’origine. Lo svela un testo di qualche anno fa, La distopia dell’euro; pensiero gregario e negazione della realtà, dell’australiano William Mitchell. Dopo aver espresso meraviglia per l’indifferenza con cui le cupole europoidi trattarono avvertimenti provenienti dai massimi livelli scientifici (i rapporti Werner – 1970- e Mac Dougall- 1977) che insistevano sulla necessità di attivare meccanismi fiscali di tipo federale e mettevano in guardia dai pericoli di lasciare tutto nelle mani di una banca centrale svincolata dai governi e stabilire in quel contesto malato il sistema di cambi fissi.
I numeri confermano ora che c’è stato davvero un consistente travaso di ricchezza da Sud a Nord, amplificato dalla crisi e dal tasso di cambio non casualmente favorevole alle economie dell’Europa centrale. Le loro monete nazionali si rivaluterebbero di almeno il 30 per cento rispetto all’euro attuale. Ciononostante la Germania si rifiuta di ridurre o riciclare in consumi il suo enorme avanzo commerciale corrente. Non contenti di ciò, i nostri stimati alleati teutonici non vogliono condividere le conseguenze del rischio-prezzo degli investimenti delle loro banche. Il sistema finanziario ha canalizzato il risparmio dei tedeschi e il surplus commerciale verso attività e asset a rischio, costringendo irlandesi, spagnoli e soprattutto italiani a riscattarli attraverso la socializzazione delle perdite bancarie private.
I molto onesti e laboriosi creditori tedeschi hanno obbligato i loro debitori a trattare i debiti privati come se fossero debito sovrano, forzando governi di ogni colore (ma l’interesse finanziario è a tinta unita) alla svalutazione dei salari e a continue strette tributarie. La Germania continua a rigettare l’unione fiscale, l’unione bancaria e rifiuta un mercato unico dei buoni del Tesoro, gli eurobond idea fissa di Giulio Tremonti, sconfitto definitivamente nell’oscura trama Sarkozy, Merkel, finanza tedesca con partecipazione attiva di Napolitano e del “salotto buono” italiano nel 2011. Gli eurobond avvierebbero un processo di mutualizzazione dei debiti intraeuropei e contribuirebbero ad imporre meccanismi di risoluzione dei salvataggi bancari a carico dei creditori e non dei contribuenti.
Pochi sanno che l’IVA doveva essere armonizzata a livello europeo dal 1993, con un breve regime transitorio sino al 1996: non se ne è fatto nulla e la concorrenza tra sistemi tributari e finanziari ha reso permanente un’Europa di serie A e una di serie B, con corredo di paradisi fiscali e Stati canaglia. Lo scenario è però cambiato, così come i paradigmi geopolitici globali. Oltre al rallentamento del commercio mondiale, le nuove politiche doganali di Usa e Cina fanno sentire il loro peso sulla carne della tigre di carta Germania, fortissima tra i nani europei, ma troppo piccola per reggere la sfida globale delle superpotenze, oltreché impossibilitata, come nazione sconfitta nel 1945, a svolgere una politica autonoma dagli Usa.
In più, le due banche sistemiche tedesche , “troppo grandi per fallire” Deutsche Bank e Kommerzbank, sono così indebitate, sconfitte nelle scommesse del casinò globale, tanto imbottite da crediti inesigibili (NPL) e prodotti derivati ( CDS e altro) da essere diventate il bersaglio degli speculatori, costrette a fondersi sotto l’egida dello Stato, con buona pace dell’ordoliberismo imposto agli altri e della superstizione della concorrenza che bolla come aiuti di Stato i deboli tentativi di chi, come l’Italia, dovrebbe proteggere quel che resta del sistema finanziario e industriale. Ora pretendono per sé ciò che non hanno consentito ai loro vicini del Sud. Vecchio egoismo teutonico, l‘incapacità storica di fermarsi. La loro soluzione, che conviene purtroppo alla Francia, è il direttorio con Parigi, socio economicamente di minoranza, ma in grado di gettare sul tavolo la sua condizione di media potenza nucleare, di Stato indipendente e la rendita di posizione neocoloniale.
Una deriva inaccettabile che mina alle fondamenta quel che resta dell’Unione, ma non se ne deve parlare, se non in conversazioni private, circoli accademici o innocui incontri di geopolitici dilettanti. Dal governo in carica, da cui ci si attendeva qualche segnale, uno scoraggiante silenzio: avranno almeno capito la posta in palio? Non disturbare il manovratore sembra l’imperativo dominante, proprio nel momento in cui la strategia italiana – e quella degli altri paesi dell’Europa meridionale – dovrebbe essere chiara e netta, volta a cambiare, se non il gioco, almeno le sue regole principali. Lo studio di Gasparotti e Kullas è la prova definitiva, o, come dicono gli anglosassoni, la “pistola fumante” che dimostra ciò che la gente ha sperimentato su se stessa: l’Euro così com’è nuoce gravemente alla salute. Dell’Italia, di gran parte dell’Eurozona, di centinaia di milioni di persone, la trascurabile maggioranza.
ROBERTO PECCHIOLI