LA GNOSI E LE DOTTRINE ECONOMICHE DEL XX SECOLO
Premessa
Il Novecento è stato il secolo nel quale il Politico, per via delle pulsioni totalitarie che lo hanno afflitto, si è “socializzato” ossia ha gradualmente ceduto al primato dell’Economico. Questa “socializzazione” ha avuto origine nella pretesa totalizzante che, nella prima parte del secolo, il Politico ha accampato dando l’impressione di poter assorbire la Società Civile nello Stato. Invece, una volta eliminata, secondo il paradigma totalitario dell’immanenza tra Stato e Società Civile, la distanza e la differenza tra Politico ed Economico, assorbendo quest’ultimo nel primo, il risultato finale, passato il momento “caldo”, “sacrale”, dell’ideologia totalitaria, ovvero rovesciatasi la premessa iniziale nel vortice dell’eterogenesi dei fini, è stato quello della dissoluzione del Politico nell’Economico. Non a caso sul finire del secolo che aveva conosciuto i totalitarismi, mentre iniziava il XXI secolo, la parola d’ordine è stata quella della sostituzione dei rappresentanti della società civile alla politica tramontante dei partiti di eredità ideologica.
Come è noto il Novecento è stato caratterizzato dal confronto tra due teorie economiche, che si sono contrapposte sia riguardo alla diagnosi circa lo stato di salute della realtà economica sia riguardo al tipo di terapia eventualmente necessaria. I rappresentati più autorevoli di queste due correnti di pensiero sono stati l’inglese John Maynard Keynes (1883 – 1946) e l’austriaco Friedrich August von Hayek (1899 – 1992). Nella prima parte del secolo ha trionfato la teoria keynesiana, coincidente con la fase dell’egemonia statuale tendenzialmente totalizzante, mentre nella seconda parte ha prevalso, benché nella forma più aggiornata del monetarismo di Milton Friedman, la teoria neoclassica della cosiddetta “Scuola austriaca”, della quale von Hayek, insieme a von Mises, fu il maggior esponente. L’indirizzo “austriaco-monetarista” ha corrisposto al subentrare storico, dopo la fase statuale, del momento del raffreddamento mercatista, ossia del momento della dissoluzione del Politico nell’Economico. Keynes è stato l’ispiratore delle politiche interventiste di sinistra, Hayek delle politiche liberiste di destra.
Dobbiamo ad un caro amico, docente universitario di economia, il prof. Adriano Nardi, una approfondita analisi delle implicanze religiose, ma spurie, nel pensiero dei maggiori antagonisti sulla scena delle dottrine economiche del secolo scorso, ossia i citati Keynes e Hayek. Nel trattare, a scopi divulgativi, questo argomento ci dichiariamo, appunto, debitori della fatica del Nardi, alla quale rimandiamo chi voglia usufruire di maggiori cognizioni in argomento (1).
Due teorie contrapposte
La convinzione portante del pensiero di Keynes è che non esiste, in seno all’economia di mercato, alcun automatismo che garantisca il perfetto equilibrio tra le variabili economiche fondamentali, ovvero la domanda e l’offerta di merci e servizi, tale che possa assicurare il pieno impiego di tutte le risorse disponibili e quindi la piena occupazione. Dalla sua analisi pessimistica del funzionamento del mercato Keynes deduceva la necessità di specifici interventi equilibratori da parte dello Stato. I fatti, annotò realisticamente, Keynes smentiscono la “legge degli sbocchi”, formulata Jean-Baptiste Say (1767-1832), per la quale l’offerta crea la sua domanda, rendendo piuttosto palese che semmai è il contrario ossia che senza la domanda non c’è offerta. Il capitalismo tende naturalmente a distruggere la domanda nel momento stesso nel quale per fare profitto è costretto a ridurre i costi ad iniziare da quello del lavoro, che è la base stessa della domanda che poi, secondo la prospettiva settecentesca del Say, dovrebbe assorbire la produzione ovvero l’offerta. Ma proprio la tendenza capitalista a ridurre il costo del lavoro a vantaggio dei profitti attesta, ed i fatti hanno dimostrato, che la convinzione del Say, sulla quale si era fondata l’economia classica ottocentesca, era fallace e che, quindi, come aveva ben intuito Marx, il capitalismo divora sé stesso se, dice Keynes, non opportunamente corretto. La correzione deve intervenire, in particolare nei momenti di recessione del ciclo economico, da parte dello Stato mediante la spesa pubblica a deficit al fine di sostenere la domanda aggregata e rendere possibile la stessa sopravvivenza del capitalismo.
In particolare, il Say sosteneva che in regime di libero scambio non sarebbero possibili crisi prolungate, poiché l’offerta crea la domanda. Difatti, in una economia di libero mercato ciascun soggetto è al tempo stesso compratore e venditore. Se pertanto si ha un eccesso di offerta, la diminuzione del livello dei prezzi renderà conveniente nuova domanda. È in tal senso, diceva Say, l’offerta sarà sempre in grado di creare la propria domanda. Sicché in caso di crisi da sovrapproduzione il rimedio non deve l’intervento dello Stato ma semplicemente aspettare che la capacità autoregolatoria del mercato ristabilisca il nuovo equilibrio economico. Convinto che ogni produzione trova sempre un naturale sbocco sul mercato, Say era di conseguenza convinto che il mercato lasciato libero di funzionare tendesse a raggiungere l’equilibrio di piena occupazione. I due corollari della legge del Say sono che ogni produzione genera un reddito di importo equivalente e che tutto il reddito viene sempre interamente speso, direttamente o indirettamente.
Say, nel XV capitolo del Libro I della sua opera “Traité d’èconomie politique” del 1803, descriveva in questi termini la legge degli sbocchi: «Un prodotto terminato offre da quell’istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l’ultimo produttore ha terminato il suo prodotto, il suo desiderio più grande è quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto nelle sue mani. Ma non è meno sollecito di liberarsi del denaro che la sua vendita gli procura, perché nemmeno il denaro resti morto. Ora non ci si può liberare del proprio denaro se non cercando di comperare un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto solo della formazione di un prodotto apre all’istante stesso uno sbocco ad altri prodotti».
Qui il Say non faceva altro che descrivere la regola della contabilità a partita doppia secondo la quale un soggetto è in qualsiasi transazione contemporaneamente sia addebitato che accreditato. Da questo l’economista ottocentesco concludeva, troppo semplicisticamente, che, essendo ogni venditore anche un compratore e viceversa, il denaro ricavato da una vendita sarà sempre immediatamente speso a beneficio degli sbocchi di altri prodotti sul mercato e, quindi, del libero equilibrio generale.
Keynes, nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, del 1936, ha criticato la legge degli sbocchi, formulata dal Say, sostenendo che il detentore di moneta può essere motivato a trattenerla invece che a spenderla. Il venditore, quindi, può non risolversi in consumatore. Questa sempre possibile e costantemente operante possibilità causa una domanda aggregata insufficiente e, quindi, impedisce il preteso spontaneo funzionamento riequilibratore del mercato libero. Si tratta della cosiddetta “trappola delle liquidità” per la quale la più probabile tendenza umana – soprattutto nelle classi benestanti (il che, sia detto per inciso, vanifica ogni illusoria politiche di riduzione fiscale intesa a favorire la domanda mediante un atteggiamento passivo dello Stato) – è quella alla tesaurizzazione ossia alla fuoriuscita di parte del reddito ricevuto, sotto forma di salari, profitto o interesse, dal circuito economico definito dalla circolazione monetaria. Secondo Keynes, l’inflazione dei prezzi si verifica solo quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva. Prima di allora, l’aumento della domanda richiede un aumento dell’offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di ‘beni e servizi’, allora la domanda e l’offerta si alzeranno insieme.
Hayek, di contra, tornando a Say, ritiene che l’economia di mercato – se lasciata libera di funzionare secondo i suoi automatismi spontanei – sia in grado di assicurare sempre la piena occupazione purché – ecco il punto – i lavoratori accettino qualsiasi condizione salariale secondo le leggi di mercato, i sindacati smettano di intralciare gli imprenditori con le esagerate pretese contrattuali e lo Stato se ne stia inerte ed assente evitando di ingenerare, mediante l’eccessiva quantità di denaro emessa, inflazione ossia la distorsione del meccanismo di mercato dei prezzi, compresi quei prezzi di quella merce che, per un liberista convinto, resta comunque il lavoro umano. Per Hayek il male sta proprio dove per Keynes sta invece la soluzione. Nella sua visione ottimistica del mercato Hayek auspica il divieto poco meno che totale degli interventi statali in economia, che deve essere lasciata soltanto alla iniziativa dei privati.
Hayek riteneva che la realtà si riducesse tutta all’ordine intrinseco del mercato. Egli, certo, ammetteva l’esistenza di altre sfere dell’umano, ad iniziare dal religioso, ma aveva verso di esse una indifferenza totale e soprattutto riteneva che esse in nulla influenzassero, e dovessero influenzare, la sfera portante dell’economia e che laddove esse tentano di farlo finiscono immancabilmente per confliggere con l’“ordine naturale”. Hayek, nel XX secolo, è stato non solo l’anti-Keynes ma è diventato il più pungente critico dell’economia pianificata o di comando. Egli ha dimostrato che in questo tipo di economie, come ad esempio quella sovietica, è impossibile il calcolo economico, dato che esso è rimesso ad un unico decisore che dovrebbe prevedere con assoluta precisione la quantità di ogni prodotto necessario al sistema e, sulla base di tale previsione, comandarne la produzione. Al contrario in una economia liberista e decentralizzata il calcolo economico e, quindi, le decisioni conseguenti sono pienamente realizzabili perché affidate, secondo “ordine economico naturale”, ai singoli individui mossi dal proprio tornaconto. Il ruolo del coordinatore, che nelle economie di piano è affidato all’unico decisore politico, nelle economie liberiste è svolto dalla “mano invisibile” la quale si incarica di armonizzare i contrapposti interessi individuali mediante l’equilibrio tra domanda ed offerta segnalato dai prezzi.
Osserviamo, tuttavia, che, proprio per questa sua convinzione sulla spontaneità armonica del mercato, Hayek, benché non fosse certo marxista, si rivela, in fondo, intrinsecamente marxiano. Come Marx, infatti, egli pone l’economia a struttura e come Marx auspica la scomparsa, o almeno la minimizzazione, dello Stato nell’organizzazione sociale affidata soltanto alle libere e spontanee forze economiche. Convinto dell’esistenza di un ordine naturale corrispondente alla, supposta, libera armonia della “terza funzione” platonica, appunto l’Economia, e sempre che le altre due, il Sacro ed il Politico, non interferiscano, Hayek ha creduto di descrivere il funzionamento della libera economia di mercato e le vantaggiose conseguenze che, a suo giudizio, essa apporta all’umana famiglia.
La storia dei fatti economici, che comprende anche quella dei grandi e ripetuti fallimenti del mercato, hanno smentito più di una volta la devozione di Hayek verso la libera economia. Thomas Piketty, nel suo noto “Il capitale nel XXI secolo”, ha dimostrato che, nei Paesi sviluppati, l’evoluzione della diseguaglianza dei redditi, della ricchezza e del rapporto capitale sul reddito, segue una curva a forma di U. Motivo per il quale i livelli di disuguaglianza raggiunti all’inizio del XXI secolo sono simili a quelli della Belle Èpoque. Questi risultati hanno messo in discussione la curva di Kuznets, formulata nel 1950 da Simon Kuznets, che sottende la teoria secondo la quale lo sviluppo economico sarebbe sempre accompagnato, in modo meccanico, dal progressivo abbattimento delle disparità di reddito. Secondo Thomas Piketty, invece, il mercato capitalistico è caratterizzato da potenti forze intrinseche di divergenza, basate sulla disuguaglianza r > g (rendimento sul capitale > tasso di crescita economica). In altri termini, senza correttivi non di mercato, la ricchezza tende ad essere accumulata nelle mani di pochi. Le sue analisi hanno portato Piketty alla convinzione che la prima metà del ‘900 fu un’eccezione storica nella quale, per la prima volta nella storia del mercato capitalistico, la disuguaglianza fu invertita in r < g. Questo si è potuto verificare perché la presenza di una guida statuale del mercato ha contribuito alla redistribuzione delle ricchezze mano a mano che l’industrializzazione aumentava vertiginosamente la produttività e quindi aumentava la quantità di nuove ricchezze prodotte. Ma, una volta venuta meno, con la globalizzazione, accanto a quella invisibile di mercato la presenza anche della mano visibile dello Stato, il mercato capitalistico ha iniziato ad avvitarsi su sé stesso per implodere, nella logica del laissez faire, nei gorghi della finanziarizzazione e della speculazione.
Nonostante le smentite storiche e teoretiche, il magistero di Hayek continua a mantenere troppa, immeritata, cattedra semplicemente perché esso corrisponde perfettamente alla narrativa neoliberista della globalizzazione, svelando così la natura strumentale ed ideologica del suo pensiero. Un fatto, quest’ultimo, molto grave per chi come lui faceva dell’imputazione di “costruttivismo” il principale capo d’accusa contro socialisti, cattolici e keynesiani.
Keynes, al contrario, non credeva all’esistenza di nessun ordine naturale e rigettava anche qualsiasi fede religiosa proprio perché abborriva l’idea stessa di un “Ordine”. Se per Hayek l’ordine è immanente, mediante il mercato, alla sfera dell’economia e sfere diverse non possono avanzare alcuna pretesa di interferire con tale “Ordine”, per Keynes è invece lo Stato, ossia gli uomini illuminati ai vertici dello Stato, a dover costruire l’“Ordine”. Ecco perché Keynes non si limita, come Hayek, a descrivere la supposta realtà ma la prescrive cercando di delineare quel si deve fare affinché, conseguito il pieno impiego, sia realizzato un assetto sociale più soddisfacente. Keynes nell’universo, in genere, e nella sfera economica, in particolare, non contempla alcun ordine naturale e spontaneo. Egli, anzi, pensa che la realtà sia caos sicché solo l’iniziativa umana può garantire un ordine al mondo ed al corso della storia.
Dietro l’apparente contrapposizione
Nel suo saggio, il prof. Nardi riesce ottimamente a focalizzare che, in realtà, dietro l’apparente contrapposizione, faccia capolino un elemento che accomuna il pensiero dei due economisti principali del XX secolo. Sia Keynes sia Hayek, infatti, non avevano a cuore soltanto una teoria economica ma una visione del mondo. Ciascuno di essi aveva come obiettivo il conseguimento di uno scopo – diverso per ognuno dei due – che andava ben oltre l’economia. Orbene, secondo Adriano Nardi, che applica qui lo stesso paradigma che Eric Voegelin ha applicato alle teorie politiche moderne, l’orizzonte nel quale i due, Hayek e Keynes, elaborano le proprie riflessioni si dimostra fortemente connotato da influssi gnostici. Un dato, questo, che li accomuna nonostante le accentuate differenze che contraddistinguono le reciproche posizioni. Può, anzi, dirsi che se Keynes esprime una gnosi “volontarista” e “decisionista” – l’ordine autocostruito dall’uomo – sicché, per certi versi, potrebbe essere tra gli economisti ciò che Carl Schmitt è stato tra i giuristi – Hayek esprime una gnosi “panteista” per la quale tutto si risolve nel mercato regolato da intrinseche norme naturali e che non abbisogna, quindi respinge, ogni interferenza superiore o aliena. In fondo, a ben vedere, entrambi decantano un’apoteosi dell’uomo assoluto in una visione antropocentrica ed a-morale. La differenza sta nel fatto che per Keynes l’uomo è il costruttore della realtà mentre per Hayek l’uomo è una modalità agente nel ed agita dall’ordine naturale spontaneo, ed immanente, del mercato, il quale quindi assurge quasi ad una sorta di anima mundi, di “ruota cosmica”, alla stregua della sostanza unitaria della manifestazione di cui parlano le antiche gnosi orientali ed occidentali.
Tuttavia la gnosi di Keynes e di Hayek, a differenza di quelle antiche, che nichilisticamente predicano la fuga dal mondo sensibile segnato dal male e ritenuto luogo dell’esilio e della dannazione, come ogni gnosi moderna sorride alla possibilità del pieno compimento escatologico mondano e, quindi, della trasformazione della terra in un paradiso mondano. Ci permettiamo, qui, di integrare le osservazioni del Nardi perché da parte nostra riteniamo che l’atteggiamento di rifiuto del mondo, inteso come dono d’Amore di un Creatore innamorato della sua creatura umana, è tuttavia lo stesso, tanto nella gnosi antica quanto in quella moderna. Si tratta, infatti, dello stesso atteggiamento spirituale tanto che si fugga dal mondo, visto quale luogo dell’esilio, quanto che si voglia trasformare il mondo in una auto-costruzione umana o che detta trasformazione la si aspetti quale esito di un divenire che si suppone regolato da intoccabili norme immanenti al mondo stesso. Nella prospettiva gnostica, che Keynes ed Hayek fanno propria, il Regno dei Cieli può essere realizzato qui in terra dall’uomo o costruendo l’ordine economico oppure lasciando che tale ordine intrinseco al mondo agisca senza interferenze. Ne consegue, in entrambi i casi, una divinizzazione del potere umano che in Keynes appare come un potere di autocostruzione del reale mentre in Hayek come un potere di identificazione con il mondo allo scopo, anche qui, di dominarlo mediante l’efficacia delle scelte di ciascun singolo operatore, sotto la coordinazione impalpabile, quasi “esoterica”, della mano invisibile, per raggiungere l’armonia universale.
Esortazioni profetiche da Gioachino da Fiore a John Maynard Keynes
John Maynard Keynes è l’autore di un libro, “Esortazioni e profezie” (2), nel quale ha affrontato anche questioni storiche in chiave filosofica, meno noto delle sue opere di economia ma molto indicativo dello sfondo chiliasta al quale egli si ispirava. In detto libro l’economista inglese riprende, a suo modo, l’antico schema ad andamento ternario della storia che fu del millenarismo. Emerso nel medioevo, nell’ambiente ereticale formatosi intorno alla figura di Gioacchino da Fiore (3), questo schema, che annuncia profeticamente la “Terza Età dello Spirito” – la storia suddivisa in tre epoche, dopo quella del Padre (Vecchio Testamento) e quella del Figlio (Nuovo Testamento), sarebbe in attesa della futura Terza Rivelazione dello Spirito Santo, ulteriore e superiore a quella di Cristo, per dare inizio ad una Nuova Era Eterna segnata dall’avvento mondano della “Ecclesia spiritualis”, disincarnata, egalitaria, monastica, perfetta – si è riproposto lungo i secoli moderni passando dalla forma teologica a forme filosofiche e politiche, apparentemente diverse ma sostanzialmente analoghe. Ad esempio possiamo ritrovarlo nel pensiero di Comte, il quale suddivideva la storia in una primitiva fase organica, nella quale le forme sociali sono comunitarie e si conservano per mezzo delle credenze mitico-religiose, una fase di dissoluzione individualista ed anarchica, nella quale prevale il dubbio metodico e dissacratore, ed, infine, una nuova, finale, fase organica che l’avvento della nuova società positivista, fondata sulle certezze scientifiche, contrarie al dubbio metodico impostosi nell’età anarchica dell’individualismo, ossia nel settecento illuminista, avrebbe dovuto incaricarsi di inaugurare nel nome della “religione dell’Umanità”. Oppure nella filosofia della storia di Hegel e di Marx per la quale, mediante un andamento dialettico appunto ternario (tesi-antitesi-sintesi), la storia sarebbe giunta alla perfetta realizzazione dello Stato Etico o alla adempiuta ed autogestionaria Società Comunista.
Fino a Gioacchino da Fiore, ossia al XII secolo, la teologia della storia era agostiniana. Per Agostino la Civitas Dei escatologica è collocata nel Regno dei Cieli, oltre il tempo storico, ovvero nella Gerusalemme Celeste che scende dall’Alto per elevare all’eternità, trasfigurandola, la terra. Con Gioacchino prevale una teologia della storia che pone, come si è detto, un regno dello Spirito, successivo al regno del Padre ed al regno del Figlio, che si realizzerà nella storia, nel mondo, inaugurando l’era della salvezza collettiva ovvero il paradiso in terra. Nardi sottolinea, sulla scorta del Voegelin (4), che la teologia gioachimita della storia costituisce una immanentizzazione della escatologia cristiana, la quale è all’origine della mistificazione moderna della Rivelazione. La presunta profezia di Gioacchino, circa l’avvento di un futuro Regno di assoluta felicità nella storia, ha influenzato in modo determinante, annota Nardi, «fino ai nostri giorni, l’autointerpretazione della moderna società politica» (5). Il chiliasmo ha caratterizzato la riflessione filosofica, più influente, anche nella modernità. Da Lessing in avanti tutti i pensatori moderni, Fichte, Schelling, Hegel, Comte, Marx, ed altri, ripresero lo schema millenarista in termini filosofici. Voegelin sottolinea che «la profezia millenarista di Hitler deriva in maniera evidente dalla speculazione gioachimita, passata in Germania attraverso l’ala anabattista della Riforma» (6).
Keynes, però, desunse lo schema ad andamento ternario, più che direttamente dalle sue remote fonti medioevali, dalle idee di un suo collega economista, l’americano John Rogers Commons, il quale, egli scriveva: «… ha individuato nella storia tre epoche, tre ordinamenti economici» (7). La prima epoca corrisponde all’“età della penuria”, caratterizzata dal “minimo di libertà e dal massimo di controllo”, durata fino al XV o XVI secolo. Ad essa è seguita l’“età dell’abbondanza”, contraddistinta dalla “massima libertà individuale e dal minimo controllo”, un’età in procinto di essere superata negli anni nei quali Keynes scriveva ossia gli anni ’30 del XX secolo. La terza età sarà, afferma Keynes, il futuro “periodo di stabilizzazione” nel corso del quale “la libertà individuale subirà una riduzione tramite interventi governativi o di associazioni, corporazioni, sindacati ed altri movimenti collettivi”. Keynes, nei suoi anni, vedeva profilarsi all’orizzonte l’avvento di quest’ultima epoca, benché ammonisse circa le possibili sue degenerazioni ossia «… il fascismo da una parte, il bolscevismo dall’altra parte» (8).
Delle summenzionate età della storia Keynes aborriva la seconda corrispondente alla società capitalista: «il capitalismo moderno è assolutamente non religioso, … e spesso, anche se non sempre, pura congerie di possidenti e di attivisti»; «non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non fornisce alcun bene» (9). Egli lamentava che la media degli uomini è «dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario» (10), poiché era suo profondo convincimento morale che «l’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita … è una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali» (11).
La radice religiosa dell’anticapitalismo keynesiano è quindi influenzata dalla gnosi mediante l’accoglimento di una filosofia della storia di chiara impronta millenaristica. Non cristiana benché religiosa. Come accade, immancabilmente, in questi casi, temi propri della riflessione cristiana vengono strumentalizzati in un contesto spurio che non solo non è cristiano ma spesso avversa il Cristianesimo. Infatti Keynes ammette francamente la sua avversione al Cristianesimo. In un contributo autobiografico, “Il mio credo giovanile” (1938), Keynes riconosce di essersi culturalmente formato all’insegna della temperie irrazionalista che segnò la cultura europea a cavallo dei secoli XIX e XX e quindi all’insegna della contestazione di quella che egli chiama “tradizione benthamita”, intendendo con ciò indicare il razionalismo positivista che imperava nella cultura anglosassone. Keynes, però, ha commesso l’errore madornale di identificare con la avversata tradizione benthamita il Cristianesimo, che lui riduttivamente percepiva come espressione di atteggiamenti tradizionali ossia conservatori, fino a scrivere: «Noi eravamo soliti cancellare i cristiani come il nemico perché ci apparivano nella veste di rappresentanti della tradizione, della convenzione e della stregoneria. In realtà, era il calcolo benthamita, basato sulla sopravvalutazione del criterio economico, che andava distruggendo la qualità dell’Ideale popolare» (12). Il problema di Keynes, che tuttavia nella matura confessione testé citata sembra aver intuito, nella seconda parte della citata riportata, il suo giovanile errore dell’identificazione della Rivelazione Cristiana con il benthamismo, è stato quello di aver conosciuto il Cristianesimo nella sua edulcorata e falsa forma anglicana ossia in una forma strumentale al potere monarchico ed all’egemonia delle classi abbienti. Da qui la sua avversione al Cristianesimo erroneamente considerato puntello teologico della “convenzione sociale” che, in altra occasione, lo ha portato a protestare «Rimango, e sempre rimarrò, un immoralista» (13).
L’adesione allo schema ternario del millenarismo consentiva a Keynes di nutrire la certezza che l’età della “massima libertà individuale e del minimo controllo”, con tutti i suoi difetti e le sue iniquità sociali, volgeva al tramonto e che il mondo nell’ultima avanzante età avrebbe subito una radicale trasformazione. Nell’incipiente età ultima l’umanità avrebbe risolto definitivamente il “problema economico” ossia il problema del bisogno e della miseria, ponendo fine alla lotta economica tra classi e nazioni, la quale, sosteneva Keynes, non è altro che un terribile pasticcio contingente e non necessario. L’Occidente, pensava Keynes, dispone ormai delle risorse che se ben organizzate possono relegare in una posizione di secondaria importanza il “problema economico”. Keynes invitava a far progredire l’economia capitalista, che rimane comunque la più efficiente finora sperimentata, trasformandola da individualista, come essa si era presentata nel secolo XIX, in sociale. Bisognava trasformare il capitalismo anarchico ed individualista in un capitalismo sociale mediante l’azione dello Stato e la coordinazione internazionale tra gli Stati. In tal modo, profetizzava Keynes nel 1938, entro un secolo sarebbe stato possibile pervenire alla risoluzione del problema economico. La risoluzione di tale problema avrebbe consentito di tornare ai « … nostri problemi reali: i problemi della vita e dei rapporti umani, della creazione, del comportamento, della religione» (14), dove per “religione” Keynes intendeva un complesso di valori etico-estetici derivati dalla filosofia neo-platonica di George Edward Moore (1873 – 1958).
E’ noto che Keynes ha tratto ispirazione per la sua critica alla Legge del Say dalle osservazioni del pastore anglicano Thomas Robert Malthus, il quale, già nel XIX secolo, aveva notato che non è affatto certo che l’offerta crea la sua domanda, come sosteneva il Say, in quanto i ricchi generalmente sono portati a tesaurizzare mentre i poveri, troppo prolifici, devono sopravvivere con le scarse risorse disponibili. Malthus, gnosticamente (la gnosi, nella sua versione pessimista, aborre la vita, laddove in quella ottimista la esalta in termini di volontà di potenza), chiedeva al fine di ristabilire l’equilibrio economico, la castrazione dei poveri e delle razze inferiori, in modo da evitare che esse, proliferando a dismisura, mettessero in crisi il “delicato equilibrio del mondo” ovvero il diritto primario delle classi e delle razze egemoni. Questa eredità malthusiana portò Keynes a considerare la storia come il risultato di una lotta tra le forze distruttive dell’eccessiva fecondità riproduttiva della specie umana e la “forza sovrana delle idee e non quella illusoria degli interessi”. La lotta è quella tra la natura matrigna, che tende a produrre caos, e l’uomo, che ha conquistato evoluzionisticamente la conoscenza e può pertanto imporre un ordine alla natura: «la civiltà è un esile e precario guscio costruito dalla personalità e dalla volontà di pochissimi» (15). In altre parole, è l’uomo che costruisce il mondo secondo le sue intenzioni. Qui riecheggia il prometeismo che serpeggia lungo i secoli moderni.
Secondo Keynes, qualora non si sprecano le risorse nella soddisfazione dei “bisogni relativi” di alcuni, si potrebbe giungere alla soddisfazione dei “bisogni assoluti di tutti”, e, di conseguenza, raggiungere «la nostra destinazione di beatitudine economica». Nardi annota che Keynes in altre occasioni usa, per indicare la promessa felicità mondana, altre significative espressioni, rivelatrici dello sfondo chiliasta e pertanto gnostico nel quale egli elabora la sua riflessione, come “nuovo ordine di cose” (16), “nuova epoca” (17), “luce del giorno” (18), “Terra Promessa” (19), “paradiso in terra” (20). Nella promessa età futura l’umanità avrebbe potuto condurre una esistenza al pari dei «gigli del campo che non seminano e non filano» (21) e sarebbero stati alla portata di tutti «la contemplazione e la comunione in temporali» (22), «la creazione e la fruizione di esperienze estetiche» (23), la ricerca della conoscenza, l’amore, il bene in sé. E’ indubitabile che questa utopia è stata quella che permeato l’état d’ésprit nell’Occidente del “miracolo economico” del secondo dopoguerra. Un’epoca, questa, che è stata caratterizzata da un inedito aumento di produttività e della ricchezza di massa, conseguente alle politiche statuali interventiste, e culminata negli anni sessanta del XX secolo quando l’ottimismo dominava il senso della vita come anche la letteratura, la politica, il dibattito pubblico. La stessa utopia, nella sinistra radicale, si presentava nella forma mitica del “sol dell’avvenire”, che mai, poi, ha effettivamente avuto la sua alba.
Nel suo profetizzare il mondo nuovo futuro, Keynes, come è usuale in chi si adopera per la mimesi gnostica dei temi cristiani, chiedeva una purificazione del cuore ovvero una trasformazione dei valori per liberarci «… di molti dei principi pseudo-morali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli» (24) e tornare invece «ad alcuni dei principi più solidi ed autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’ usura una colpa, l’ amore per il denaro spregevole» (25). Solo che questa restaurazione per Keynes è il frutto dell’autocostruzione umana anziché dell’apertura dell’uomo al miracolo della Grazia di Dio. Qui sta il veleno nascosto dietro il fascino “tradizionale” dell’antiliberismo di Keynes, il quale non può essere accettato insieme al veleno ma solo purificandolo da esso ossia rimettendo a Dio quel che è di Dio e che l’uomo può solo chiedere come dono nella preghiera.
Giustamente il Nardi osserva che, come per molti filosofi nel corso dell’ultimo millennio, dopo Gioacchino da Fiore, anche per Keynes la società futura è l’“età dello spirito”, l’età della perfezione che segue la vittoria finale sul male. Keynes si pone nella linea pelagiana ed ottimista della modernità. Egli ammette esplicitamente di non credere al peccato originale. Al pari di Rousseau e di Marx, anche per Keynes l’uomo è buono per natura benché traviato dalle errate istituzioni socio-economiche. La redenzione dunque sta nella riforma delle cattive istituzioni sociali. La salvezza dell’umanità non è oltremondana ma immanente. Se Marx tuttavia guardava storicisticamente al processo storico come proiettato verso la fine della (prei)storia, Keynes affida tutto all’iniziativa dell’uomo, o di quei pochi saggi che guidano il cammino umano. Marx è determinista, Keynes è volontarista. Entrambi religiosi nel senso gnostico del termine. Keynes si è dedicato all’economia con l’intento di auto-trasformare il mondo. Egli, messianicamente, fa appello alla buona volontà degli uomini e rivela ad essi che possono affrancarsi dalla dannazione economica. Indica la via per la “terra promessa”, per il futuro “paradiso economico”, allo stesso modo nel quale Mosé l’ha indicata agli ebrei. Come Mosé annunciò la Rivelazione di YAHWEH, così Keynes rivela la religione della nuova era dello spirito, che altro non è se non la “religione” neoplatonica di G.E. Moore consistente nell’esercizio e nella contemplazione degli “stati d’animo” dell’amore, della verità, della bellezza. Una religione che non ha alcun bisogno di Cristo e della Sua Grazia.
L’Ordine Naturale Immanente di Hayek ossia una gnosi panteista
Keynes è stato l’economista filosofo della fase statuale del XX secolo, ossia la prima metà del secolo, nella quale la modernità solida giunge a pieno compimento per cedere poi, gradualmente, al postmoderno, alla società liquida di Bauman, laddove invece Hayek, emarginato nell’era dell’egemonia keynesiana, si rivelerà come l’economista profeta della fase post-statuale del secolo scorso, ossia quella ancora in atto, iniziata silenziosamente negli anni ’70 quando l’economia keynesiana sembrò entrare in una irreversibile crisi, e corrispondente al crollo post-moderno delle certezze della modernità. Hayek, nel suo “classicismo mengeriano”, è l’economista della crisi del moderno cui subentra, contro le sue stesse aspettative, anche la fine del liberismo classico travolto dalla finanziarizzazione e dalla globalizzazione. Che in fondo, però, Hayek, con la teorizzazione della “denazionalizzazione della moneta”, ha contribuito a preparare.
Se secondo Keynes l’universo è senza Dio e prelude a un cosmo caotico – sicché l’ordine può unicamente essere posto da un consapevole intervento umano perché la Natura è piuttosto matrigna e, dunque, la civiltà può essere edificata dai pochi iniziati all’idea giusta – per Hayek, invece, l’Ordine, il cosmos, si formano spontaneamente, per autogenesi grazie ad una Natura benefica, una sorta di Dea-Madre che nutre gli esseri viventi. Non un ordine “platonico”, ossia tripartito nella gerarchia del Sacro, del Politico e dell’Economico, ma un “Ordine Naturale Immanente” alla sola terza funzione, coincidente con il mercato autoregolato da intrinseche leggi “provvidenziali” che non derivano da un Kosmos divino o da Dio fondato ma, piuttosto, dal processo evolutivo della Natura che nell’uomo trova il suo apice selettivo. L’uomo si distingue biologicamente dalle altre specie animali in quanto evolve verso l’intelligenza e quindi può pretendere di comprendere le leggi intrinseche della Natura e, una volta comprese, può utilizzarle nella loro benefica provvidenzialità semplicemente lasciando che esse agiscano e lo agiscano. Nella società capitalista l’ordine emerge se sono rispettate le “norme di mera condotta”, le quali sono regole, indipendenti da un fine e intrinsecamente utilitaristiche, che garantiscono a ciascuno la libertà, cioè la possibilità di far uso delle proprie risorse per perseguire i propri fini. Anche Hayeh, come Keynes, è un darwinista, sicché per l’austriaco le norme di condotta sono l’esito di un processo di evoluzione selettiva che ha fatto sopravvivere, tra le tante sperimentate lungo i secoli, soltanto quelle che si sono mostrate capaci di garantire all’umanità l’utilizzo più efficiente delle risorse in modo da assicurare il maggior grado di soddisfazione dei bisogni, altrimenti irraggiungibile.
Nell’economia di mercato, che secondo Hayek è l’ordine naturale e spontaneo emergente dal non ostacolato agire delle efficaci norme di condotta, gli individui – questo insistere sul concetto astratto, irrelato ed irrealistico di “individuo”, che nega la concretezza relazionale della “persona umana” di cui alla Rivelazione abramica, è un carattere indelebile del liberismo – perseguendo ciascuno il raggiungimento del proprio fine egoistico ed utilitario, orientati dal sistema dei prezzi che solo il libero mercato garantisce, sono indotti a scegliere i mezzi di sfruttamento delle scarse risorse disponibili che più di altri presentano una maggiore efficienza. Il mercato, per Hayek, è l’unico meccanismo in grado di trasmettere le informazioni e di coordinare l’agire separato di individui lontani tra loro, che non si conoscono e che ignorano reciprocamente i rispettivi bisogni e le rispettive risorse. Hayek, sulla scorta della scuola mengeriana, senza rendersi conto che si tratta di un elogio alla deresponsabilizzazione etica, chiama “effetto inintenzionale” le conseguenze dell’agire egoistico di ciascuno capace di produrre effetti benefici per tutti, ad iniziare dall’accrescere la capacità di sopravvivenza del genere umano. Il mercato capitalistico, meglio di ogni altro sistema economico finora sperimentato, assicura la sopravvivenza del maggior numero di vite. Con terminologia ragionieristica Hayek elogia il capitalismo per «il calcolo dei costi e (il) … calcolo di vite» (26). Egli, come ricorda il Nardi, scriveva in proposito: «E’ stata la capacità di far crescere numericamente la specie umana che si è rivelata il banco di prova che ha portato per via evolutiva alla selezione del codice etico praticato oggigiorno dal mondo occidentale e capitalistico. Siamo stati indotti ad adottare il codice morale del capitalismo dal fatto che questo era il codice che favoriva di più la crescita della popolazione» (27). Thomas Piketty, per il quale, come abbiamo detto, al contrario, il mercato capitalistico è caratterizzato da potenti forze intrinseche di divergenza basate sulla disuguaglianza, sicché, senza correttivi, la ricchezza tende ad essere accumulata nelle mani di pochi, ha contestato e confutato la convinzione di Hayek per la quale il capitalismo è in grado di assicurare il prolifico benessere generalizzato.
Va osservato che la posizione anti-malthusiana di Hayek gli ha catturato le simpatie della destra cattolica, conservatrice, per la quale i temi pro life, intesi come “principi non negoziabili”, sono al primo posto dell’agenda politica. Il punto debole di tale acquiescenza è lo stesso punto debole della riflessione di Hayek ossia l’incapacità a riconoscere che il mercato capitalistico di per sé, pur migliorando le tecniche di produzione e di scambio, non si è dimostrato storicamente capace di auto-generare ricchezza generalizzata ma, appunto, soltanto concentrazione della ricchezza, da un lato, e progressiva pauperizzazione, dall’altro. Sicché il, certamente, sacrosanto diritto alla vita del nascituro non può costituire da solo l’ispirazione di una politica cristiana se poi della sua sorte, negli anni che il nascituro vivrà, ci si disinteressa perché, tanto, il sistema dei prezzi di mercato farà sì che automaticamente il nuovo nato potrà orientarsi al meglio delle sue possibilità inseguendo le sue egoistiche finalità, preso per mano dalla “mano invisibile” e condotto nel promesso “paradiso”, nel possibile “mondo migliore”, nel quale, grazie al mercato, la ricchezza da scarsa si farà disponibile ed abbondante per tutti. Anche qui, anche nel pensiero di Hayek, orecchie cristianamente attente sono in grado di avvertire il sibilo suadente dell’atavico ingannatore.
Secondo Hayek il processo di evoluzione culturale, che segue lo stesso principio operante nell’evoluzione biologica, ha selezionato quella tradizione morale le cui credenze consentono la massimizzazione della proliferazione della specie umana. Da buon darwinista, Hayek proclama che: «l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale … si fondano sullo stesso principio di selezione: il vantaggio riproduttivo o della sopravvivenza» (28). In Hayek il mercato emerge nell’accezione della scuola austriaca di processo competitivo in cui, a beneficio dell’intero sistema sociale, devono prevalere i più forti e soccombere i più deboli. Con visione tipica del darwinismo sociale, l’economista austriaco spiega quali sono le ragioni che rendono necessaria la salvaguardia delle regole istituzionalizzate dal mercato, in un’ottica di common law, e la limitazione di ogni intervento pubblico attivo: «L’eredità culturale in cui l’uomo è nato consiste di un complesso di modi d’agire o regole di condotta che sono prevalse perché aumentavano il successo del gruppo […]. Non è tanto che l’intelligenza produca delle regole, quanto piuttosto che essa consista di regole d’azione, di un complesso di regole cioè che essa non ha fatto, ma che hanno finito col governare le azioni degli individui perché le azioni che seguivano tali regole si sono dimostrate di maggior successo rispetto a quelle di individui o gruppi rivali» (29).
Quindi per Hayek l’evoluzione culturale continua, con altri mezzi, l’evoluzione biologica. Ma medesimi sono i “fini” e medesimo il principio perché, darwinisticamente, sia la fisiologia umana sia lo sviluppo antropologico, codificato nelle tradizioni culturali, sono l’esito della selezione naturale finalizzata alla conservazione della specie o almeno della maggior parte di individui della specie umana. Le norme di condotta sono evoluzionisticamente selezionate per il loro “human-servival-value”. In questo consiste l’atteggiamento morale di Hayek. Una “morale” utilitaria darwinisticamente fondata, sicché solo un accecamento fideistico può aver portato i suoi estimatori catto-conservatori, come Michael Novak, ad affermare che Hayek nelle scienze economiche avrebbe dispiegato all’uomo un orizzonte etico conforme all’idea biblica di umanità. Ma mentre i catto-hayekiani credono di vedere Luce dove è buio pesto, Hayek è onesto nelle sue affermazioni. Infatti, se il processo evoluzionistico tende verso la massima efficienza nell’uso delle risorse economiche, l’etica in Hayek si riduce allo studio del modo migliore per l’allocazione delle risorse, indipendentemente da criteri ideali di giustizia e solidarietà, sicché l’economia diventa un mero “calcolo delle vite”. Per Hayek la biologia, l’etica e l’economia non sono che un’unica medesima cosa. Pertanto la sua visione può definirsi “bio-econom-etica” in quanto la sua economia è bio-economia e la sua etica è bioetica, in un quadro nel quale l’etica e l’economia sono, darwinisticamente, strumentali alla biologia. L’etica in Hayek non ha alcun fondamento spirituale, religioso, veramente cristiano.
«In questo gioco [il mercato] – egli scrive – ove i risultati dei singoli dipendono in parte dal caso e in parte dall’abilità, è evidentemente insensato definire un risultato giusto o ingiusto. Si tratta di una situazione simile a quella di una gara per un premio in cui si cerca di creare le condizioni per premiare la miglior prestazione ma in cui non si può dire se la miglior prestazione sia la dimostrazione di un maggior merito» (30).
Keynes ed Hayek, le convergenze parallele della prospettiva gnostica
Keynes è un “platonico volontarista” mentre Hayek è un “aristotelico materialista”. Per il primo l’uomo è felice solo in un orizzonte di “buoni stati psico-spirituali” e per raggiungere la felicità deve autocostruire, imponendosi al caos naturale, un mondo nel quale non è più assillato dal primario problema economico. Per il secondo l’uomo ha come obiettivo la sopravvivenza biologica che solo l’automatismo di un ordine provvidenzialmente insito, immanente, nel meccanismo di mercato può garantirgli. Per il primo la natura è caotica e matrigna, per il secondo è panteisticamente benefica, ma per entrambi essa non è dono di un Creatore perché l’uomo si ritrova in essa, heideggeriamente, “gettato” e deve o demiurgicamente modellarla oppure dominarne le implicite leggi agendo con il lasciarsi agire dalla “mano invisibile”. L’uno e l’altro convergono in una prospettiva gnostica che alterna, nell’uno e nell’altro, la linea dell’ottimismo e quella del pessimismo cosmico, che infatti si ritrovano, in forma ed in misura diversa, sia nel primo che nel secondo.
«Keynes … – scrive l’ottimo Adriano Nardi – detestava la società capitalista, mentre Hayek la apprezzava al punto di definirla “la migliore finora esistita”. Keynes temeva l’incremento demografico e riteneva che una popolazione abbondante non potesse che essere un insormontabile ostacolo sulla strada che conduce al Paradiso in terra; Hayek, invece, considerava valore assoluto la massimizzazione della popolazione, talché reputava la libertà – pur per lui tanto importante – nient’altro che uno strumento per l’ottimizzazione del “calcolo delle vite” ed era convinto che l’aumento della popolazione sempre e dovunque ha migliorato il livello di vita (…). Per lui, l’ottimizzazione dell’efficienza economica, garantita dall’economia di mercato, è necessaria alla quantità delle vite; per Keynes, invece, è finalizzata alla qualità della vita delle generazioni future, perché egli reputava massimo valore la “buona vita”, così come la intendevano i filosofi classici, il suo Platone, ovvero, la possibilità di dedicarsi a coltivare gli stati della mente buoni. Mentre per Hayek il conseguimento del fine biologico viene prima del benessere spirituale, perché quel che conta non è garantire a tutti una vita dignitosa né tantomeno assicurare l’uguaglianza e la soddisfazione morale, bensì consentire la sopravvivenza del maggior numero di persone. Hayek pospone la felicità al “calcolo delle vite”, mentre Keynes pospone la felicità oggi al Paradiso in terra domani» (31).
Tuttavia, pur nella loro apparente diversità sotto il profilo delle fonti filosofiche, tanto Keynes che Hayek riconoscono il successo dell’economia capitalista. Per Keynes, opportunamente corretta, essa avrebbe portato alla realizzazione della beatitudine terrena consistente nel godimento universale dei beni etici ed estetici. Per Hayek essa consente una sempre più prolungata durata della vita biologica. In Keynes ad un certo punto, raggiunta la “buona vita” per tutti, che è per lui un altro modo di chiamare il “pieno impiego” garantito dallo Stato tramite il deficit spending con intervento correttivo delle inefficienze del capitalismo individualista, il progresso materiale deve trovare il suo punto di arrivo, essendo stato raggiunto il porto di destinazione dell’umanità verso il quale hanno navigato innumerevoli generazioni sacrificandosi in vista della “terra promessa”. In Hayek, invece, il progresso è senza limiti temporali, proiettato nella storia all’infinito, e darà luogo ad un continuo aumento della durata biologica della vita.
Anche in questa riduzione della moralità all’efficienza economica entrambi, benché da posizioni apparentemente opposte, convergono, dato che il riduzionismo è uno dei tratti caratteristici di un approccio gnostico tendente a svalutare qualsiasi considerazione etico-valoriale trascendente, come ad esempio la verità e la giustizia in quanto assunte per sé stesse. La differenza tra i due sta nel fatto che per Keynes – il cui “platonismo” non è iperuranico quanto “idealistico” ossia “psichico-soggettivo” – l’efficientismo economico gode di una moralità a termine come a termine è, per lui, il progresso umano, mentre per Hayek l’efficientismo economico esprime la massima moralità in una prospettiva storica infinita ossia, vale a dire, in una sorta di eternizzazione intra-storica. Anzi, come osserva argutamente il Nardi, la stessa libertà in Hayek non ha quel ruolo assoluto che pur sembra avere, dato che essa in futuro, nell’interminabile sviluppo dell’evoluzione bio-culturale umana, potrebbe cessare di essere moralmente apprezzabile qualora apparisse, nella storia, qualche altro valore capace di offrire una miglior prova in termini di utilizzo utilitaristico ed efficiente delle risorse economiche e, quindi, di aumentare il “calcolo delle vite”. In Hayek, paradossalmente, la libertà è solo un mezzo per la continuazione del processo biologico evoluzionistico.
Keynes crede che l’umanità non abbia per destino ineluttabile l’economia e che essa debba uscire dalla dannazione biblica del lavoro-pena per ritrovare la benedizione, anch’essa biblica, del lavoro-gioia, massimamente espresso nella creatività umana innestata sulla contemplazione del bene del bello platonicamente intesi. Ma ritiene che questa finalità di liberazione dal problema economico possa e debba essere conseguita dall’uomo con le proprie forze ossia senza alcuna prospettiva di Grazia, di dono dall’Alto. Per questo, una volta raggiunto l’obiettivo, Keynes non vede alcuna prosecuzione storica dello sforzo umano e pensa che, a quel punto, l’umanità sarà arrivata alla fine della storia per dedicarsi soltanto alla contemplazione platonica, tuttavia senza prospettive di eternità trascendente.
Anche Hayek guarda al processo evolutivo della morale come allo strumento per la realizzazione di un paradiso terrestre ma, nella sua prospettiva, non c’è mai termine al possibile andare oltre nella perfettibilità umana. Il “paradiso terrestre” di Hayek è sempre relativo, è sempre soltanto “il migliore dei mondi finora esistiti” e, pertanto, non sarà mai assoluto, non sarà mai il porto finale di approdo, bensì sarà continuamente ed indefinitamente perfettibile nella convinzione che non ci sarà mai un limite al meglio. La natura, secondo Hayek, evolve spontaneamente prima nella dimensione biologica e poi in quella culturale propria dell’uomo, sollecitata finalisticamente al prolungamento indeterminato della durata della vita degli individui della nostra specie. Forse solo se l’uomo dovesse conquistare con le risorse della tecnica e, quindi, mediante la ottimale allocazione delle risorse economiche, l’immortalità biologica il processo evolutivo potrebbe trovare la sua battuta d’arresto, non fosse altro che per il fatto che l’immortalità porterebbe a sicuri problemi di sovra-popolazione e quindi alla necessità, ma solo allora, di fermare la riproduzione della specie umana. Nell’orizzonte gnostico gli apparenti contrari finiscono sempre, in un modo o nell’altro, per incontrarsi, sostenendosi dialetticamente, così non deve meravigliare se, in ultima istanza, anche Hayek, da posizioni alternative a quelle keynesiane, finisce per approdare, pur per ipotesi, allo stesso malthusianesimo di Keynes.
Sia Keynes sia Hayek sono, dunque, gnostici. La gnosi di Keynes riecheggia istanze platoniche benché mediate dall’idealismo moderno e quindi dall’idea che la realtà è una proiezione della coscienza umana la quale, pertanto, ha il potere di cambiarla dato che è essa a determinarla. La gnosi di Hayek è naturalistica, biologica: se non si ostacola il processo naturale tramite politiche che impediscono la libertà, il perfezionamento bio-culturale illimitato del genere umano è a portata di mano. Per Hayek la salvezza è immanente alla natura, come se essa avesse iscritta in sé quale ultima finalità del suo divenire la salvezza biologica dell’uomo. In Hayek la natura è il soggetto della storia mentre l’uomo ne è agito, ne subisce passivamente l’azione che è di per se sempre benefica. Sicché l’uomo deve guardarsi dalla tentazione di divenire l’attore della storia opponendosi intenzionalmente al processo naturale mediante un atto di “presunzione costruttivista”, sempre potenziale causa dell’interruzione del benefico processo naturale. All’uomo, pertanto, non spetta altro che lasciare evolvere lo spontaneo processo salvifico naturale che, nel mondo economico, corrisponde al “laissez faire”, anche quando, perché può capitare, questo processo comportasse talvolta dei sacrifici umani. Infatti, anche per Hayek, in questo ancora una volta convergendo da strade diverse con Keynes, la natura, benché ordinariamente benefica, può capovolgersi in matrigna. Nella prospettiva gnostica le polarizzazioni si richiamano a vicenda e si rovesciano le une nelle altre senza sostanziale soluzione di continuità. Il governo di Sua Maestà Britannica nel 1845, posto internazionalmente sotto accusa per l’inerzia dimostrata a fronte della ecatombe della morte per inedia nell’Irlanda decimata dalla carestia determinata da una malattia delle patate, che aveva travolto la già povera economia dell’isola, all’epoca colonia inglese, si difese replicando agli accusatori che bisognava lasciar fare alla natura il suo corso, anche se questo comportava migliaia di vittime. La prospettiva alla quale faceva riferimento il governo inglese, a metà del XIX secolo, era già quella che un secolo dopo Hayek avrebbe caldeggiato nella sua riflessione. Verrebbe da osservare che tra l’indifferenza liberista mostrata dal governo inglese, in quell’occasione, per le migliaia di vittime della fame e della povertà, e l’attivismo costruttivista del governo di Stalin che, nel tentativo di realizzare il totalitarismo, provocò milioni di morti causando, con la sua politica, la grande carestia nell’Ucraina degli anni ’30 del secolo scorso, non c’è, quantità di vittime a parte, nessuna sostanziale differenza. Si svelano, così, per chi ha l’onestà intellettuale e spirituale di riconoscerlo, le comuni, malvage, omicide (nel senso di Gv. 8,44), radici di liberismo e comunismo.
«In Hayek – scrive ancora Adriano Nardi – la natura è fatta Dio; un Dio, però, che può essere praticamente rinnegato dagli uomini, se essi vogliono farsi Dio, disfacendo, nel perseguimento di questo intento fallimentare, il “divino” ordine spontaneo. Nella visione di Keynes, invece, non esiste un ordine naturale, non esiste un progresso spontaneo, non esiste un Dio né personale né impersonale. Però l’uomo, ovvero qualche singolo uomo, un individuo, può farsi Dio, determinando – tramite la persuasione di un congruo numero di suoi simili – il corso della storia, al fine di conseguire il Paradiso in terra (…). Anche nel caso delle teorie di questi due autori, piuttosto che di filosofie della storia, forse sarebbe più consono parlare di vere e proprie, seppur camuffate, teologie della storia. Perché, invero, ed è risaputo, quasi mai sotto la negazione del (o l’indifferenza per il) trascendente, non si cela qualche divinità, seppur all’insaputa dell’autore; che ne è, purtuttavia, l’artefice» (32).
Per Hayek, Keynes è uno di coloro che vogliono farsi Dio rinnegando la Divina Natura e l’ordine provvidenziale fino a compromettere lo spontaneo sviluppo del progresso biologico indefinito ed infinito della specie umana che la Dea Natura promette all’uomo se egli l’adora ossia non ne ostacola la volontà ovvero il suo presunto benefico corso. Per Keynes, Hayek è tra quanti vogliono impedire all’umanità di deificarsi e, pertanto, di costruire l’Eden terreno perché affidano tutto ad un supposto ordine spontaneo che pretende di ingabbiare le autopotenzialità umane. Nella modernità la gnosi da religiosa, come era nell’antichità, si è fatta più filosofica, più politica, più sociologica ed economica. Da negativa ha spesso assunto caratteri positivi. Da pessimistica è diventata ottimistica. Dal rifiuto del mondo è passata alla perorazione della palingenesi mondana e da elitaria, quale era, è diventata di massa. Ma questo percorso è stato possibile perché il suo fondo religioso, religiosamente spurio, è rimasto inalterato con la sua pretesa di identificare nell’indistinta unità le polarizzazioni, i “doppi contrari”, che di quell’unità, priva però di Essere, quindi Non Vivente, pertanto Vuota, sono, nella sua prospettiva, le emanazioni nella “caduta”. Da qui, partendo da questo assunto, è spiegabile perché mai, nel corso dello sviluppo del pensiero moderno, anche nelle dottrine economiche, le posizioni contrarie si risolvono e si rovesciano le une nelle altre, sostenendosi vicendevolmente in una dialettica che alla fine le riconduce ad unità informe.
Un giudizio conclusivo
Riconosciuto il comune sottofondo gnostico del pensiero di Keynes e di Hayek, dobbiamo cristianamente domandarci, per dirla con san Paolo, se, dopo l’esame, c’è qualcosa di buono da conservare nella prospettiva della fede rivelata. Ci troviamo, in merito a Keynes ed Hayek, nella stessa posizione nella quale i Padri della Chiesa si trovarono a confronto delle dottrine filosofiche egemoni e prevalenti nel mondo tardo-ellenistico dell’ultimo paganesimo. Essi innanzitutto selezionarono tra quelle dottrine che permettevano un’apertura verso un Orizzonte più alto e quelle che invece la escludevano. Per questo rigettarono l’epicureismo. Come pure rigettarono l’aristotelismo perché alludeva ad un immanentismo benché imperfetto. Fu, infatti, proprio il sussistere, nel pensiero dello Stagirita, della distinzione ontologica tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto a rendere possibile più tardi il suo recupero in una riformulazione in chiave cristiana. Questo recupero sarebbe stato effettuato solo nel medioevo, con la Scolastica. All’epoca dei Padri, Aristotile appariva irrimediabilmente immanentista, come del resto apparve inizialmente anche in epoca medioevale quando le sue opere ci furono restituite, per la mediazione bizantina, dall’Islam. Ai Padri, Aristotile risultò inutilizzabile in chiave teologica. Si prestava invece ad una tale utilizzazione il platonismo, anche nella forma neoplatonica, plotiniana. Ma a condizione di evitare l’eccesso di disprezzo “apofatico” del mondo, platonicamente inteso come “caduta”. Per questo i Padri al “Plato paganus” opposero un “Plato christianus” costituito da tutto quanto nel pensiero del grande ateniese, e dei suoi seguaci neoplatonici, era apertura verso la Trascendenza biblica, verso l’ontologia mosaica, apofatica e catafatica al tempo stesso, del “Io Sono Colui che Sono”.
Traslando il metodo patristico dal piano della Teologia a quello del Politico, la concezione tripartita di un Ordine, di un vero Kosmos – che contempla gerarchicamente i tre ambiti del Sacro, dal quale promana l’Etica eterna, del Politico, dal quale promana l’Autorità politica pur soggetta ad esser declinata secondo le sue transeunti forme storiche, e dell’Economico, dal quale promana la sfera della sussistenza materiale degli uomini sottoposta ai primi due ambiti – corrisponde meglio alla Verità Eterna piuttosto che una concezione la quale privilegiasse soltanto gli ambiti del Politico e dell’Economico o, addirittura, privilegiasse soltanto l’ultimo ambito, quello Economico. Naturalmente, qui, parliamo di ambiti, di sfere, dell’umano e non certo, come pure è stato nel passato dell’umanità, di caste chiuse ed incomunicabili. Il sistema pre-moderno degli ordini per caste è definitivamente tramontato proprio perché esso era solo una forma transeunte del modello archetipico al quale si richiamava Platone. Ma l’archetipo vale anche nel pieno riconoscimento della moderna democrazia. Anzi dovrebbe in essa valere ancor di più, come sistema di sfere ontologiche, non certo come sistema castale, proprio per evitare le derive nichiliste potenzialmente insite nella democrazia liberale. Che è esattamente il pericolo sottolineato dal Magistero Sociale della Chiesa, sin dall’ottocento ma anche nelle più recenti encicliche di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Orbene, alla luce di tale premessa, è del tutto evidente che Hayek, con il suo assoluto immanentismo, con il suo “Ordine Naturale Immanente” del e nel Mercato, è impossibile da accogliere in una prospettiva teologica. Qui non c’è né “ma” né “se” che alla lunga tengano. Quella di Hayek è una concezione che privilegia, anzi concepisce, soltanto la sfera dell’Economico e per questo abbiamo accostato Hayek a Marx. Ed anche se Hayek ammette l’esistenza delle altre sfere, nega però ogni possibilità di interferenza tra esse e l’Economico, ossia tra Sacro e Politico, da un lato, e Mercato, dall’altro. Ogni interferenza è, per Hayek, un male. I catto-liberisti possono fare qualsiasi salto mortale, nel tentativo di accreditare Hayek, tuttavia resta l’evidenza di un immanentismo chiuso alla Trascendenza, anche laddove non assuma un volto feroce e persecutorio ma soltanto indifferente.
Il pensiero di Keynes invece, come si è visto, ha un che di “platonico”, benché nel senso idealista moderno più che nel senso classico. Questo rappresenta un elemento da non sottovalutare per ricondurre il suo pensiero – una volta denunciate chiaramente tutte le aporie in esso contenute – in un alveo che sappia andare oltre i soli due ambiti da esso contemplati ossia, in ordine gerarchico, il Politico e l’Economico. Manca a Keynes il Sacro, nella sua accezione abramica, quindi anche cristiana, di “Santo/Sacro”. In altri termini, Keynes non concepisce nulla al di sopra dello Stato, dell’Autorità politica, che così diventa una mera auto-costruzione umana invece di corrispondere all’Ordine, al Kosmos, tripartito della Tradizione Metafisica.
Ma laddove al Politico si riconosce una apertura al Sacro, che è anche una limitazione alla sua potenziale pretesa totalitaria, allora tutto il discorso cambia per approcciare inedite prospettive di autentica Trascendenza, come accade nella Dottrina Sociale Cattolica. Per la quale se lo Stato non è tutto ed ha i suoi limiti, d’altro canto esso ha il suo legittimo e sacrosanto ruolo che, nelle condizioni della modernità e, nonostante la tendenze destatualizzanti o post-statuali del postmoderno, non è semplicemente di regolazione, come vorrebbero, ad esempio, gli ordoliberali, compresi quelli cattolici. Per la Dottrina Cattolica lo Stato ed il Politico hanno un fondamento organico, ad immagine del Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa. Nessun individualismo è ammesso mentre è esaltata la persona umana proprio perché essa non si da senza relazione comunitaria, sia nei corpi intermedi sia nel “corpus politicum perfectum” della Comunità Politica, per usare un linguaggio scolastico. La quale, a partire dal XVI secolo, è lo Stato nazionale, per quanto oggi, come accennato, stretto tra forze destrutturanti globali e forze destrutturanti locali.
Per questo, altrove, abbiamo scritto: «La rivalutazione di Keynes è cosa buona ed opportuna. Tenendo però, cattolicamente, presenti alcune riserve, non tanto sui contenuti economici del suo pensiero quanto piuttosto su quelli filosofici e teologici. L’economista inglese era certamente mosso da un anelito di eticità che egli, giustamente, vedeva assente nel capitalismo. Moralità che Keynes aspira ad introdurre nel sistema capitalista, correggendolo mediante l’intervento pubblico e senza sfociare in utopie comuniste. Il punto sta nel fatto che Keynes trae la sua esigenza di eticità da un vago e confuso spiritualismo tinto di autosufficienza umanitaria. Questo “spiritualismo” risente, in Keynes, di un evidente influsso platonico e, per tale via, “gnostico”. Mentre Hayek … postula … un benefico ordine intrinseco all’economia, ma, appunto, immanente e pertanto non trascendente o eterofondato …, Keynes … individua nell’imperfezione dell’economia di mercato … la manifestazione … di una disconnessione originaria del mondo, ossia del male o del disordine intrinseci … alla realtà come data, e perviene, pertanto, alla convinzione che l’uomo … può e deve, senza sperare in sostegni provvidenziali, “correggere” la realtà matrigna. Se Hayek, convinto dell’infallibilità della “mano invisibile”, sbaglia, platealmente, negando l’imperfezione che, con il peccato, è entrata nel mondo, Keynes, per conto suo, erra laddove ritiene che questa imperfezione sia connaturata al mondo. Se Keynes avesse incontrato la fede cattolica ne avrebbe tratto giovamento il suo stesso pensiero scientifico perché avrebbe ben compreso che l’imperfezione del mondo non è originaria, non è intrinseca alla realtà, ma è in esso subentrata a causa del peccato originale dell’umanità, ossia della pretesa di autonomia assoluta dall’Alleanza, e che solo ripristinando, nella Grazia di Cristo, l’Alleanza – la quale svela all’uomo da un lato l’illusorietà di qualsiasi ordine, compreso quello di mercato, che si pretende immanente e dall’altro lato la doverosità ma anche i limiti morali, in una visione spirituale e culturale aperta alla Trascendenza, dell’agire “correttivo” umano –, è possibile, senza cadere in utopie “perfettiste” umanitarie, “coltivare il giardino dell’Eden” nella Giustizia e nell’Amor Dei. Ma Keynes non sembra essersi mai interessato alla fede cattolica. Egli è rimasto legato ad una visione platonica della vita. Il suo obiettivo, nient’affatto disprezzabile, era quello di rendere effettivo il diritto per ciascuno di godere del buon vivere, consistente nella ricerca del sapere filosofico e spirituale. Per assicurare il buon vivere a tutti, è tuttavia indispensabile soddisfare universalmente i bisogni economici primari. Il suo interesse per l’economia muoveva da questa utopia umanitaria, che tuttavia … rivela, pur nello sviamento imitativo, un retroterra di cristianesimo secolarizzato, essendo tale in sostanza l’umanitarismo. Questo è, a nostro giudizio, il punto debole del keynesismo classico, tuttora trascurato dagli economisti neo-keynesiani, che in passato ha portato, tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del XX secolo, a caricare le politiche di intervento dello Stato e di deficit spending di eccessive attese millenaristiche, ponendo sui bilanci statali il dovere di soddisfare troppi presunti diritti, in uno sfogo di libertarismo relativista, e non più solo quelli primari ed essenziali all’istruzione, al lavoro, alla salute, alla vecchiaia serena che ogni comunità politica degna di tal nome ha l’effettivo dovere di assicurare. (…). La nostra preferenza per la prospettiva keynesiana rispetto a quella liberista … viene dall’evidenza che l’impostazione … platonica di Keynes offre maggiori aperture alla Trascendenza cristiana che non l’immanentismo puro dei liberisti. (…) il confuso e spurio neoplatonismo keynesiano offre perlomeno una opzione di tipo religioso, benché vagamente spiritualista. Keynes affermava che «il capitalismo moderno è assolutamente non religioso». Un cattolico non di sinistra come Augusto Del Noce, e noi con lui, avrebbe sottoscritto senza indugi una tale affermazione. Infatti il grande filosofo cattolico ha individuato nella società occidentale il luogo storico nel quale si era messa a punto la reificazione completa, sotto forma di mercificazione, dell’uomo. Al contrario, un medesimo anelito ad una morale che non sia quella, che poi vera morale non è, utilitarista non sussiste nell’analisi di Hayek (…). Ora, se è vero che anche i presupposti filosofici di Keynes … sono ambigui, rimane il fatto che tra l’assoluto immanentismo immoralistico, o almeno a-moralistico, hayekiano ed il platonismo etico keynesiano, un cattolico, dovendo scegliere, non può che scegliere la seconda prospettiva e sforzarsi, sulla scorta di quanto fecero a suo tempo i Padri della Chiesa, di purificarla dalle sue aporie pseudo-teologiche per meglio fondarne le analisi economiche. (…). Pertanto, al di là delle non trascurabili deficienze filosofiche dello stesso Keynes e … dei keynesiani “millenaristi”, quel che deve … interessarci sono le idee economiche di Keynes, le soluzioni da lui, a suo tempo, proposte per far fronte alle inefficienze evidenti del libero mercato nell’assicurare il tendenziale pieno impiego e la pace sociale» (33).
Una religiosità spuria, come quella di Keynes, può dunque essere, nonostante tutto, viatico per raddrizzamenti che fanno leva su quanto di “autentico”, benché infangato, può sussistere in essa. Sulla scorta della esortazione di san Paolo: “esaminare ogni cosa per tenere ciò che è buono” (1Tess. 5,21). Ovvero prendere ciò che, pur in origine alieno, è riconducibile alla Rivelazione perché, quasi sicuramente, nasconde qualcosa di appartenente ma accidentalmente separato da Essa. Come, appunto, lo abbiamo testé ricordato, hanno fatto i Padri della Chiesa nel loro confronto/scontro con la tradizione (neo)platonica, che era una fonte sicura di gnosi spuria.
Pio XI nella Quadragesimo Anno (1931) elogiava ed al tempo stesso criticava l’esperienza corporativista del fascismo (nn. da 91 a 96). Ne elogiava ciò che era di essa riconducibile al magistero sociale cattolico, ispirato alla Rivelazione. Ne criticava gli aspetti che da esso lo allontanavano perché radicati in origini spurie. Ma, alla fin dei conti, la speranza di Pio XI – e di tanti cattolici del tempo – era quella di una “purificazione” dell’esperimento corporativo. Quest’ultimo fallì nella misura in cui resistette alla auspicata purificazione. Allo stesso modo, il keynesismo come mera teoria economica può essere recuperato ad una teologia cattolica del Politico nella misura in cui si ammette che al di sopra dello Stato, ossia della sfera del Politico, vi è la sfera del Santo/Sacro che lo limita verso l’alto, come d’altro canto i corpi intermedi, nello Stato autonomamente inclusi piuttosto che fagocitati, lo limitano verso il basso.
Allo Stato si deve riconoscere un suo legittimo, naturale, ruolo dai contorni certamente più incisivi di quelli ipotizzati dai fautori dello Stato minimo. Pio XI nella predetta enciclica sociale lo ha chiaramente affermato, al n. 109, dove si dice che lo «Stato … dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia».
Un intelligente e coerente tomista, il padre domenicano Raimondo Spiazzi, non esita a riconoscere che: «Specialmente nella “Teoria Generale”, che è l’opera principale di Keynes, si effettua il passaggio dal liberismo economico della scuola di Cambridge a … l’intervento pubblico per risolvere i fondamentali problemi di ordine economico-sociale. (…). Lo scopo principale di Keynes era quello di ottenere la piena occupazione delle energie del lavoro mediante interventi statali, giacché il processo spontaneo non è in grado di assicurarla. Ciò vale soprattutto in favore dei lavoratori … che non riescono da soli a entrare in nuovi strati operativi quando quello a cui appartengono entra in crisi. In questo la teoria di Keynes, criticata e criticabile in certi suoi risvolti e nelle applicazioni che ne sono state fatte, è consona alla concezione della dottrina sociale della Chiesa, per la quale il lavoratore non è un mero strumento di produzione, ma il fine del sistema economico, che deve essere orientato non solo a soddisfare le sue esigenze di consumo, ma a garantire il massimo spazio all’affermazione della sua personalità» (34).
Un altro pensatore e politico cattolico, di solide basi tomiste, Giorgio La Pira sposò come possibile alla luce del Vangelo la politica keynesiana. In un articolo pubblicato nel 1949 (35), La Pira ha ricordato quel che molti cristiani tradizionalisti hanno oggi dimenticato ossia le origini tradizionaliste del movimento sociale cattolico nel XIX secolo. Sulla base di un solido tomismo in quell’articolo La Pira delineò il fondamento teologico per una politica sociale cristiana capace di fuggire dalla stretta conservatorismo/progressismo. In fondo La Pira aveva intuito che Keynes, molto ambiguo da un punto di vista filosofico, era un conservatore ma intelligente, dato che il suo obiettivo era quello di salvare l’economia di mercato dalle proprie contraddizioni ed inefficienze sociali, senza cedere ad utopie sul tipo di quelle marxiane. Da qui l’esigenza che il fiorentino sentì di consegnare al keynesismo economico i solidi fondamenti dei quali esso mancava e senza dei quali esso si espone a diventare preda di strumentalizzazioni di parte. Perché se è vero che è necessario rendere la Comunità politica indipendente dai mercati finanziari – ossia recuperare sovranità monetaria allo scopo di praticare il deficit spending – è anche necessario avere una classe dirigente che sappia poi usare bene la sovranità recuperata. Usarla per le infrastrutture e non per sovvenzionare le politiche gender, ad esempio.
«Il documento inequivocabile della presenza di Cristo in un’anima e in una società – scriveva La Pira in quel suo intervento – è stato definito da Cristo medesimo: esso è costituito dalla intima ed efficace “propensione” di quell’anima e di quella società verso le creature bisognose. Vi sono disoccupati? Bisogna occuparli. La parabole dei vignaioli è decisiva in proposito: tutti i disoccupati che nelle varie ore del giorno oziavano forzatamente nella piazza “perché nessuno li aveva ingaggiati: nemo nos conduxit!” furono occupati; esempio caratteristico di “pieno impiego”: nessuno fu lasciato senza lavoro (Mt. 20,7). Vi sono creature bisognose? Affamati? Assetati? Senza tetto? Ignudi? Ammalati? Carcerati? Bisogna tendere ad essi efficacemente il cuore e la mano (Mt. XXV, 31-46): l’esempio di questa “propensione” all’intervento è fornito dal Samaritano: scese da cavallo e prese minutamente cura del ferito (Lc. 34). E si badi: non si tratta soltanto (come spesso si crede) di atti di carità confinati nell’orbita di azione di singoli: impegno di amore, cioè, che investe soltanto le singole persone: no, si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l’intiera struttura e la essenziale finalità del corpo sociale. Costruire una società cristianamente significa appunto costruirla in modo che essa garantisca a tutti il lavoro, fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il “pane quotidiano” (cioè vitto, alloggio, vestiario combustibile, medicine, per sé e per la propria famiglia). Solo così si può realizzare il fine che san Tommaso assegna a una società cristiana: garantire a tutti la possibilità di quel “riposo” restauratore e della preghiera che è l’atto che segue. Per dir così, al lavoro, che costituisce l’operazione ultima, la più delicata e la più pacificante e gioiosa della persona. E’ questa una premessa che gli uomini di governo devono tener ferma nella loro mente: stella polare della loro azione politica, giuridica, finanziaria: dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a tutti; sopra queste finalità prime, improrogabili, elementari, deve essere costruito l’intero edificio dell’economia, della finanza, della politica, della cultura: la libertà medesima, respiro della persona, è in certo modo preceduta e condizionata da queste primordiali esigenze del lavoro e del pane. Orazione fondamentale del Signore: Dacci oggi il nostro pane quotidiano! (…).Il perno di tutta la nuova teoria economica sta qui, Keynes esplicitamente lo dice: l’occupazione dipende dalla spesa, e la spesa può essere di due specie: spesa di consumi, spesa per l’investimento. Quel che viene risparmiato, ossia quel che non viene speso in beni di consumo, crea occupazione soltanto se viene investito, o cioè speso per accrescere l’attrezzatura di beni capitali, quali le fabbriche, i macchinari, le navi, o ad accrescere le scorte di materie prime (Beveridge, op. cit. §120). Proporzionare la spesa “e, quindi, la produzione” alla occupazione: ecco il problema. (…).Anzitutto, chi opererà questo proporzionamento? Basterà, cioè, che lo Stato decida alcuni provvedimenti finanziari economici e politici a favore dell’iniziativa privata perché si operi automaticamente la spesa voluta e, perciò, il desiderato assorbimento della manodopera disoccupata? No: che lo Stato abbia il dovere di favorire l’iniziativa privata in modo da orientare, stimolarne e accelerarne il ritmo produttivo e, quindi, la capacità di spesa e di occupazione, non c’è dubbio; ma non v’è parimenti dubbio che per questa via indiretta non si opererà mai il pieno impiego della manodopera: “l’automatico proporzionamento” è una di quelle pseudoarmonie economiche che l’esperienza dolorosa e permanente della disoccupazione ha sempre smentito. “La rivoluzione operata nel pensiero economico da J.M. Keynes” dice Beveridge, op. cit. §140, ”e aiutata dall’esperienza degli anni dopo il 1930 sta nel fatto che non viene più assunta come sicura l’adeguatezza della domanda di manodopera. L’analisi keynesiana porta alla conclusione che, anche astraendo dalla depressione ciclica, vi può essere deficienza cronica o pressoché cronica nella domanda complessiva di manodopera, per cui la piena occupazione si presenta fuggevolmente in casi rari (cfr. §25; §120 e §126). Non bastano, quindi, i provvedimenti del primo tipo: bisogna prenderne altri di tipo diverso. Bisogna, cioè, che lo Stato intervenga direttamente con un piano organico di investimenti capaci di operare, a scadenze determinate, il graduale assorbimento della manodopera disoccupata; questi “massicci” investimenti pubblici costituiscono, del resto, uno stimolo efficacissimo per gli investimenti privati. Il proporzionamento, perciò, della spesa all’occupazione non può essere determinato e attuato che dallo Stato: spetta al governo la determinazione del quanto della spesa (in base al numero discriminato dei disoccupati), calcolando la parte di spesa indiretta (operata dall’iniziativa privata per effetto dei provvedimenti di cui si è parlato) e quella di spesa diretta (mediante piani organici di attività produttiva pubblica). (…). La virtù sociale del risparmio da parte di una persona dipende dal fatto che vi sia qualche altro che desidera spendere tale risparmio. Beveridge, op. cit. §123), ed è anche una legge della vita morale: Non vogliate tesaurizzare, dice categoricamente il Vangelo (Mt. VI, 19). La condanna del risparmiatore avaro è tremendamente rappresentata nel pauroso che empì i suoi granai senza pensare alla morte che lo attendeva (Lc. XII, 16): risparmiare per spendere o far spendere (il talento non doveva essere sotterrato ma almeno consegnato ad altri capaci di metterlo a frutto (Lc. XIX, 22; Mt. XXV, 14-30); questa è la “politica economica e finanziaria” del Vangelo. (…).Ma tutto questo presuppone una cosa: che lo Stato si assuma questo compito nuovo di assicurare ai cittadini il lavoro (e il pane che ne deriva) e, quindi, di “regolare” adeguatamente, attraverso la spesa, la domanda di lavoro (Beveridge, §180; §372; §31). L’assunzione di tale compito fondamentale produce trasformazioni profonde nella struttura del governo in genere e in quella dei Ministeri finanziari (e della spesa) in ispecie. Il governo diventa così davvero quello che già san Tommaso preconizzava: l’architetto del bene comune; il garante, per tutti, del lavoro e del pane. (…).Spesa fatta, occupazione creata, produzione incrementata, sofferenze lenite, energie e ricchezza moltiplicate, benedizioni di Dio ricevute! Vale proprio la pena. (…) se il governo può dare ad esse una risposta positiva, allora la “crisi” sarà risolta e il governo “attirando sopra di sé le benedizioni di Dio e della povera gente” farà come il sapiente costruttore del Vangelo: costruirà saldamente l’edificio sopra la roccia (Mt. VII, 24-29). Se il governo darà ad esse una risposta negativa, allora la “crisi” assumerà dimensioni più vaste e il governo farà come lo stolto costruttore del Vangelo: costruì l’edificio sulla sabbia, venne la tempesta e vi fu grande rovina (Mt. VII, 24-29)».
La domanda finale è per i catto-conservatori di oggi, che il Cristianesimo e il tomismo hanno assoggettato alle politiche neoliberiste dimenticando l’originaria ed essenziale inconciliabilità tra Rivelazione e liberalismo economico: avete mai letto parole più cristiane e più tomiste di queste (36)?
Luigi Copertino
NOTE
- Adriano Nardi ha pubblicato il suo denso saggio in appendice al quarto volume dell’opera in più volumi di Innocenti La gnosi spuria- Il Novecento, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2011, con il titolo “Il fermento gnostico nelle dottrine economiche del XX secolo”, pp. 411 – 419. Le citazioni di Keynes (salvo quelle da “Il mio credo giovanile”) ed Hayek sono tratte da questo saggio.
- Cfr. John Maynard Keynes “Esortazioni e profezie”, Il Saggiatore, Milano, 1968, nuova edizione 2017.
- Gioacchino da Fiore, abate calabrese cistercense vissuto nel XII secolo, che Dante, in Paradiso Canto XII vv. 140-141, loda come “di spirito profetico dotato”, è beato per la Chiesa Cattolica. L’interpretazione chiliasta delle sue dottrine, sorta nel suo ambiente, non sono da attribuire a lui ma ai suoi troppo zelanti seguaci. Un po’ come è accaduto nel caso dei “francescani spirituali” che deviarono in senso anti-ecclesiale il messaggio, perfettamente ortodosso, di Francesco d’Assisi o nel caso di Valdo la cui predicazione, simile a quella dell’Assisiate, fu completamente stravolta dai suoi seguaci proprio quando lo stesso Valdo, in obbedienza alla Chiesa, si ritirava in silenzio. Gioacchino da Fiore era, semplicemente, nella linea monastica di un recupero del senso ascetico contro la mondanizzazione della Chiesa e, per questo, si è spinto fino ad una interpretazione non più agostiniana della teologia della storia individuando in tre età successive la manifestazione storica della Santissima Trinità. Gioacchino non voleva certo mettere in discussione, come fecero i sui ereticali seguaci, l’Unità della Trinità né, marcionisticamente contrapporre Antico e Nuovo Testamento, dei quali anzi nella sua opera principale sottolinea le concordanze, o l’età della Chiesa gerarchica all’età futura della Chiesa spirituale che lui credeva di leggere nelle profezie bibliche, ad iniziare dall’Apocalisse con il suo riferimento al “millennio”. Benché la sua canonizzazione è rimasta incompiuta a causa dei sospetti che i suoi seguaci fecero ricadere su di lui, Gioacchino è stato beatificato proprio perché egli si sottomise completamente all’Autorità papale dichiarandosi pronto a riconoscere tutti gli eventuali errori che la Chiesa avesse rinvenuto nei suoi scritti. Mentre Gioacchino, che pare avesse profetizzato la futura comparsa degli ordini domenicano e francescano – egli moriva proprio quando Francesco d’Assisi era prigioniero in Perugia e iniziava a maturare la sua conversione mistica –, rigettava l’interpretazione millenaristica ereticale dell’Età dello Spirito Santo, che egli quindi, nonostante ogni possibile equivoco che rendeva difficile l’equilibrio per mantenersi nell’alveo canonico, non intese mai in senso antigerarchico ed antiecclesiale o in opposizione-superamento del Figlio e del Padre, ma solo nel senso di una processione temporale che rifletta la processione eterna delle Tre Persone Divine, furono i suoi seguaci radicali a persistere in una esegesi chiliastica ed ereticale puntualmente condannata dalla Chiesa. Se il Concilio Lateranense nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo di un’opera sulla Trinità falsamente attribuita a Gioacchino, Papa Innocenzo III nel 1216 con propria bolla ingiungeva di non infangare il nome del monaco perché considerato da Roma vero cattolico. Papa Onorio III, dal canto suo, con una bolla del 1220, lo dichiarò perfettamente cattolico onde distinguerlo dai gioachimiti che pretendevano di essere i soli e veri interpreti dei suoi scritti.
- Cfr. Eric Voegelin “La nuova scienza politica”, Borla, Roma, 1999.
- Cfr. E. Voegelin, op. cit., p. 147.
- Cfr. E. Voegelin, op. cit., p.149.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 255.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 256.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 412.
- Cfr. J. M. Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, Rosenberg & Sellier, Torino, 1983.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 281.
- Cfr. J. M. Keynes, “Il mio credo giovanile”, 1938.
- Cfr. J. M. Keynes, “Politici ed economisti”, Einaudi, Milano, 1974, p. 392.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 12.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1974, p. 393.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1983, p. 45.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1983, ibidem.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 283.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 280.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 236.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 282.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1974, p. 380.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1974, p. 371.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 281.
- Cfr. J. M. Keynes, op. cit., 1968, p. 282.
- Cfr. Friedrich August Von Hayek, “The Fatal Concept. The Errors of Socialism”, Routledge & Kegan, London, 1988, p. 132.
- Cfr. F. A. Hayek, op. cit., 1988, pp. 62-63.
- Cfr. F. A. Hayek, op. cit., 1988, p. 26.
- Cfr. F. A. Hayek, “Legge, legislazione, libertà”, Il Saggiatore, Milano, 2010, pp. 25-26.
- Cfr. F. A. Hayek, “Legge, legislazione e libertà, op. cit., p. 335.
- Cfr. A. Nardi “Il fermento gnostico nelle dottrine economiche del XX secolo”, in E. Innocenti “La gnosi spuria- Il Novecento”, op. cit., p. 416-417.
- Cfr. A. Nardi “Il fermento …” op. cit., in E. Innocenti “La gnosi spuria… ” op. cit., p. 418.
- Cfr. Luigi Copertino “La tomba dell’Europa? Una guida per i perplessi nella crisi finanziaria globale”, Il Cerchio iniziative editoriali, Rimini, 2013, pp. 17-21.
- Cfr, Raimondo Spiazzi, a cura di, “Enciclopedia del pensiero sociale cristiano”, Edizioni Studio Domenicano, 1992, p. 430.
- Cfr. Giorgio La Pira “L’attesa della povera gente – la politica economica e finanziaria del Vangelo” in “Cronache sociali”, n. 1, del 15 aprile 1950. Ora in Federico Caffè, “La dignità del lavoro”, a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, Roma 2014. Il grande economista pescarese, misteriosamente scomparso negli anni ’80, fu collaboratore delle “Cronache sociali” di La Pira. Forse, per questo, egli definiva il suo pensiero economico un “cristianesimo laico”. Il pensiero economico di La Pira è un tentativo di leggere cristianamente il Politico. Ora, il Vangelo non è esclusivo di una parte politica e pertanto anche nelle posizioni di Sturzo c’erano verità evangeliche. Tuttavia lo scontro tra Sturzo e La Pira evidenzia la distanza che separa i cattolici liberali dai cattolici sociali. Solo la partigianeria neoliberista ha potuto dipingere questi ultimi come “cattocomunisti” laddove essi cercavano soltanto di recuperare al Vangelo le giuste istanze propriamente evangeliche che la sinistra aveva usurpato al Cristianesimo, a quello più tradizionalista, più saldamente tomista. I cattolici sociali, oltre che dalla scelta religiosa, piuttosto mutuavano molte idee dall’esperienza degli anni ’30. Tra essi, ad esempio, il “corporativista” Fanfani. Non a caso – a contrario – il liberale Einaudi additava i corporativisti, insieme agli statalisti ed ai dirigisti, quali nemici del liberalismo. Piuttosto bisognerebbe approfondire come il post-Concilio abbia disperso l’eredità, ancora ben presente in un La Pira, di una spiritualità applicata al Politico aprendo la strada ai tecnocrati della sinistra democristiana, alla Prodi ed alla Andreatta, che, insieme alla sinistra liberal, hanno svenduto l’Italia al neoliberismo. Una sinistra democristiana, questa, assolutamente incomparabile con il cattolicesimo sociale di ispirazione tomista e retaggio tradizionalista di La Pira e Fanfani.
- Il motivo per il quale abbiamo messo in chiosa questa nota polemica verso i cattolici conservatori è costituito dal fatto che tra di essi è invalsa la tendenza a trattare dei problemi dell’oggi con riferimento alle derivate etico-sociali della teologia tradizionale. Usano le riflessioni economiche di Tommaso d’Aquino o dei teologi della Seconda Scolastica come fossero state scritte da pensatori che avevano di fronte gli stessi problemi dell’economia contemporanea, dimenticando che quei teologi scrivevano in epoche nelle quali neanche esisteva una “scienza economica” e nelle quali le realtà economiche erano completamente altre. L’Aquinate e i Salmantini, ad esempio, non conoscevano affatto la moneta fiat né l’idea di un debito pubblico quale strumento di sostegno del mercato. Un punto, in particolare, dell’eredità di pensiero degli scolastici – per la precisione degli ultimi epigoni di quelli del XVI secolo spagnolo – è spesso usato dagli economisti conservatori, ai quali guardano certi cattolici, ed è quello relativo al cosiddetto “giusto prezzo”. Questi economisti si riferiscono alle antiche discussioni teologiche in tema di giusto prezzo per utilizzarle come un elemento di critica al moderno concetto “socialista” di pianificazione. E’ una operazione, però, errata dal punto di vista storiografico dato che costituisce un anacronismo. I tardo Salmantini giunsero alla conclusione che tentare di fissare il giusto prezzo per via amministrativa, ossia mediante un atto di imperio politico, risponde ad un prometeismo sovrano ovvero alla tentazione dell’Autorità politica di mettersi al posto di Dio, pretendendo di poter pianificare imperativamente il mercato. Tanto meglio, essi sostenevano, lasciar fare al mercato che da solo prima o poi trova il giusto prezzo. Sarebbe, questo, un approccio di maggior umiltà alieno da ogni superbia auto-deificante dell’Autorità. Il ragionamento, in apparenza, sembra non fare una piega. Senonché i tardo Salmantini marginalizzavano l’esigenza etica che era sempre stata presente nel pensiero ecclesiale riguardo all’economia, comprese le stesse riflessioni in materia dell’Aquinate. Perché se è vero che l’Autorità politica non può “autocostruire” il giusto prezzo, è altrettanto vero che tale, ossia quello moralmente lecito e gradito a Dio, non è neanche quello liberamente determinato, spesso in modo sbilanciato ed iniquo, dal mercato. Sicché ritenere che il mercato – ossia gli uomini, perché il mercato è fatto da uomini come la stessa Autorità politica – possa auto-determinare il giusto prezzo è pretesa prometeica quanto quella che esso sia con certezza costruito dallo Stato. In realtà, gli uomini e la loro dimensione di vita associata naturale, ossia Comunità politica e società civile che è come dire Stato e mercato, possono soltanto approssimarsi, in senso relativo, al “giusto prezzo” inteso quale espressione di una superiore Giustizia impossibile per gli uomini attuare in senso pieno. Ecco perché Politico ed Economico, Autorità e mercato, direzione e autonomia, controllo e libertà sono le facce di una endiadi inscindibile nel loro rapporto gerarchico che vede il primo termine, di ciascuna coppia, come sfera al di sopra del secondo che, così, resta circoscritto al modo di una sfera minore chiusa nella maggiore.