Nel maggio del 1846 il conte Camillo Benso di Cavour pubblica sulla Revue Nouvelle un saggio dal titolo Les Chemins de Fer en Italie. Naturalmente in francese, che è la sua lingua materna: stava giusto imparando l’italiano.
La storica Angelo Pellicciari ne parla sul suo volume “L’altro Risorgimento” (Piemme Edizioni 2000) che ho riletto durante la settimana di vacanze. Nei giorni delle polemiche e scontri di piazza No-Tav, è illuminante rilettura. Cavour vede già il giorno “In cui le ferrovie si estenderanno dalle Alpi alla Sicilia” e “faranno scomparire gli ostacoli e le distanze che separano gli italiani e impediscono la formazione di un’unica, grande, nazione”.
Detto ciò, si potrebbe credere che il regno savoiardo, proteso nell’anima alla conquista patriottica della nazione, fosse già coperto di fitte reti di tronconi ferroviari protesi verso il resto dell’Italia che aspirava a liberare dal giogo straniero.
Invece, nel territorio del Piemonte non esiste nessuna ferrovia, Nemmeno un metro. Cavour parla correttamente del Regno delle Due Sicilie che ha realizzato già due linee, la Napoli-Castellammare e Napoli-Capua: “Da un punto di vista economico hanno poca importanza,” ma “hanno il merito di rendere la vita più agevole ai napoletani e ai numerosi turisti” . La degnazione del conte è fuori luogo. L’arrivo costante di oltre un migliaio di turisti inglesi – e molti più francesi – ogni anno fu un importante fattore di sviluppo economico (e culturale) di Napoli e Sorrento. Erano danarosi aristocratici, abitavano a Napoli per mesi ed anche fino a tre anni, incantanti dalle visite guidate alla bocca attiva del Vesuvio (li accompagnava, finché visse, l’ambasciatore dell’impero presso i Borbone, lord Hamilton) agli scavi di Pompei ed Ercolano che erano cominciati, ai templi di Paestum alle stranezze geologico-scientifiche dei Campi Flegrei – e ai paesaggi marini limpidissimi dove i pittoreschi monelli si gettavano in tuffi prodigiosi dietro pagamento di una monetina. Un parco di attrazioni inesauribile, a cui contribuivano le feste e i ricevimenti che la Corte di Ferdinando, che dopo il matrimonio con Maria Carolina (una dei tredici figli dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria) rivaleggiava in magnificenza con Parigi.
Il Lombardo-Veneto? “E’ stato il primo paese italiano a prender sul serio la questione ferroviaria”, scriveva il Cavour. E mica per la linea Milano-Monza che funzionava dal 1838. No, il governo asburgico ha deciso da tempo la ferrovia Milano-Venezia, progetto che tarda a realizzarsi “per la deplorevole apatia, che potrebbe anche definirsi colpevole, de capitalisti milanesi”. Solo l’intervento “potente e generoso” dell’amministrazione absburgica sta permettendo di superare le difficoltà. “Bisogna ammettere che in questo frangente il governo di Vienna ha dato prova, nei confronti dei sudditi italiani, di sentimenti tanto illuminati quanto benevoli”.
Maria Teresa voleva il 4 per cento. Soltanto.
Sorprendente no? Milano-Monza, la ferrovia è di una trentina di chilometri; Vienna lancia un progetto di quasi 300 chilometri di strada ferrata – dimensione grandiosa per l’epoca – e i “capitalisti milanesi” reagiscono con “apatia che potrebbe definirsi colpevole”. Che tipo di capitalisti erano?
Recenti, anzitutto. Li aveva – letteralmente – creati Maria Teresa. Decisa a ricavare dalla Lombardia più del milione di ducati l’anno che essa aveva reso alla Spagna (che vi aveva lasciato crescere cose come il brigantaggio e il latifondo incolto) l’imperatrice aveva disposto la creazione del catasto. Si trattava di stabilire chi fossero i proprietari dei terreni “nel labirinto di manomorte, ipoteche, eredità contestate, diritti feudali e diritti demaniali”, e quanto valessero: ne fu incaricato Pompeo Neri, economista fiorentino, che ci mise dieci anni per venirne a capo. Quando il catasto entrò in vigore nel 1760, l’imperatrice stabilì: i proprietari devono pagare sul loro patrimonio terriero il 4 per cento del valore accertato. Gli aristocratici lombardi, che prima non s’erano occupati troppo di far rendere i loro beni terrieri, si trovarono di colpo obbligati o a subire una tassazione sproporzionata al reddito, o a darsi da fare per far rendere i loro campi più quel 4 per cento. Quel che avessero guadagnato in più, si noti, non sarebbe stato tassato. Guadagno puro.
Precedenti di semi-industrializzazione agricola non erano mai mancati in Lombardia. Basti pensare alle marcite dei cistercensi che permettevano nella valle padana tre raccolti di fieno l’anno, il che consentiva di alimentare grandi quantità di bestiame e quindi sviluppare l’industria casearia. O al baco da seta, che impiegava le famiglie contadine non solo nella coltivazione del gelso, ma poi nelle filande e ai telai. Incitati dalla modesta tassazione, i capitalisti lombardi trovarono conveniente reinvestire – il surplus lucrato ed esente da imposte – in attrezzature agricole moderne, sistemi d’irrigazione, stalle, granai, essiccatoi e venne naturale lo sbocco “industriale” del sovrappiù agricolo: filature e tessiture di lana, seta e “tela d’India”, caseifici, concerie, mulini, poi ferriere… Aiutati non poco dai dazi protettivi che l’impero aveva steso sulle loro produzioni: nessuna industria si sviluppa senza protezionismo.
Che questi capitalisti non guardassero col dovuto, dinamico entusiasmo l’idea di unire Milano a Venezia, si spiega col fatto che ciò esponeva la fiorente industria lombarda nata dalla terra alla concorrenza intra-imperiale. La prospera regione sarebbe stata collegata troppo da vicino all’Est dell’impero, più sviluppato. I neo-imprenditori cominciarono a lamentare che le lane del Tirolo facevano concorrenza ai loro lanifici. La Milano degli affari cominciò a rendersi conto che nell’impero era solo una delle molte città industriali in concorrenza fra loro – e a quel tempo era Praga all’avanguardia dell’industria metalmeccanica – e che le sarebbe convenuto essere la prima in una paese come l’Italia futura, industrialmente arretrato e protetto dai dazi.
Fu in quegli anni che i Federico Confalonieri, i Melzi d’Eril, i Serbelloni, i Trivulzio, i Casati e i Clerici , i Porro Lambertenghi (miliardari, i primi ad impiantare a Milano una filanda a vapore) presero a nutrire sentimenti anti-austriaci, patriottici e filo-inglesi. Alcuni “cospirarono” da carbonari nel 1821 con Silvio Pellico (istitutore dei Porro Lambertenghi) e Maroncelli, come il conte Federico Confalonieri (il primo milanese ad avere i caloriferi nel palazzo) che fu una specie di Giangiacomo Feltrinelli dell’epoca e fu incastrato dalla confessione alle polizia austriaca del co-cospiratore marchese Pallavicino-Trivulzio. I rivoluzionari si chiamavano in correo con tanta facilità, che lo stesso inquisitore , il trentino Antonio Salvotti (“il perfido Salvotti” nella propaganda patria) si affrettò a chiedere l’indagine sennò avrebbe dovuto chiudere allo Spielberg l’intera nobiltà-imprenditoria milanese.
Sicché quando nel 1848, sedate le Cinque Giornate, il popolino rivide entrare a cavallo l’ottantenne Maresciallo Radetzky , gli fece ala gridando: “Radèschi, in stà i sciuri” – i ricchi – a fare il Quarantotto, espresse una analisi politica notevole nella sua brevitas.
In realtà alle Cinque Giornate il popolino aveva partecipato con una violenza estrema, strada per strada. Ma poi aveva visto arrivare i piemontesi, le truppe savoiarde di Carlo Alberto, e… La Pellicciari dà la parola a Gramsci: “La Lombardia non voleva essere annessa come una provincia al Piemonte: era più progredita intellettualmente, politicamente, economicamente”.
Diciamo che se c’è una cosa che unì il Lombardo Veneto alle due Sicilie, fu – come chiamarlo: delusione? Malcontento? Rabbia per la spoliazione? – davanti al metodo savoiardo del patriottismo.
I capitalisti senza capitale
Se vi pare che stia parlando di cose storiche e passate, guardate meglio. Di ferrovie la Pellicciari torna a parlare a proposito della concessione “dell’intera rete ferroviaria del regno delle Due Sicilie” a due patrioti, il banchiere livornese Pietro A. Adami e il gran maestro della Massoneria Adriano Lemmi , e di quel che ne disse, il 6 ottobre 1860, il deputato Carlo Poerio, napoletano. Poerio segnala che quel contratto, stipulato dal “governo rivoluzionario della Sicilia” (ossia da Garibaldi), vincola per lunghi anni l’avvenire delle provincie [meridionali], le sottopone all’onere immenso de 650 milioni di lire […] ed assicura inoltre alla concessionaria l’utile netto del 7 per cento senza sborsare un obolo del proprio”.
Erano nati – particolarità italiana – i “capitalisti senza capitale”, e senza bisogno di averne uno loro perché glielo regala lo Stato. La tradizione continua infatti con i Benetton a cui il D’Alema diede in concessione le Autostrade IRI consentendo loro i lucri che sappiamo – e gli effetti che abbiamo visto a Genova.