Si chiama Luke Thorburn, ed è l’unico addetto del colosso bancario d’affari ad aver dato un contributo alla campagna del candidato: per 534,58 dollari. Si tenga conto che gli altri dipendenti di Goldman Sachs hanno fatto donazioni per oltre 199 mila dollari a Marco Rubio, 99 mila per Hillary Clinton (le contribuzioni alle campagne dei candidati devono essere pubblicamente dichiarate) . Siccome era l’unico, di lui ha parlato il New York Times: così la banca se n’è accorta, ed ha preso le misure.
Formalmente, la banca non l’ha punito per aver scelto Trump, ma per un altro motivo. Ha scoperto che Luke Thorburn ha con altri un sito, che si chiama “Make Christianity Great Again”, e si propone come un’organizzazione di cittadini che intende “portare Dio al centro delle nostre vite”. Il motto – che evoca quello di Trump, Make America Great Again, appare sui cappellini che l’organizzazione vende per 14.99
http://makechristianitygreatagain.com/
Ecco il punto: quello di Thorburn è un sito a scopo di lucro. Goldman Sachs – fa’ sapere una fonte della direzione – consente ai dipendenti di “perseguire le proprie opportunità d’affari”, ma prima devono chiedere il permesso all’azienda. Non l’ha chiesto, dunque sospeso (quando la cosa s’è risaputa, la banca d’affari ha fatto sapere che Luke è sospeso ma senza interruzione dello stipendio; il giovane è introvabile…)
E’ un piccolo aneddoto, ma mostra che l’Establishment getta la maschera e vien meno ai divinizzati principi della American Liberty (la libertà d’opinione, la libertà politica) a tal punto è terrorizzato da Trump. Le sparate degli spaventatissimi esponenti dei poteri forti sono degne di nota.
“I militari rifiuteranno di obbedire a Trump, se diventa presidente”: Michael Hayden, ex direttore della Cia. “Trump è un gravissimo pericolo per la democrazia”: Larry Summers (J), economista di Obama fino al 2010.
“Trump renderà l’America meno sicura” sia perché ha simpatia “per il dittatore Putin”, e “per le sue parole d’odio anti-islamico; passa dall’isolazionismo all’avventurismo militarista”, hanno scritto 60 personalità ebraiche “del settore della sicurezza” fra cui spiccano le firme di attori primari dell’11 Settembre e iniziatori, sotto Bush figlio, della guerra infinita contro l’Islam ancora in corso. Si va da Dov Zakheim, il rabbino padrone di una fabbrica di droni che era uno dei tre viceministri sotto Rumsfeld (gli altri Wolfowitz e Feith, parimenti israelo-americani), a Michael Chertoff, il capo della Homeland Security che insabbiò le indagini sull’attentato alle Twin Towers quando portavano a Sion, da Eric Edelman (altro sottosegretario alla Difesa sotto Buh), a Max Boot, il consigliere in politica estera del noto pacifista senatore McCain, da Eliot Cohen, consigliere di Bush, a Kagan, il marito della Nuland ed esponente dei neocon più sfegatati.
La loro paura si capisce: sono i responsabili della “Nuova Pearl Harbor”, ossia dell’11 Settembre e di aver portato l’America ad invadere l’Irak di Saddam. Una presidenza non amica che apra quel capitolo, li rovina.
Trump “vuole distruggere la libertà”, secondo i fratelli Koch, due miliardari industriali (J) che avevano annunciato di essere pronti a spendere 900 milioni di dollari per far vincere un repubblicano, per lo più attraverso la “Koch Network”, una rete di amici milionari che danno i contributi non apparendo col proprio nome, ma come “fondazioni culturali” – il che ha il vantaggio di rendere impossibile sapere quanto dà ciascuno di loro. Nelle ultime ore, i Koch hanno fatto sapere che “non” useranno la somma per Trump, ma nemmeno contro Trump: un angosciato riconoscimento della sua forza. “I repubblicani ebrei hanno completamente fallito nell’impedire l’ascesa del tossico Trump”, lamenta su Forward (la patinata rivista ebraica) Noam Neusner, che scriveva i discorsi per lo sconfitto Jeb Bush.
Poi ci sono inattesi appoggi. “Trump è odiato dall’elite perché non è stato iniziato alle società segrete”, è sbottato Newt Gingrich, già presidente del Senato e candidato repubblicano alle primarie del 2012: senza diffondersi su quali società segrete intendesse (Skull & Bones? Bohemian Grove? Trilateral?). Louis Farrakhan, fondatore della setta negra e fanta-musulmana Nation of Islam, che maneggia un bel po’ di voti neri, ha pubblicamente lodato Trump, “il solo che davanti alla comunità ebraica, ha detto: non voglio i vostri soldi”.
“Farà colare a picco l’economia Usa”, ha invece profetizzato Mitt Romney – come se l’economia americana non fosse già a picco, sostenuta dalle pompe di liquidità della Fed. Effettivamente uno dei motivi di terrore dei poteri forti sono le idee di Trump sulla globalizzazione: è contro, ferocemente contro. “Creerò milioni di posti di lavoro obbligando per esempio Apple a fabbricare i suoi IPhones in America, non in Cina”; e sulle merci cinesi, che distruggono posti di lavoro nazionali, ha minacciato di appioppare dazi del 45%. Inoltre, benché milionario, è favorevole ad alzare le tasse sulle grandi fortune, e s’è pronunciato per la copertura sanitaria universale; il che gli ha riscosso l’approvazione di Paul Krugman, che turandosi il naso ammette: “E’ esattamente lo sbruffone ignorante che appare. Ma in economia, ha ragione Trump”.
Economist: sì, col globalismo siamo impoveriti
Fatto singolare, una conferma, forse involontaria, è venuta dalla bibbia del liberismo globale, l’Economist. Il 6 febbraio, ha pubblicato una rilevante indagine sulle conseguenze dell’aver portato troppo rapidamente la Cina nel libero commercio mondiale. I lavoratori cinesi hanno trovato occupazione a milioni, ma – scopre l’Economist – “i lavoratori dei paesi sviluppati hanno della crescita cinese più di quanto gli economisti credevano (…). L’esposizione improvvisa alla concorrenza straniera ha significato almeno un decennio di calo dei salari e dei posti di lavoro”.
La Cina, in 22 anni, è passata dal 2,3 al 18,8% dell’export mondiale di prodotti industriali, fino ad avere dei monopoli in determinati settori. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti hanno perso il 44% dei posti di lavoro industriali (1990-2007): questa emorragia è dovuta indubbiamente alla Cina (alle delocalizzazioni): mille dollari d’importazioni cinesi hanno provocato in Usa un abbassamento dei salari di 500 dollari e la perdita di 2,4 milioni di lavori. Uno studio della Fed in collaborazione con Yale giungo a sostenere che l’apertura dei mercati globali alla Cina, coi suoi bassi salari, è costata agli Usa la perdita del 30 percento del lavoro industriale. In Europa, non si sono fatti i conti, ma la realtà che abbiamo attorno è eloquente. Fino a che la differenza dei salari fra cinesi ed occidentali resta così colossale, i paesi sviluppati (ex sviluppati?) sono condannati alla devastazione sociale. E vengono spinti a “riforme”, leggi, riduzioni salariali, che sono comunque insostenibili, ed hanno provocato la deflazione-depressione che soffriamo.
Interessante ammissione. Che lascia sperare in un cambio di clima, dopo 30 anni di globalizzazione selvaggia imposta dall’ideologia washingtoniana e londinese. Trent’anni in cui il capitale finanziario ha suggerito, imposto, quanto segue: voi imprese occidentali, andate a fabbricare le merci nei paesi a bassi salari, e poi venite a rivenderle nei paesi a salari alti. Furbo, no?
Adesso si comincia a scoprire che i “salari alti” non ci sono più dove dovrebbero essere, e le merci restano invendute, a prezzi calanti. Trump è “lo sbruffone ignorante” che dice Krugman, ma Dio ci scampi dai sapienti economisti liberisti. Esiste vita intelligente nella globalizzazione? Pare di no.