FEDE CATTOLICA E SCIENZA MONETARIA
Nella prospettiva della Trascendenza spirituale per contribuire al superamento di dannose concezioni arcaiche in tema di moneta
seconda parte
Come i liberali leggono le opere dei Salmantini
Allo scopo di approfondire le aporie poste dal problema culturale, citato in premessa, nel quale sono tristemente incappati i cattolici conservatori prendiamo le mosse da un articolo di Jerzy Strzelecki, comparso originariamente sul sito Mises.org e riprodotto, nella traduzione di Antonio Francesco Gravina, sul collaterale sito Ludwig von Mises Italia, il 30 agosto 2013 con il titolo “La Scuola di Salamanca l’aveva già previsto”. Diciamo subito che l’approccio dell’autore alle tematiche economiche dei Salmantini o Salmaticensi – che non erano argomentazioni di scienza economica come la intendiamo noi oggi ma soltanto ragionamenti squisitamente teologici e filosofici sui rapporti tra etica ed economia, in un’ottica del tutto inferenziale che mai un coerente liberista ammetterebbe oggi – è viziato esattamente dallo stesso anacronismo che, nell’ambito del diritto internazionale, ha fatto ritenere un Francisco de Vitoria come fondatore del diritto internazionale umanitario e globalista attuale quando invece il teologo salmantino ragionava, come ha dimostrato Carl Schmitt ne “Il Nomos della terra”, di diritto inter-statuale e di diritto delle genti quale regola di convivenza tra i popoli che non né pretendesse la reductio ad unum nel collettivo umanitario. Per Vitoria la comune natura umana non si risolveva, come per i moderni gius-internazionalisti globalisti, né nell’unità economica del mondo né nello Stato mondiale né nell’astratta concezione illuminista dell’Umanità né, tantomeno, in quella biologica e naturalista darwiniana attuale base del transgenderismo post-umano.
«La più affascinante giustificazione del libero mercato che io conosca – scrive, dunque, Strzelecki – è di natura teologica. Nel suo “Disputationes de justitia et jure”, pubblicato nel 1642 a Lione, il cardinale spagnolo Juan de Lugo (1583-1660) ebbe a sostenere che il “giusto prezzo” dipende da talmente tanti fattori che può essere conosciuto solo da Dio [“Pretium justum mathematicum licet soli Deo notum.“] (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, fondatore dell’Ordine dei Redentoristi e santo patrono dei confessori e teologi morali, considera de Lugo il teologo più importante, secondo solo a San Tommaso d’Aquino). Alcuni anni prima, un altro gesuita spagnolo (membro della cosiddetta “Scuola di Salamanca”), Juan de Salas, concluse, nel suo “Comentarii in secundum secundae D. Thomae et contractibus” (Lione, 1617), che i fattori coinvolti nella formazione di un dato prezzo sono così complessi al punto che “solo Dio, non l’uomo, può comprenderli esattamente” [“Quas exacte comprehendere et ponderare Dei est non hominum.” Cfr. Jesus Huerta de Soto, “Juan de Mariana: The influence of Spanish Scholastics”. Si vedano anche i lavori di Raymond de Roover e Murray Rothbard]. Nella teologia degli scolastici di Salamanca, il “giusto prezzo” equivaleva, quindi, al prezzo di mercato, quale risultante naturale delle interazioni tra acquirenti e venditori. I tentativi di configurare un “giusto prezzo” per sostituire quello naturale del mercato, sia dalle autorità civili che ecclesiastiche, erano visti con profondo scetticismo: non si trattava di manovre volte ad usurpare la conoscenza di Dio? (…). Poco più di vent’anni fa, il mondo ha assistito alla fine di un ordine politico-economico basato sull’idea della pianificazione centrale, dell’avanguardia del proletariato o del bureau politico – qualunque sia il nome che si voglia attribuire al regista di tale sistema – per rimpiazzare il “caos” del mercato e migliorare le azioni di milioni di imprenditori indipendenti, compratori e venditori, che decidono cosa deve essere prodotto, in quali quantità e a che prezzo. Questo si era deciso di realizzare, prescindendo dalla natura dei beni in questione: fossero questi acciaio, cemento o semplici grani di pepe. Nei fondamentali stessi è possibile scorgere i motivi della caduta del comunismo, rinvenendo proprio quella “usurpazione della conoscenza di Dio”, tanto discussa dai teologi spagnoli. Nel grande dibattito circa la possibilità del calcolo economico razionale in un’economia socialista – un dibattito che ha avuto luogo nei primi tre decenni del ventesimo secolo – diversi economisti e sociologi, tra cui Ludwig von Mises, Max Weber, Vilfredo Pareto, Enrico Barone, Boris Brutzkus e Friedrich Hayek, avevano messo in guardia in maniera chiara: il pianificatore centrale, abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, abolisce, al tempo stesso, il mercato dei beni di investimento. In tal modo, il luogo di incontro tra imprenditori e fornitori di capitale è spazzato via, e con esso la fonte principale di informazione sui prezzi – vale a dire, le informazioni riguardanti i rapporti di scambio tra i differenti beni strumentali. (…) da circa 100 anni, al centro dell’economia mondiale esiste un’istituzione che finge di essere capace di risolvere il medesimo problema epistemologico, che i teologi spagnoli consideravano irrisolvibile da menti umane; questa istituzione è la banca centrale degli Stati Uniti: la Federal Reserve (si possono trovare istituzioni simili al centro di quasi tutte le economie nazionali; in ogni caso, ci riferiamo alla banca centrale). Le argomentazioni di entrambe le scuole di pensiero – la Scuola di Salamanca da un lato e la Scuola Austriaca di economia dall’altro – rappresentano forti critiche mosse al ruolo delle banche centrali nella regolamentazione dei tassi di interesse (il prezzo del bene) e offerta di moneta (la quantità del bene). Secondo i sacerdoti che scrivevano in Spagna, allo scopo di regolamentare il tasso di interesse per mezzo di un’autorità centralizzata, occorrerebbe presumere che un unico uomo possa far confluire presso di sé tutta quella conoscenza della quale solo Dio può disporre. Osservando la questione da un punto di vista differente, utilizzando un approccio convenzionale all’economia rispetto alla teologia, potremmo rivolgere la seguente domanda: posto che riteniamo desiderabile – e ciò vale per la stragrande maggioranza di noi – la produzione di beni come automobili, aspirapolveri e ortaggi surgelati avvenga in un regime di concorrenza e di mercato, perché tanti di noi, ciononostante, concordano sul fatto che abbia senso l’esclusione della produzione della moneta da queste stesse forze? Per quale motivo la produzione del denaro deve essere affidata a un monopolio denominato “banca centrale”? La crisi del 2008 non è un “fallimento del mercato” o il fallimento delle dottrine ‘neoliberiste’ in quanto tali. Piuttosto, e in un modo che fa risuonare l’eco della caduta delle economie comuniste di due decenni orsono, è il frutto inevitabile dell’arroganza della pianificazione centrale. Contrastando le economie comuniste dell’Europa orientale, tuttavia, la supponenza del pianificatore centrale degli Stati Uniti non si è applicata a tutta l’economia nel suo complesso, ma solo ad una sua parte precisa: la produzione del denaro. Dalla confisca dell’oro per mano di Roosevelt, nel 1933, passando per la fine del gold standard internazionale, nel 1971, il presidente della Federal Reserve è stato progressivamente privato dei reali indicatori del mercato. In particolare, è stato spogliato della importante funzione, a lui riconosciuta dal diritto, di richiedere il rimborso in oro di dollari; questa serviva da segnale d’allarme fondamentale e imponeva un gran livello di disciplina in materia di politica monetaria. Così facendo, invece, si è lasciato che navigasse tra la Scilla dell’inflazione da un lato e la Cariddi della recessione (indotta dalla contrazione monetaria) dall’altro – senza poter disporre di indicatori reali. In balìa di questo dilemma, il risultato era scontato: nel periodo intercorrente tra il 1913 e il 2007, la Fed – in attuazione della sua mission volta a “stabilizzare il livello dei prezzi” – ha distrutto oltre il 97 percento del potere di acquisto del dollaro (per amor di confronto, si noti che il valore del dollaro era leggermente aumentato nel corso dei cento anni antecedenti l’istituzione della Fed). La bellezza della moneta fiat! Pertanto, si palesa la necessità di una teologia: la distruzione del 97 percento del potere d’acquisto del biglietto verde, non può che essere considerata l’opera di Satana; almeno su questo punto, tutti possiamo concordare!».
Diamo subito un dato. La crisi del 1929, una crisi da “sovraproduzione” per deflazione della domanda aggregata (prima che Keynes lo riportasse in evidenza, il problema della domanda, come vero motore del mercato, era sparito nella teorica dei classici, da Ricardo ai marginalisti, che basavano le proprie analisi sulla errata Legge del Say) ossia per carenza di reddito e di mezzi di pagamento, fu solo l’ultima di una serie di ricorrenti crisi finanziarie ed economiche che caratterizzano l’intero XIX secolo: molto grave era stata, in precedenza, quella del 1873/76, da alcuni storici dell’economia considerata l’antesignana diretta, senza vere soluzioni di continuità, di quella del 1929. Per mettere fine a questa serie di ricorrenti crisi finanziarie furono istituite nei Paesi industrializzati le Banche centrali sotto controllo dei governi, mediante la trasformazione delle vecchie Banche nazionali, consorterie private di banchieri speculatori che vivevano di rendita sul debito pubblico (come osservò anche Marx in una famosa pagina de “Il Capitale”), assegnando loro missione e funzione pubblica di stabilizzazione dei mercati finanziari. A dire il vero, il controllo governativo sulle Banche centrali fu sempre contestato dalla consorteria bancaria che lo accettò obtorto collo fino a quando non ha avuto la forza di abolirlo.
La critica viennese al potere delle Banche centrali trae radice dalla comunanza di ideali massonici che lega tale Scuola Liberale di Economia alla originaria cultura politica americana. Infatti, proprio nella Vienna asburgica, baluardo del Cattolicesimo imperiale, aveva preso piede nel XIX secolo una forma di liberalismo conservatore ed antigiacobino che nelle antiche, ma organiche, autonomie comunitarie dell’Impero cattolico vedeva, in un’ottica storicamente viziata da anacronismo, fondata sull’errata confusione tra “naturalità” e “contrattualità” del Politico, e quindi in un’ottica di falsificazione concettuale, nient’altro che associazioni contrattualistiche e forme “federaliste” di organizzazione sociale aperte al libero mercato ed appena “incorniciate” da una lontana e debole Autorità imperiale che interveniva il meno possibile. Nella cultura americana la libertà di monetazione è considerata un diritto individuale come quello di portare le armi benché, contestualmente ed incoerentemente, la Costituzione degli Stati Uniti attribuisce al governo il monopolio nello stabilire l’unità di misura ufficiale compresa quella monetaria. Queste caratteristiche storiche spiegano perché per l’intero XIX secolo negli Stati Uniti ci fu una forte resistenza popolare all’istituzione di una Banca centrale. Una eredita questa, di tipo anticentralista e “jeffersoniana” ossia anti-hamiltoniana, che fa capolino persino in un grande americano vittima dell’usurocrazia mondiale come Ezra Poud.
Da un lato gli americani vedevano nella Banca centrale un potere così monolitico da comprimere quello “anarchico” costituzionalmente riconosciuto, in un’ottica individualistica e contrattualistica, a qualunque cittadino, e dall’altro vedevano in essa una usurpazione delle prerogative governative in tema di sovranità monetaria. Una contraddizione di argomenti, statualisti ed individualisti, che tuttavia non inficiava nell’opinione pubblica americana la lotta per la libertà contro la Banca centrale strumento dei banchieri. Per questi motivi, la Fed fu tra le Banche centrali l’ultima in ordine di tempo ad essere istituita laddove in Europa gli Stati si erano già da tempo dotati della propria Banca statale. Essa fu istituita con il Federal Reserve Act del 23 dicembre 1913 sotto la presidenza del democratico Thomas Woodrow Wilson – lo stesso dei famosi 14 punti sui quali si fondò, dopo la Grande Guerra del ‘14/18, il primo tentativo di costruzione mondialista di diritto umanitario globale, che avrebbe dovuto essere garantita dalla Società delle Nazioni con sede a Ginevra – quando l’ennesima crisi finanziaria, quella del 1907, aveva dimostrato che il sistema finanziario liberale basato sulla “naturale” fiducia tra le banche americane, tutte autorizzate all’emissione di banconote a copertura aurea (l’emissione però avveniva inevitabilmente in misura più che proporzionale rispetto alle riserve auree nei forzieri delle stesse), era facilmente soggetto al venir meno della presunta reciproca fiducia inter-bancaria con conseguente inceppamento del sistema di stanze di compensazioni monetaria spontaneo che il libero mercato avrebbe dovuto garantire.
Sicché l’aumento di valore del dollaro precedente l’istituzione della Fed, di cui canta le lodi Jerzy Strzelecki, corrispondeva in realtà a nient’altro che al precario e momentaneo aumento delle quotazioni del dollaro le quali, però, erano aumentate in quanto l’oro scarseggiava. Questo aumento, per scarsità, del valore dell’oro, base mercantile della presunta stabilità della moneta cartacea, ovviamente, si traduceva in deflazione, bassi investimenti, freno allo sviluppo economico (nonostante le potenzialità della seconda rivoluzione industriale, quella della Belle Époque, con conseguente lotta tra le potenze occidentali per l’accaparramento coloniale delle materie prime che se possedute per conquista coloniale non dovevano essere poi comprate a caro prezzo, dato il vincolo del gold standard e la rigidità dei cambi che esso comportava, sui mercati internazionali) e freno al miglioramento delle condizioni sociali dei lavoratori con, al contrario, aumento della presa tra di essi della propaganda marxista.
Davvero la teologia di Tommaso d’Aquino e di Francisco Suàrez può giustificare il liberismo?
Ma, messi i dati storici ed economici sopra esposti a disposizione del lettore, quanto preme qui ora esaminare è il modo di argomentare usato da Jerzy Strzelecki per fare della teologia tomista e salmantina, così cara ai cattolici conservatori, il puntello teologico dell’“ordoliberismo viennese-monetarista” (usiamo tale definizione “sintetica” pur consapevoli di riferirci a scuole in parte diverse ma tra loro comunque accostabili per il fatto che esse, in quanto tutte liberal-conservatrici, confluiscono insieme verso gli stessi esiti concreti) fondato su un mix di anti-politicità, divinizzazione del mercato e austerità monetaria. Non a caso Jerzy Strzelecki chiude il suo intervento affermando “Pertanto, si palesa la necessità di una teologia: la distruzione del 97 percento del potere d’acquisto del biglietto verde, non può che essere considerata l’opera di Satana”. La questione, però, sta nel verificare se il passo a Satana è ostacolato dal ritorno al tallone aureo oppure dal primato, eticamente fondato, del Politico, di un’Autorità politica conscia della sua missione e dei suoi limiti, finalizzato a garantire la piena occupazione in modo che gli uomini, liberi dall’assillo “hobbesiano” e “darwiniano” della lotta economica contro i propri simili per sopravvivere, possano ritrovare, nella reciproca comprensione, la via per andare verso l’Alto.
Quello usato nelle argomentazioni del simpatizzante “viennese” da noi citato e preso ad esempio è un modo che denota la tipica mancanza di senso storico alla quale abbiamo già accennato. Sorvolando completamente sulla differente realtà economica sussistente tra il XVI secolo e quella odierna, Strzelecki fa dire agli antichi scolastici del XVI secolo esattamente quanto essi non avrebbero mai potuto dire non conoscendo né la realtà compiuta dello Stato moderno come la conosciamo noi – benché l’abbiamo vista, ai loro tempi, sorgere e ne abbiano ragionato in termini di naturalità del Politico, sulla scorta dell’Aquinate – né la virtualizzazione della moneta.
Infatti, l’idea che ci sia un riferimento etico e quindi sovra-economico, sovra-mercantile, per stabilire la giustizia di un prezzo è un dato, di origine biblica e di approfondimento medioevale, quindi appartenente al deposito teologico della Cristianità, dal quale i salmantini non potevano affatto teologicamente prescindere, mentre è difficile da comprendere per un “viennese”, ossia un liberale “indifferentista”, per il quale, data la assoluta non-interconnessione tra i rispettivi ambiti, il rapporto tra etica ed economia è una truffa moralistica ai danni del virtuoso egoismo individuale.
Ecco perché il “viennese” riduce, anacronisticamente, il problema sollevato dagli antichi teologici nel XVI secolo, sulla scorta di una tradizione millenaria che per i fedeli del Dio di Abramo è una Rivelazione, ad una mera polemica ante litteram contro la pianificazione centrale ossia contro una idea politico-economica formatasi, e fallita, tra XIX e XX secolo. Infatti, gli antichi teologi di Salamanca sostenendo che «il “giusto prezzo” dipende da talmente tanti fattori che può essere conosciuto solo da Dio» affermavano, in coerenza con quell’antico deposito sapienziale e di fede, semplicemente ed esattamente che il giusto prezzo è appunto una questione innanzitutto etica. Sicché, benché non possa conoscerne con assoluta precisione la giusta misura, l’uomo non può tuttavia esimersi da tentare, senza pretese totalitarie di onniscienza, di approssimarvisi. Invece Strzelecki mentre, da un lato, pone in giusto rilievo l’aspetto anti-costruttivista del ragionamento salmantino, dall’altro, senza rendersene conto, cade nella tipica, luciferina ed idolatrica, teo-mimesi di chi traspone sul piano immanente gli attributi divini, tanto è vero che egli desume, dall’uso strumentale che fa del pensiero dei salmantini, di poter, sulla base della loro autorità teologica, asserire che quanto non è possibile all’uomo, all’uomo quale “Stato” (perché il nostro ragiona, come detto, anacronisticamente e pregiudizialmente), ossia conoscere tutti i fattori che determinano il “giusto prezzo”, sarebbe invece possibile al Mercato che così, divinizzato, prende il posto di Dio.
Dal momento poi che – in un quadro ontologico tripartito che lo inserisce in un Ordine pluridimensionale ed irriducibile alla sola terza funzione – il mercato è, come lo Stato, ente potenziale attuato, sulla base di quell’Ordine multidimensionale, dall’uomo, ecco che affermare, benché implicitamente, la divinità del Mercato, attribuendo ad esso l’onniscienza divina, è esattamente la stessa cosa che affermare, costruttivisticamente, la divinità dello Stato. Nell’uno come nell’altro caso è affermare la pretesa di auto-deificazione dell’uomo, che è il peccato originale.
Non solo. Nel modo di ragionare di Strzelecki è del tutto evidente l’anacronistica confusione sulla natura della moneta. Egli continua a ritenere la moneta una mera “merce” in un mercato concepito quale luogo di baratto senza autentica intermediazione monetaria giacché la moneta-merce, se mai esistesse, sarebbe solo un velo a nascondimento dello scambio diretto tra beni attuato, per l’appunto, mediante una terza merce. Nell’ottica della moneta-merce anche essa deve essere soggetta alle leggi ferree del mercato (come, nella stessa ottica liberista, a dette rigide leggi deve essere soggetto il lavoro umano quale altro tipo di merce a disposizione di chi la chiede e di chi la offre mediante scambio contrattuale diretto tra i singoli contraenti ossia senza alcuna intermediazione collettiva, di per sé distorsiva e dannosa, nella contrattazione).
Questo è il motivo, ideologico, per il quale, nell’ottica “ordoliberista-viennese-monetarista”, la Banca centrale diventa per il mercato finanziario quello che era il Partito Unico dei Soviet per la produzione reale. Nostalgico del tallone aureo, il neoliberista teme l’eccesso di potere del banchiere centrale, soprattutto poi se non indipendente e se troppo coordinato con lo Stato, quale potere autoritario, arbitrario e distorsivo dell’armonia del libero mercato, anche di quello finanziario e dei capitali. Da qui, l’idea “viennese” di abolire le Banche centrali poi tradotta in quella monetarista, effettivamente realizzata in Europa a partire dagli anni ’80, dell’indipendenza della Banca centrale dall’autorità governativa, con la giustificazione della necessità di evitare gli “azzardi morali” della politica, ad iniziare dall’inflazione indotta dalla monetizzazione agli Stati, contro l’armonia del mercato. Una armonia però sempre supposta dai liberisti e mai da essi dimostrata. L’armonia del mercato è un’idea, anzi, ampiamente confutata dalle vicende storiche, che per l’economia rappresentano la riprova sperimentale che le altre scienze possono invece ottenere in laboratorio.
Le esperienze dell’economia capitalista nel XIX e XX secolo – caratterizzata da intrinseca instabilità nel mercato finanziario, quindi da instabilità nell’economia reale e nell’occupazione, con ripetute crisi, laddove l’unico periodo di vera stabilità finanziaria, e quindi del mercato reale, si è registrato nei decenni 50-70 del secolo scorso ossia in quelli post crisi del ’29 che hanno visto una rigida regolarizzazione, preglobalizzazione, dei mercati finanziari – dimostrano al contrario che l’armonia del mercato è una mitologia. Non solo, tuttavia, le esperienze storiche recenti. Infatti il carattere costruttivista della concezione benefica ed armonica del mercato libero, che elargisce ricchezza a tutti con la sua esoterica “mano invisibile”, appare chiaramente anche studiando le origini stesse del capitalismo mercantile, che è sempre stato instabile. Né il fatto che la moneta un tempo fosse aurea, o convertibile in oro, ha davvero garantito la sua stabilità, e quindi la stabilità dei prezzi, dal momento che anche l’oro, come tutte le merci, è soggetto alle oscillazioni di mercato.
L’ancoraggio della moneta all’oro non garantisce dunque un bel niente, se non per brevi periodi, perché la moneta, di per sé, non è mai stata una merce neanche quando essa era aurea o cartacea ma a copertura metallica. La moneta, infatti, è un “fiat” sovranamente (ed all’origine anche sacralmente) sanzionato, all’interno di un Ordine pluridimensionale e tripartito, dall’Autorità politica che, anche laddove si limitasse a ratificare una precedente consuetudine o una precedente convenzione inter-contrattuale, interviene sempre per dare certezza, con la coniazione ed il corso legale, ai patti tra operatori economici imponendo, mediante l’accettazione a fini fiscali di un solo simbolo monetario ossia quello emesso da sé medesima, il “segno monetario” della propria sovranità che diventa illegittima solo se pretende di svincolarsi, volontaristicamente e decisionisticamente, dai limiti, che pur ci sono anche se non così stringenti come vogliono i liberisti, ad Essa assegnati dal suo essere seconda funzione nell’ambito della tripartizione tradizionale.
Come dicono quei “circuitisti” attenti anche all’aspetto verticale della questione, la moneta è una passività bancaria cui sempre corrisponde una attività, una contropartita in attività reali, in un rapporto orizzontale garantito però da un terzo soggetto. Questo terzo soggetto è per essi la banca ma meglio sarebbe se fosse lo Stato se effettivamente sovrano mediante il controllo della propria Banca centrale. Ma affinché questo aspetto verticale venga in rilievo è necessario, a nostro giudizio, evidenziare che anche esso si situa all’interno di un Ordine pluridimensionale del Politico corrispondente ad una antropologia tripartita che vede nell’uomo, e nelle forme sociali che da lui prendono vita per natura e non per contratto, al vertice lo Spirito, ossia il Teologico, ed a seguire prima l’anima, nel cui spazio si impongono alla coscienza gli imperativi etici eterofondati (non certo quelli kantiani immanenti e pertanto fondati sull’inconsistenza di un soggettivismo idealista), e poi il corpo, cui corrisponde l’economia. In questo Ordine, eticamente fondato, la moneta fiat ha la sua ragione di essere, quale creazione dell’intelligenza umana ossia frutto del dono che Dio stesso ha fatto all’uomo, distinguendolo dalle altre creature, solo in quanto finalizzata alla produzione reale, e non alla speculazione come accade per l’abuso, questo sì luciferino perché autoreferenziale, che di essa sovente fanno non solo i politici ma anche, soprattutto, i banchieri.
I cattolici conservatori ritengono Jesús Huerta de Soto, Hayek, Mises e Milton Friedman eredi delle idee, in tema di moneta, di Tommaso d’Aquino o della Scuola di Salamanca. La realtà economica odierna è, però, molto diversa da quella dei tempi dell’Aquinate e di Suarez. Questi grandi teologi – la loro grandezza sta soprattutto nel magistero teologico, teologico-politico e filosofico-giuridico – non potevano certo ragionare sulla base di uno scenario, quello attuale della moneta endogena a natura creditizia, nel quale la moneta è gradualmente diventata sempre più immateriale. Per loro moneta equivaleva ad oro o argento. Non potevano neppure immaginare le enormi potenzialità che la lettera di cambio, già nota ai loro tempi ed origine storica delle moderne banconote cartacee anch’esse ora in procinto di essere sostituite da meri impulsi informatici, avrebbe sviluppato, proprio a partire dal medioevo, nei secoli successivi per rendere più facile la monetazione, e quindi la circolazione di denaro, anche se inizialmente con la finzione della copertura aurea che spesso, invece, a dimostrazione del suo carattere non reale ossia non di merce, o non esisteva o esisteva in misura infinitamente inferiore alla quantità di circolante cartaceo.
Se dovessimo, con atteggiamento “fondamentalista”, tenere per dogma tutto quello che ha pensato o ha scritto Tommaso d’Aquino, dovremmo ancora ritenere, aristotelicamente, la moneta infeconda e quindi condannare ogni forma di interesse. La stessa Chiesa, che pure ancora nel XVIII secolo, con la “Vix Pervenit” di Clemente XIV, avrebbe riaffermato la dottrina aristotelico-tomista sulla infecondità del denaro, già tuttavia nel XV secolo, a fronte dell’esperienza caritativa, di matrice francescana, dei Monti di Pietà, riconobbe la legittimità di un moderato interesse inteso, però, esclusivamente come compenso di un servizio sociale, per la liberazione degli onesti produttori dalle vessazioni dell’usura. Insomma bisogna avere il coraggio di riconoscere che – salvo il dogma di fede – anche i grandi teologi del passato, per quanto riguarda le questioni che non toccano immediatamente la Rivelazione e la fede, sono figli del loro tempo e quindi riformabili dai posteri alla luce delle nuove acquisizioni. Come, appunto, ha poi fatto Pio XI, nella “Quadragesimo Anno” (1931), quando, nel condannare “il funesto ed esecrabile imperialismo internazionale del denaro” non ha certo riproposto sic et simpliciter la dottrina aristotelica sull’infecondità del denaro ma ha additato quale nemico dell’umanità, ancor più del vecchio Leviatano statuale, il luciferino, amorale ed anonimo (a-nomos) potere finanziario in via, sin dai suoi tempi, di mondializzazione quale imitazione suadente – l’unità tecnica ed economica del mondo paventata, appunto come satanica, da Carl Schmitt e da Alvaro d’Ors – dell’Universalità del Regno di Cristo ossia della Chiesa cattolica ed apostolica, che è spiritualmente sovraordinato ai popoli accogliendoli in Sè senza nichilisticamente dissolverli in un’unità immanente e uniforme come quella inseguita dal Mercato Mondo ossia dalla sua imitazione anticristica.
Eticità di opportuni standard legali alla luce di pregresse esperienze storiche
Le scoperte dell’intelligenza umana non sono da temere se poste in una cornice etica. Questo vale anche per la virtualizzazione e la demercificazione della moneta, ottenuta prima mediate il passaggio dall’oro alla carta ed ora dalla carta al mero flusso informatico. Sarebbe, oggi, idiota continuare a far sgobbare migliaia di uomini nelle miniere alla ricerca di oro per la monetazione oppure continuare a stampare soltanto carta moneta quando gli strumenti di pagamento si sono fatti, con la tecnologia, più immateriali e sofisticati. Sarebbe come dire che dovremmo fermarci al carbone o al petrolio e non usare le nuove forme di energia. L’intelligenza umana è un dono di Dio ma sta all’uomo usarla per il bene, secondo etica, o purtroppo, come spesso egli fa, per il male. Quindi il problema non sta nel coniare ancora in oro o nell’ancorare la moneta cartacea ad una materia sottostante, sempre l’oro, nell’illusione di garantirne la stabilità del valore e pertanto quella dei prezzi (secondo una connessione che, come detto sopra, è stata smentita dai fatti). Il problema sta nell’uso che si fa del potere di creare moneta ex nihilo. Se questo potere dell’uomo, dell’intelligenza umana, è usato conformemente al dettato etico per il Bene comune, e se quindi esso si atteggia a “sub-potere” ossia a potere che l’uomo, riconoscendosi Icona di Dio, sa essergli derivato, come dono, da Dio – l’Unico Onnipotente e pertanto davvero capace di creare ex nihilo laddove l’uomo comunque ha necessità di una materia preesistente sia essa la carta che l’input informatico – è cosa buona e positiva, è sub-potere usato per il bene. Ma se l’uomo pretende, in un impeto di übris e di deliro di onnipotenza, di usare detto potere in modo autonomo dal giusto e dall’equo, ossia di considerarlo come un suo potere nativo, non donatogli da Qualcuno più in Alto di lui, esso si trasforma in qualcosa di distruttivo, come ha ampiamente dimostrato la liberalizzazione della finanza apolide tanto nel 1929 quanto nel 2008.
Ecco che, dunque, la questione sta nello studiare con quali mezzi politici e giuridici la spesa privata come quella pubblica nonché la creazione monetaria, quella legale come quella bancaria, devono essere finalizzate al servizio dell’economia reale, produttiva, di investimento che crea lavoro, pubblico o privato, e, di contro, con quali mezzi politici e giuridici si deve reprimere o perlomeno scoraggiare ogni uso a fini speculativi della moneta e degli strumenti finanziari.
Dopo il Grande Crollo del 1929, negli Stati Uniti, saggiamente, nel 1933,con il Glass Steagall Act, si impose la separazione tra banche commerciali, a servizio dell’economia reale, e banche d’affari dedite alla speculazione. Simili legislazioni furono, in quel periodo, introdotte anche in altri Stati. Di contenuti dallo stesso tenore era la Legge Bancaria del 1936 introdotta, dal fascismo, in Italia la quale, in uno scenario nel quale le grandi banche erano azioniste di maggioranza nella grande industria, impose oltre alla separazione tra tipologie di banche anche la separazione tra il capitale bancario e quello industriale onde evitare che i fallimenti bancari si trasformassero in fallimenti industriali con danno alla produzione ed all’occupazione. Il Glass Steagall Act, insieme alla costituzione di un fondo di garanzia (Federal Deposit Insurance Corporation) a tutela dei depositanti nei casi di fallimento bancario, prevedeva la netta separazione tra l’attività bancaria tradizionale e l’attività bancaria di investimento (rectius “speculativa”) in modo tale che le due attività non potevano essere esercitate dalla stessa banca. Per tale via era così impedito che l’eventuale fallimento dell’attività speculativa si ripercuotesse sull’attività tradizionale della banca ossia quella diretta a finanziare l’economia reale proteggendo quest’ultima dalle ricadute negative della speculazione. Nel 2007, quando cioè detta normativa era stata abrogata sotto la pressione della lobby bancaria dal Congresso a maggioranza repubblicana e sotto la Presidenza democratica di Clinton, sicché la nuova normativa allora emanata, il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999 consentì nuovamente la commistione tra attività bancarie e la fusione delle due tipologie di banche nell’unica “banca universale”, accadde proprio questo ossia che l’insolvenza nel mercato dei mutui sub-prime si trasmise per “contagio” all’attività bancaria tradizionale, non più protetta, e da qui all’economia reale ed infine, in Europa, ai cosiddetti “debiti sovrani” degli Stati.
Il Glass-Steagall Act non impediva la speculazione ma semplicemente imponeva che chi voleva speculare poteva farlo a suo rischio e pericolo ma senza utilizzare i depositi dei risparmiatori e dei produttori e, soprattutto, senza far ricadere le conseguenze negative della propria attività speculatrice danneggiare l’economia reale o le casse pubbliche dello Stato (sia detto quale mero appunto: l’attuale normative eurocratica del bail-in non ha nulla a che fare con il Glass Steagall Act o con la legge Bancaria italiana del 1936 sia perché non separa affatto le due tipologie di attività bancaria sia perché coinvolge nei fallimenti bancari anche i correntisti ed il fatto che si tratti solo dei correntisti con somme superiori ai 100mila euro non assolve detta legislazione dall’accusa di immoralità filo-speculatrice in quanto somme di quel genere sono detenute esclusivamente dagli imprenditori sicché un eventuale default bancario provocherebbe buchi di bilancio nelle imprese con conseguenti fallimenti e crisi occupazionali).
Il Glass-Steagall Act era un esempio di legislazione altamente morale ed antispeculativa che, senza costringere l’attività finanziaria nelle strettoie quantitativistiche del gold standard o dell’austerità ordoliberista, la subordinava a ben precisi imperativi etici e giuridici. Tremonti parlerebbe, in proposito, di “Global Legal Standard”.
Luigi Copertino
(continua)