di Roberto PECCHIOLI
I dittatori dello Stato libero di Bananas hanno colpito ancora. L’editrice Altaforte è stata espulsa dal Salone del libro di Torino. La democrazia è salva, molto meno la libertà. Dieci metri quadrati di esposizione dei libri editi da un esponente di Casapound mettevano in pericolo la gloriosa dittatura del politicamente corretto, del pensiero unico, del razzismo antropologico, dell’egemonia culturale. Grazie a Dio e agli indomiti partigiani della democrazia, no pasaràn! Il grido della pasionaria Dolores Ibàrruri deve aver risuonato nei riflessivi, colti, democratici cervelli dell’intelligencija nostrana, per l’occasione unita alle istituzioni torinesi e piemontesi. La consueta arma di distrazione di massa.
Ragioniamoci sopra, tentando, con la mente più fredda e razionale possibile, di capire. Innanzitutto, definiamoci per sottrazione. Guardiamo chi ci sta di fronte, comprendendo ciò che ci rende irrevocabilmente diversi. E’ un modo semplice di riconoscersi: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Noi non avremmo mai neppure immaginato di impedire la presenza fisica di un editore di tendenza opposta alla nostra a una pubblica manifestazione commerciale e culturale. Quelli che lorsinistri continuano a chiamare “fascisti”, con l’odio che torce lo sguardo, tranne poche eccezioni hanno imparato a loro spese l’amore per la libertà. Non puoi attraversare un’intera vita da emarginato per pregiudizi politici, antropologici, esistenziali, senza affezionarti al gusto della libertà, distinguendola dalla procedura, la sedicente democrazia di chi decide a priori chi può aprir bocca e chi deve tacere.
Solo chi ha sperimentato sulla pelle – sì, proprio la mia e la tua che mi leggi e pensi alla tua vita– l’odio altrui può essere immune da comportamenti dello stesso tipo. Per questo ringraziamo i censori di Altaforte e del giovane editore Polacchi. Grazie, perché ci avete ricordato che abbiamo l’obbligo di distinguerci da voi, opposti in tutto al vostro modo di essere. Grazie perché ci date la forza e lo stimolo per non cedere. Non possiamo lasciarvi campo libero, nonostante la voglia di smettere di lottare controvento.
Ringraziamo anche un esponente editoriale di ultrasinistra che ha detto la verità fino in fondo. “Non posso andare a pisciare e incontrarli.” Classe e democrazia, bon ton e tolleranza, ma soprattutto un’ammissione “animale”. Alcune specie segnano il territorio con l’urina. Nulla di diverso: il valente compagno “antifa” ha pronunciato parole di sincerità. L’Italia, la cultura, il dibattito, lo spazio pubblico sono cosa loro, proprietà indivisibile e indiscutibile. Negano un piccolo spazio a libri che neppure degnano di uno sguardo, temono la contaminazione, razzisti dell’anima, rifiutano ogni dignità alle idee perché tutto gli appartiene, il bene, il giusto, il vero. Non vogliono neppure vedere il volto di chi è altro da loro, la stessa esistenza di un “diverso” li perturba e fa scattare i riflessi peggiori.
Proibire libri, poi, avvicina ai nazisti, agli odiati preti dell’Indice e anche allo sceicco Rahman, un altro senza peli sulla lingua. Ordinando il rogo della biblioteca di Alessandria, disse che i testi in linea con il Corano erano inutili e quelli contrari dannosi, dunque andavano distrutti. Questi, evidentemente, sono i modelli di riferimento di lorsignori.
Esilarante, nella sua incoerenza, è un editoriale di Mattia Feltri sul quotidiano della Real Casa automobilistica torinese. Il fiero liberale si dice tentato di difendere i diritti di Altaforte, ma, dinanzi alle dichiarazioni di Francesco Polacchi, afferma di aver cambiato idea. E’ la solita storia: ostentano in astratto tolleranza e liberalità, salvo negarla in concreto, con le più speciose argomentazioni. E’ l’ora di riprendere un elementare concetto enunciato da Massimo Fini: in democrazia si colpiscono i comportamenti violenti, non le idee difformi. Ma qui sta la differenza tra l’idea di libertà e quella di democrazia.
Ha ragione Marco Della Luna, insisteranno sempre più, perché questa democrazia ha bisogno di affermarsi non come il bene, ma come unicum, dunque deve nascondere sfruttamento, violenza, indottrinamento, ineguaglianza sociale, creando un nemico contro cui scatenare, riunificandola artificialmente, la comunità. Ricordate René Girard e la sua teoria del capro espiatorio? Oggi tocca a Polacchi e ai suoi libri, tanto che nei suoi confronti è stato decretato l’interdetto massimo, la richiesta dei vertici delle istituzioni torinesi, il sindaco Chiara Appendino e il governatore Chiamparino, di processarlo per apologia del fascismo.
E’ ben strana, ma in fondo parte integrante della medesima strategia di mantenimento del potere ad ogni costo, l’attitudine di alcuni sinistri personaggi, maestri e talora apologeti del disprezzo delle leggi, che diventano campioni di legalismo allorché si tratta di invocare per via giudiziaria la repressione delle idee sgradite. Non è difficile, le norme le fanno loro, l’Italia e l’Occidente democratici (oh, quanto) le sfornano senza arrossire, la legge Mancino contro le “discriminazioni”, adesso l’omofobia, il sessismo e chissà che altro. Naturalmente, è libera la bestemmia, gradita l’iconoclastia, applaudita l’oscenità pubblica, ribattezzata trasgressione. Giornalisti di grido non si vergognano di nascondere la morte per mancanza di cure dei bambini greci vittime dell’austerità finanziaria. Nessuno invoca l’intervento dell’ordine di categoria, vale la regola di Giovanni Giolitti, per gli amici le leggi si interpretano, per i nemici si applicano. Quelle che colpiscono il pensiero più delle altre, vaghe e plastiche secondo opportunità e volontà, si possono tirare a piacimento, simili a una certa parte del corpo maschile.
Ma infine, che vogliamo, l’Italia e l’occidente sono cosa loro. Non a caso, le leggi penali non colpiscono altro dissenso che quello catalogato “a destra”. Grazie anche per questo, ci avete promosso a nemici unici del sistema ben oltre gli scarsi meriti. Per far tacere il dissenso, dispongono, oltreché dei tribunali – extrema ratio – di un doppio clero. Quello regolare degli accademici, dei colti, dei tenutari del potere mediatico e culturale (la rassegna torinese li rappresenta bene) e il clero secolare, i mazzieri dell’estremismo politico perennemente mobilitati per riflesso condizionato contro qualunque attività pubblica sgradita.
Abbiamo assistito per qualche minuto, cambiando rapidamente canale, ad un’intervista televisiva a Salvini di Lilli Gruber. Ci ha urtato il tono bellicoso, lo sguardo duro, l’ostilità manifesta, il rancore a stento trattenuto della famosa giornalista. Ogni tanto, ci deliziano con la loro involontaria comicità, ad esempio quando citano virtuosi con la mano sul cuore e la fronte leggermente corrugata, la frase attribuita a Voltaire, “non approvo ciò che dici, ma mi batterò sino alla morte perché tu possa continuare a dirlo “. Balle, sono illiberali come e più dei loro nemici. Anzi, poiché i loro padroni possiedono tutto, pretendono di scegliersi gli oppositori di comodo, gli unici a cui graziosamente concedono il diritto di parola.
Quante volte abbiamo ascoltato la litania di chi depreca che “in Italia ci sia questa destra”. Che meraviglia potersi scegliere gli avversari, o, come negli allenamenti dei pugili, gli “sparring partner” pagati per non affondare il colpo e stare attenti a non ferire il campione. José Ortega y Gasset scrisse che il grande vanto della democrazia liberale era rispettare e proteggere le minoranze, specialmente le più deboli. Se Don José aveva ragione, dobbiamo concludere che quella in cui viviamo non è una democrazia liberale e probabilmente neppure democrazia. Il loro modello sono le liste di proscrizione a carico di giornalisti e intellettuali sgraditi, è il turno di Buttafuoco, Giuli, Borgonovo, Scianca, Giubilei. La pessima tradizione risale alle guerre civili romane, Mario e Silla. L’ostracismo dei greci prevedeva almeno una votazione, questi signori se la cantano e se la suonano e guai se la vittima si azzarda a aprire bocca, come l’agnello di Fedro.
Cultura, poi, dovrebbe essere confronto di posizioni diverse, battaglia delle idee, contrapposizione. In democrazia, ci insegnano, si sostituisce la guerra aperta, la ragione della forza, con procedure civili che regolano lo scontro. Dovrebbe essere un perimetro a cui hanno accesso tutti, tranne i violenti. La vicenda del salone del libro dimostra per l’ennesima volta che le cose non stanno così. Il dissenso può essere espresso solo se china la testa e non contesta i fondamenti del loro potere, del loro orizz1onte. Democrazia in quanto comandate voi, imponete le regole e decretate le espulsioni, decidete per tutti ciò che si può – ovvero si deve – pensare e ciò che è vietato. Mezzo secolo fa gridavate “vietato vietare”, adesso siete alla proibizione di pensare altrimenti. Gran bella evoluzione, magnifica democrazia molto distante dalla libertà.
Lo ripetiamo ancora: nessuno ama la libertà più di chi se la vede negare nella pratica quotidiana. Noi affermiamo che nessun libro deve essere vietato, nessuna idea sottoposta a censura preventiva. L’antifascismo furente assomiglia ogni giorno di più al suo nemico. Solo il controllo totalitario di tutti i canali di comunicazione può perpetuare questo paradosso. L’odio non costruisce, può solo scavare nuovi fossati. Chi subisce la prova bruciante del pregiudizio, dell’esclusione, della discriminazione ha tre strade davanti a sé. Una porta alla sindrome di Stoccolma, assumere, per paura, comodità o vigliaccheria, le opinioni del persecutore. La seconda è il rifugio nel privato, farsi, come si dice, i fatti propri, abbandonare il campo. E’ quello che consigliano a mezza voce con ipocrita premura. La terza, non si illudano i falsi democratici e veri totalitari, è stringere i denti e non cedere il passo.
Questa è la nostra scelta: il vostro comportamento ci rafforza nelle convinzioni, se aveste ragione non vi servirebbero divieti, esigereste il dibattito per confutare il torto altrui. Un drammaturgo comunista, Bertolt Brecht, diffuse un brano di un pastore protestante divenuto celebre. Lo riproduciamo affinché ne prendiate atto e magari ricordiate il precetto cristiano di non commettere verso gli altri ingiustizie uguali a quelle subite.
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Noi protestiamo ancora, a voce alta e forte.