Il giornalista di grido del New York Times, Ross Douthat, ha fatto un tweet: “Buone notizie gente, ho risolto come finire la campagna di Trump”, e postato un video di Dead Zone, un film dell’83 che narra di un sensitivo che, stretta la mano a un losco candidato presidenziale (nel film è Martin Sheen), “sente” che da presidente quello scatenerà la guerra atomica; e dunque attenta alla sua vita; lo manca, ma il candidato quando ode il colpo di fucile si fa scudo di un bambino, rivelando al mondo la sua bassezza morale; non sarà residente, il pianeta è salvo”.
Poi questo Douthat ha ritirato il tweet, ma nella repubblica dove l’enorme potere del presidente è temperato dai ricorrente assassinio, la minaccia reale. L’Establishment e i suoi giornalisti di servizio sono letteralmente pazzi di paura e di rabbia per i successi dell’incontrollabile milionario che non hanno scelto loro e che la gente applaude in funzione anti-sistema.
“Capi del Partito Repubblicano, dovete fare qualunque cosa per fermare Trump!”, invoca il Washington Post. “Trump è il mostro di Frankenstein dei repubblicani, adesso è abbastanza forte da distruggere il partito”, tuona Robert Kagan, il che è interessante se si ricorda che Kagan è Jewish Lobby, il marito di Victoria Nuland, membro del Council on Foreign Relations, neocon di prima grandezza, co-fondatore del Project for a New American Century, il pensatoio che ha preoconizzato e consigliato tutte le guerre americane degli ultimi 15 anni: cosa teme Kagan? Che Trump non sia un repubblicano alla Bush jr., che smetta di fare le guerre – pur essendo “di destra”.
E che dire dei “Liberal”, dei – diciamo – progressisti? Anche la presidente del Comitato Nazionale Democratico (in pratica è la segretaria del partito democratico nella fase elettorale), Debbie Wasserman Schultz, appena Trump ha trionfato in Nevada, è sbottata: “Il partito repubblicano, dopo anni di lisciate di pelo ai suoi estremisti, è intrappolato da quel che ha creato: un campo di candidati con concezioni completamente lontane dal mainstream e dalle aspirazioni del popolo americano”. Il che è quasi comico, visto che il miliardario è invece popolarissimo, e miserevolmente “lontani dalle aspirazioni degli elettori” appaiono i candidati scelti dalla macchina del partito, creature sintetiche e finte che si vedono false da un miglio di distanza, sbiadite nel confronto col pantagruelico, esorbitante, oltraggioso – ma sanguigno e veritiero – Donald.
Interessante che la Wasserman Schultz adotti lo stesso concetto di Kagan: “Repubblicani, avete creato un mostro, ora cosa facciamo?” Istruttivo per molti versi: primo perché anche la signora è, come Kagan, Jewish. Poi, perché essendo la stratega elettorale del partito democratico, non dovrebbe essere affar suo di preoccuparsi delle primarie repubblicane e del candidato che ne viene scelto. Anzi, se Trump è così poco “mainstream”, tanto “estremista”, e così “senza contatto col popolo americano” (out of touch with the American People) dovrebbe fregarsi le mani: vuol dire che favorirebbe l’andata alla Casa Bianca della candidata democratica, Hillary Clinton. Perché, secondo la dogmatica elettorale, i voti si conquistano al centro, e i candidati per vincere devono convincere la palude centrale dei cittadini “moderati” e conformisti. Invece, stavolta, più Trump esce dalle righe, più le spara grosse, e più piace e conquista. E la capintesta democratica si stringe ai capintesta dei repubblicani condividendo il loro lutto e la loro angoscia, ed esibendo così più platealmente che mai la verità più nota e taciuta: che i due partiti sono uno solo.
“Tu sei d’ispirazione per noi tutti”, ha detto a Trump qualche giorno fa Pat Robertson: un appoggio potentissimo, Pat Robertson essendo stato un pastore battista, telepredicatore di successo, padeone di tv e media evangeliche, che ha fatto milioni con trasmissioni televisive dove “afferma i valori del conservatorismo cristiano”.
Fondatore della Christian Coalition , l’organizzazione politico-religiosa che del fondamentalismo neo-evangelico e carismatico, ferocemente filo-sionista per ragioni apocalittiche (il ritorno degli ebrei in Israele accelererà la venuta del Messia) Pat Robertson può far convergere una quindicina di milioni di elettori verso il nome a cui dà l’endorsement: ed ha scelto Trump.
Il partito repubblicano dovrebbe essere lieto, e invece è in lutto. Il punto è che il programma politico per il candidato non lo stila il candidato, bensì la macchina di partito. Nel caso, il compito spetta a Paul D. Ryan, il presidente della Convenzione Nazionale Repubblican (il segretario, l’analogo della signora Wasserman Schultz per i democratici), sentiti ovviamente tutti gli interessi forti che fanno riferimento all’area “conservatrice”. Ma ahimé, Donald Trump non ha chiesto a Ryan di scrivergli il programma, e sta per vincere la nomination repubblicana. “Il grosso problema è che Trump non è un repubblicano”, ha ammesso il senatore di lunga data Lindsey Graham.
Ryan è per il mercato globale, esemplifica il New York Times, e invece Trump no. Ryan è per tagli alla previdenza sociale, Trump no. Donald vuole espellere milioni di clandestini, Ryan e i repubblicani vedono negli immigrati latinos dei forti sostenitori del loro conservatorismo. Ryan e il partito sono per l’autarchia energetica e, dunque per il shale oil e il fracking; Trump ha risposto che l’Irak, “che noi colonizziamo”, è pieno di petrolio, lo si può comprare lì. I repubblicani odiano Putin, Trump simpatizza. Soprattutto e più grave, laddove il partito repubblicano è in modo totale e incondizionati “a fianco di Israele”, Trup ha dichiarato che si porrebbe “come neutrale” nel conflitto israelo-palestinese.
Che altro? Murdoch, Soros e simili sono per Hillary Clinton, e detestano Donald; Trump ha vociferato “è da folli discutere dei diritti dei transessuali mentre si rischia la guerra atomica”. Ha persino recitato una poesia-apologo, che narra di una fanciulla “idiota” che si scalda in seno “un malvagio sepente”, facendo capire che la ragazza idiota è la Merkel e il serpente è Erdogan.
“Avete creato il mostro, come lo fermiamo?”, ha domandato la Wasserman Schultz. I repubblicani ci provano: Mitt Romney ha fatto capire che stanno spulciando le dichiarazioni fiscali del miliardario, e che dentro “c’è una bomba”: forse lo fermeranno come fermarono Al Capone. O forse come hanno fermato John Kennedy, come lascia intendere il tweet del giornalista del New York Times? Un altro, Chris Cillizza del Washington Post: “Deve accadere qualcosa di catastrofico per bloccare la nomination di Trump”. Una frase che somiglia a quella che del documento “Rebuilding the American Defense”, dove i neocon raccomandarono, nel 2000, al presidente prossimo venturo (sarebbe stato Bush jr.) un riarmo colossale e lo scatenamento delle guerre e destabilizzazioni mondiali. Per convincere l’opinione pubbblica, dissero, “ci vorrebbe un evento catastrofico e catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor”. Come sappiamo, di lì a poco l’attentato di Bin Laden alle Torri diede il pretesto per la guerra globale al terrorismo, che dura tutt’oggi.
Ora, un suo assistente ha rivelato che Donald Trump in tutti gli incontri pubblici indossa un giubbotto anti-proiettile, perché ha ricevuto e riceve centinaia di minacce di morte; minacce che si sono impennate quando ha dichiarato che lui presidente, chiuderebbe le frontiere ai musulmani. Il giubbotto può bastare per parare, forse, i proiettili del consueto assassino solitario. Ma se è “una catastrofe”, non basterà. E le catastrofi, in Usa, possono essere provocate a comando.
Le 13 aquile morte
Nella scorsa domenica , in Maryland, sono state tovate 13 aquile calve – morte misteriosamente. L’aquila calva è l’animale nazionale degli Usa, appare nel Gran Sigillo; sparare a un’aquila calva comporta, per legge federale, una multa di 100 mila dollari.
Chi è attento a cogliere i “segni”, ha messo in relazione la morte delle 13 aquile con la morte del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia. Cattolico, conservatore, onestissimo, custode tutto d’un pezzo della Costituzione, il giudice è comparso il 13 febbraio.
Ma il numero 13 appare in numerosissimi contesti, altamente simbolici, del potere americano: 13 sono le strisce della bandiera, 13 le colonie fondatrici originarie (fra cui il Maryland, dove sono state trovate morte le aquile). Sono 13 i gradini della piramide tronca del Sigillo, che appare sul dollaro. 13 lettere del motto “E Pluribus Unum”, e 13 della scritta “Annuit Coeptis”; 13 le frecce che l’aquila nel sigillo tiene con gli artigli; 13 le stelle sopra l’aquila.
E mai erano state trovate morte d’un colpo 13 aquile calve. Per di più, vicino alla cittadina di nome Federalsburg. Impossibile non ricordare che gli àuguri traevano segni sul destino di Roma dal volo degli uccelli, aquile o corvi. Questo può essere un malaugurio per la Federazione?
Come a parte: L’Italia s’è confermata ancora una volta il laboratorio politico creativo che la storia gli riconosce; ha generato il nuovo tipo di capo populista, miliardario e mediatico, che il popolo ha votato in funzione anti-Establishment. Con Berlusconi, dieci anni prima di Trump. Mussolini anticipò Hitler e i fascismi europei di quegli anni furono imitatori di quello italiano. Come sappiamo, la storia si è ripetuta in forma di farsa. Il laboratorio politico può essere ancora creativo e anticipatore, ma Berlusconi non ha capito quello che la storia voleva da lui. L’effetto è che sembra lui un imitatore comico di Trump, non Trump di Berlusconi.