“Wanda” è il nome di un mouse della Logitech, multinazionale con sede in California che viene venduto a 20 milioni di esemplari l’anno. Nel 2004, nel mio saggio sul capitalismo globale e terminale “Schiavi delle Banche”, spiegavo: “Wanda” viene fabbricato in un edificio di Shouzou, dove le operaie godono di un salario di 80 dollari al mese. Nei negozi, il prezzo di Wanda è 40 dollari. Di questi, 14 vanno ai fornitori delle componenti: il chip interno viene da una filiale della Motorola in Malaisia, il sensore ottico dalla Agilent (USA), il resto da un’affiliata dell’american Cookson Electronics situata nello Yunnan. Distributori e dettaglianti scremano, sul prezzo di 40, altri 15 dollari. La Logitech, che ci mette il suo marchio, si prende 8 dollari. Ai cinesi restano 3 dollari per ogni mouse: con cui devono pagare le 4 mila dipendenti, trasporto, spese generali.
Questa è – era – la situazione ideale per il capitalismo globale, i cui campioni sono quotati a Wall Street: la manifattura materiale dell’oggetto vien retribuita il meno possibile, mentre i margini più grassi finiscono alle attività impalpabili e immateriali, design, royalties, logo, i servizi di vendita, distribuzione e marketing. E tutto ciò, nel quadro della vasta utopia generale che domina i cervelli globalisti: delocalizzare la produzione dove sono i salari bassi, per venderla nei paesi a salari alti, quindi con un bel margine per il capitale.
Il fatto che alla fine i salari alti sono scomparsi come effetto della delocalizzazione, non ha preoccupato i cervelli di Wall Street; il potere d’acquisto che il lavoratore ha perso sul salario, viene gentilmento offerto dalle banche – indebitandolo.
Avevano voluto loro la Cina nella Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO): Bill Clinton, sempre all’ascolto di Wall Street, li aveva accontentati (non a caso è stato anche lui a cancellare la Glass-Steagall Act) . E senza pretendere quello che il WTO (il superorganismo per attuare la globalizzazione riducendo tutti i dazi al 3% massimo) esige dagli altri partecipanti: dal riconoscimento dei brevetti alla rinuncia a pratiche commerciali sleali e alle contraffazioni, ma soprattutto a cominciare dalla libera fluttuazione della moneta nazionale sui mercati monetari. Quando un paese esporta molto, la sua moneta, se libera sui mercati, si rivaluta, e ciò rende le sue esportazioni meno competitive. A Pechino fu concesso operare sui mercati mondiali con la valuta nazionale “non convertibile”, ossia il cui valore viene decretato dallo Stato: sicché il regime aggiungeva ai bassi salari il dumping valutario.
Ci voleva poco a capire che un paese che sfornava 2 milioni di ingegneri l’anno, avrebbe cessato presto di esportare carabattole e elettronica assemblata su licenza. Peggio: con l’ingresso nel WTO quella post-maoista era riconosciuta come “economia di mercato”, una assurdità, e uno status che – nei decenni precedenti non veniva mai concesso – vigeva al massimo lo status di “Nazione più favorita”, condizione che veniva discussa ogni anno dal Congresso – una condizione revocabile – e consentiva a settori diversi, animati che fossero da anticomunismo o protezionismo, da nazionalismo o militanza per i diritti umani o ecologici , di opporsi ad aperture commerciali, ricordando per esempio ai parlamentari la causa del Tibet e dei Laogai (i GuLag cinesi). Da allora, la Cina è stata catalogata “con relazioni commerciali permanenti normali” (PTNR), lo status irrevocabile.
Da quel giorno al 2011, secondo uno studio del MIT, gli Stati Uniti hanno perso 985 mila posti di lavoro, ossia il 20 per cento del totale nel settore industriale avanzato: fra l’esultanza di Wall Street, che ha sempre salutato ogni riduzione di personale come una prova dell’efficienza dell’azienda che tagliava, della sua capacità di ridurre “i costi”. Fino a quando non ci si è accorti che gli Usa sono de-industrializzati, dalla Cina non importano più carabattole ma computers, tablet e smartphone, batterie e schermi piatti, senza dimenticare le auto prossimamente elettriche, che in Occidente non si costruiscono più.
E soprattutto: che i concorrenti dei colossi mondiali del Web detti GAFA (Google Apple Facebook Amazon) sono cinesi: Baidu, Huawei, Alibaba, Xiaomi…quindi hanno fatto nascere il titano che minaccia nel regno dell’impalpabile e immateriale dove credevano avrebbero dominato in eterno.
E Wall Street non lo ha previsto? Ma certo. Il punto è che se ne infischia. Le multinazionali americane quotate a Wall Street, liberandosi della dipendenza dalla forza lavoro degli Stati Uniti con la delocalizzazione, hanno accumulato più profitti che mai e sono diventate più potenti e colossali. Praticamente i lavoratori cinesi a basso salario hanno aiutato ad elevare alle stelle le quotazioni delle grandi multinazionali a Wall Street. Infatti, mentre gli Stati Uniti come paese rappresentano una quota sempre più ridotta del Pil globale, le sua multinazionali nella globalizzazione sono diventate più dominanti, e i loro profitti sono incredibilmente alti. Uno studio del 2014 della International Studies Quarterly, che analizzava le prime 2 mila imprese del mondo, mostrava che le americane si accaparravano l’84% della quota di profitti per i computer (hardware e software), l’89 per cento per le attrezzature sanitarie, il 53% nel settore dei prodotti farmaceutici e biotecnologici. E nei servizi finanziari, i la quota di profitti dei colossi tipo Goldman Sachs è addirittura aumentato dopo il crollo di Wall Street del 2008, passando dal 47% al quasi incredibile 66% (della quota di profitto che scremano) nel 2013. E un bel 42% dei miliardari del mondo sono americani di cittadinanza e residenza, e solo il 4% cinesi.
Come ha scritto Politico, “nonostante decenni di competizione globale e crescita di altre zone del mondo come l’Asia, le multinazionali americane continuano a dominare i vertici del capitalismo globale – un successo che i conti nazionali hanno mancato”. Insomma nel mercato globale il Paese è in declino, ma le sue multinazionali trionfano e ingrassano.
L’Interesse Nazionale non coincide per niente con l’Interesse delle Multinazionali (ma non lo sapevamo, in fondo?) – “Nazione” e “Blocco dei miliardari” sono due destini separati, come in tutto l’Occidente. Però l’interesse multinazionale ha abbastanza miliardi da comprarsi governi e leggi, in modo da far coincidere gli interessi propri con quelli della Nazione.
Così, quando si puntava il dito sulla connessione in Cina fra Partito e aziende di Stato, fra Partito e banche di Stato che fanno prestiti a tassi inferiori a quelli di mercato, il tipo di risposte è stato: vedrete, l’esposizione della Cina alla concorrenza globale attraverso il WTO la obbligherà a riformare il suo sistema economico. Il “mercato”, si insegna nelle università, porta inevitabilmente al pluralismo e fa nascere la “democrazia”. Il liberismo economico porterà le masse cinesi a richiedere la liberalizzazione politica, e infine il multipartitismo competitivo; e proprio aprendo l’economia occidentale alle esportazioni cinesi, avremmo spinto Pechino verso il liberalismo: economico prima, politico poi.
Puro ideologismo, l’identificazione di “mercato” e “libertà”. Ma la casta del Partito cinese ne segue un’altra, di ideologia. Tanto più che aveva visto – e studiato da vicino – il collasso del blocco sovietico, e constatato gli effetti del passaggio-lampo dall’economia di Stato al mercato secondo la “terapia d’urto” consigliata agli ingenui gorbacioviani dalla Scuola i Chicago: effetti consistenti in rovina economica, saccheggio delle ricchezze del paese, da parte della finanza estera, e soprattutto, caduta del regime a partito unico. Il governo cinese non ha alcuna intenzione di cedere il controllo – men che meno al “mercato” internazionale.
D’altra parte, la dirigenza di Pechino era confrontata ad un altro problema esistenziale: che gli Stati vicini – Giappone, Taiwan, Corea del Sud – stavano diventando più ricchi nella globalizzazione, vendendo le loro merci agli Usa, e quindi guadagnando in potere relativo, mentre la Cina restava povera e arretrata – e quindi vulnerabile alla coercizione dello stranieri, un ritorno all’incubo del “secolo dell’umiliazione”, dalla Guerra dell’Oppio in poi.
La soluzione è stato di scegliere una globalizzazione “à la carte” (Wall Street glielo ha lasciato fare: Pechino investiva i miliardi di dollari guadagnati in Buoni del Tesoro americani, quindi finanziava il suo cliente facendogli credito), ma in realtà proteggendosi dai “mercati” dietro la Grande porta Stagna (the Great Firewall) “ uno strumento di sorveglianza di massa e repressione che [oh meraviglia!] si è anche dimostrato un efficace strumento di politica industriale”, scrive The Atlantic: per cui ad esempio le grandi multinazionali del digitale, ben consce che in mercato interno cinese era lungi dall’essere un campo di gioco libero e piano, lo hanno lasciato alle imprese locali loro socie. Con oculate “privatizzazioni”, Pechino si è aperta cautamente alle società straniere che volevano de localizzare (ossia togliere ai lavoratori americani) le produzioni dibasso livello. Poi, a quelle della produzione di medio livello. Infine, a tutta la produzione – anche la più avanzata. E dal 2003, il Partito (con Hu Jin Tao) ha chiuso l’epoca delle (pseudo) privatizzazioni; anzi ha creato un consiglio speciale, da esso controllato, per sorvegliare i giganti statali del paese; con Xi Jinping il Partito è tornato esplicitamente al centro della economia e garante della stabilità; il suo controllo è più forte che mai con il perfezionamento del sistema di “credito sociale” digitalizzato, che assegna ad ogni cinese un punteggio di “lealtà” e “onestà”, sotto il quale uno non può nemmeno salire su un treno, un aereo, andare all’estero.
Il che ovviamente non impedisce a Xi di recarsi a Davos ad elevare peana al libero mercato globale, in risposta dei dazi minacciati da Trump, fra gli applausi scroscianti degli astanti per i quali il “protezionista” è Donald.
Il punto è che Donald, votato a sorpresa da quella parte della società che si identifica con l’Interesse Nazionale calpestato e strumentalizzato dall’Interesse delle Multinazionali, si vorrebbe opporre non solo alla Via della Seta , ma forse ancor più a un programma chiamato Made in China 2025 in cui il Partito, nero su bianco si propone di conquistare il dominio mondiale su una serie di tecnologie – e quali? “dall’aerospaziale ai robot industriali, dai satelliti a semiconduttori dalle ferrovie superveloci ai forni per biscotti (sic)”.
https://www.theguardian.com/world/2018/apr/04/made-in-china-policy-at-centre-of-tariff-war-with-us
Un programma che è “un attacco al genio americano”, ha strillato Peter Navarro, consulente per il commercio della Casa Bianca. I dazi che Trump ha posto in essere contro le merci cinesi, sono la risposta, ha detto, “alle politiche che costringono le compagnie americane a trasferire la loro proprietà intellettuale alle imprese cinesi”: se ne sono accorti, finalmente. Adesso che il rischio è questo: perché Pechino dovrebbe comprare Boeing per le sue compagnie aeree, quando si farà i propri simil-Boeing?
“Normalizzare le relazioni commerciali con la Cina è stato un errore”, riconosce un disperato articolo di The Atlantic.
Con il dovuto ritardo, anche la Germania ha stilato il suo Programma tedesco Industria 4.0, che è una copia del cinese Made in China 2025. Ovviamente molto meno finanziato (più tirchio) ma un tentativo di inseguire il dirigismo di Stato – in una visione in cui l’America diverrà sempre meno importante per Berlino.
Se volessimo filosofeggiare, faremmo constatare questo doppio paradosso: che l’unica superpotenza rimasta, con la sua adesione al liberismo globale, ha fatto trionfare l’ultimo Partito Comunista rimasto. E che il liberismo totalitario è rimasto vittima – come il sovietismo marxista – delle sue interne contraddizioni , della sua ideologia.