Di Paolo Borgognone
Vladimir Vladimirovic Putin, presidente della Federazione russa, è attualmente il politico più demonizzato al mondo (dal “circo mediatico” liberale di sinistra). A Putin è infatti riservata la diffamazione a mezzo televisivo e stampa definita, da Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, nel bel libro Governo globale, «trattamento Milosevic», in riferimento alla campagna di satanizzazione mediatica condotta, nel 1999, dalla pubblicistica liberal e radical-chic ai danni dell’allora presidente jugoslavo (impunemente rinominato “Hitlerosevic” della rivista di “sinistra” L’Espresso). La stessa Federazione russa viene descritta, dai media di cui sopra, come “di Putin”, lasciando maliziosamente intendere che il Paese sia trattato quale “proprietà privata” da una sorta di “autocrate-magnate”. Questi media, naturalmente, tralasciano (in maniera volontaria) il fatto che la Russia non sia in alcun modo “di Putin” o di qualsivoglia altro politico, ma dei russi e delle loro tradizioni storiche. Se un politico e uomo di Stato come Putin, con il suo patriottismo, riesce a farsi rappresentante e interprete delle summenzionate tradizioni, politiche e spirituali, del popolo russo, ben venga. Infatti, l’unico Stato, se così lo si può definire, al mondo, oggetto privatistico di una casa regnante, è l’Arabia Saudita, autentica proprietà privata dei Saud. Tuttavia, questo i media liberali occidentali non lo scrivono e non lo affermano, essendo l’Arabia Saudita il principale alleato di Usa e Israele in Medioriente, preferendo accanirsi contro uno Stato sovrano e pacifico, la Russia, in quanto recitante, sullo scenario geopolitico globale, il ruolo di contraltare al dominio liberaldemocratico a stelle e strisce. Infatti, secondo Adriano Sofri, il pubblicista passato dalle urla maoiste (W Marx! W Lenin! W Mao Tse Tung!) degli anni di Lotta Continua agli odierni starnazzi e schiamazzi neoliberali (W Clinton! W Blair! W Emma Bonino!),
Putin è un dittatore, guidato solo dal proposito di accrescere e conservare il proprio personale potere. Non è nostalgico del comunismo, ma della potenza russa e della devozione criminale che sapeva instillare negli uomini del suo apparato, ed esemplarmente del Kgb. Il suo sistema di relazioni interne non evoca Machiavelli ma la famiglia mafiosa. La sua politica internazionale si fonda sulla convinzione di poter giocare al rialzo contro avversari, le democrazie liberali, ormai incapaci di immaginare a fondo il male negli altri e la resistenza in sé [Il Foglio, 21 marzo 2016].
Sofri è infatti un aperto sostenitore degli Stati Uniti come «gendarme del mondo», ossia come impero liberaldemocratico in continua, inesorabile espansione. Sofri, già supporter del secessionismo ceceno negli anni Novanta, denuncia il tentativo di resistenza opposto dalla Russia “di Putin” (vero e proprio katechon del nostro tempo storico) ai propositi imperialisti nordamericani e stigmatizza una invero inesistente, e percepita soltanto nel novero delle idiosincrasie ideologiche dei liberali, «campagna nazionalista e xenofoba» del presidente russo nei confronti di chissà quali “inermi oppositori” e “dissidenti democratici”. Per l’ex leader di Lotta continua, probabilmente all’oscuro del dato di fatto dei 30 milioni di morti provocati, dal secondo dopoguerra a oggi, dai cosiddetti “interventi militari democratici” degli Usa al di fuori dei propri confini (nell’ambito della coloniale dottrina del Destino Manifesto), la Russia sarebbe una sorta di “autocrazia” dove i soli “veri” oppositori all’immaginario “regime di Putin” si situerebbero sulla sponda liberaldemocratica del quadro politico interno e dovrebbero essere ravvisati in personaggi totalmente invisi alla popolazione per il ruolo da loro ricoperto negli anni della shockterapia economica (a guida Fmi) degli anni Novanta, quali Mikhail Khodorkovskij e Mikhail Kasyanov. Al di fuori di questi screditati personaggi (su Mikhail Kasyanov, detto “Misha 2 per cento”, «perché il due per cento è la sua provvigione, il suo aggio, la sua mazzetta qualsiasi sia l’affare, l’accordo, la legge che può regalare ai nuovi capitalisti di Mosca un profitto», vedasi G. D’Avanzo, P. Del Re, E’ il premier Kasyanov il regista del Russiagate, in «la Repubblica», 16 luglio 2000), in Russia, sul piano politico, secondo Sofri, non vi sarebbero che “comunisti” e “fascisti”, oppositori di comodo di Putin… Vale la pena di riportare le parole, grondanti eurocentrismo e scarso rispetto per le scelte elettorali dei russi, di Sofri:
In Russia, sondaggi freschi (forse non del tutto inaffidabili, questi) dicono che gli oppositori più noti al pubblico russo sono Zjuganov e Zhirinovskij, burattini “comunista” l’uno e fascista l’altro nelle mani di Putin.
Dal discorso di Sofri traspare uno sprezzo radicale (nel senso proprio di Partito radicale, di eurocentrico snobismo bonino-pannelliano verso qualsivoglia antagonismo politico e culturale all’indebitamente idolatrato «modello liberaldemocratico anglosassone») nei riguardi di più del 30 per cento dell’elettorato russo che, pur non identificandosi nel partito di governo Russia Unita, decide, liberamente e sovranamente, di indirizzare la propria scelta elettorale verso partiti di opposizione ideologicamente distanti dal modello americano di democrazia (e pertanto sbrigativamente e con la sufficienza tipica degli snob alto-borghesi dal passato di “rivoluzionari di sinistra”, diffamati come “stalinisti” e “fascisti”). Sofri infatti, come ogni liberale che si rispetti, non tiene in alcuna considerazione la disillusione e il risentimento dei russi nei confronti della classe dirigente “democratica” che negli anni Novanta svendette il Paese a un pugno di oligarchi filoccidentali e rinunciò a qualsiasi rivendicazione nazionale in politica estera, piegandosi con interessata quiescenza ai dettami di Washington e persevera nello sponsorizzare, sulle testate giornalistiche con cui collabora, politicanti e affaristi che in Russia sono considerati, del tutto a ragione peraltro, i protagonisti principali della catastrofe degli anni Novanta.
In questo senso, è importante riportare le parole, tratte dal libro Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievic, di una semplice cittadina russa, tale Olesja Nikolaeva, 28 anni, di professione sottotenente di polizia. Olesja Nikolaeva, ragazza superficialmente attratta, alla fine degli anni Novanta, dalla militanza politica per i “democratici” capitanati dall’«affascinante» (per chi vuole, naturalmente) playboy Boris Nemtsov, esprime, nella sua fraseologia, tutto il carico di frustrazione politica nei confronti di un ceto dirigente liberaldemocratico autoreferenziale, prepotente e caparbiamente impegnato nell’ostentare le ricchezze accumulate negli anni della «grande rapina» organizzata e diretta dai Chicago Boys di Boris Eltsin. Di fronte a codesti “democratici”, dice la comprensibilmente disillusa Olesja, meglio i comunisti e l’Urss:
[…] alla radio, quasi volessero deliberatamente nuocerci ed esasperare il popolo, diffondono messaggi come: Bisogna amare i ricchi! I ricchi ci salveranno! Ci daranno lavoro… Ci mostrano come fanno le vacanze, come mangiano … Come vivono nelle loro case con piscina … con i loro giardinieri, i loro cuochi […]. La sera guardi la televisione che trasmette solo porcherie e vai a dormire. Prima molta gente votava per Javlinskij e Nemtsov… Io ero un’attivista e correvo sempre a votare. Ero una patriota! Mi piaceva Nemtsov, era giovane, bello. E poi tutti abbiamo capito che i democratici volevano solo vivere bene. Che di noi si erano dimenticati. Le persone non sono che polvere… granelli di polvere… Il popolo si è rivolto di nuovo ai comunisti. Quando c’erano i comunisti nessuno aveva i miliardi, tutti avevano un minimo, quanto bastava. Ci sentivamo degli esseri umani. Io ero come tutti gli altri.
Adriano Sofri afferma, inoltre, con suo grande rammarico, che l’odierna ammirazione politica per la Russia sovrana quale katechon nei confronti dell’incedere travolgente dell’impero liberaldemocratico americano avrebbe in qualche modo favorito, in Europa, una sorta di “unificazione” d’intenti politici tra una destra e una sinistra non-liberali. Scrive infatti l’ex leader di Lc:
Una prima riflessione, o piuttosto una seccante constatazione, riguarda l’universale anestetizzazione, quando non l’ammirazione sentita, nei confronti della Russia contemporanea e del suo boss. Essa ha finito per unire una ex sinistra, trasferita senza patemi dal Cremlino sovietico al Cremlino putiniano, e una ex destra che non ha più l’ostacolo del preteso comunismo e socialismo a impedirle di far festa al talento sbrigativo dell’autocrazia. E’ in buona parte il risvolto di un antiamericanismo che già associava una destra e una sinistra al tempo della Guerra fredda […].
Ciò che Sofri afferma è paradossalmente vero e la sfida lanciata da questo personaggio va colta appieno. Una destra ispirata a valori signorili di onore e fedeltà e una sinistra che ha nell’originario e non settario socialismo il proprio orizzonte dovrebbero, nei Paesi della Ue, stabilire un’alleanza, perlomeno tattica, al fine di contrastare le mire egemoniche statunitensi in ambito geopolitico, il cosmopolitismo dei “diritti di libertà” al desiderio consumistico individuale in ambito culturale, il nomadismo, il giovanilismo modaiolo e pop e il materialismo pratico in ambito sociale, il liberalismo in ambito ideologico e il liberismo in ambito economico. Ossia un’alleanza per contrastare, avendo come finalità la costruzione di una società globale (ma non globalizzata) autenticamente postliberale e differenziata sulla base della storia, delle tradizioni e della memoria di ciascun popolo, il capitalismo come «processo unitario olistico» (cit. Costanzo Preve). Già nel 1999, nel libro Serbia, trincea d’Europa, il geopolitico jugoslavo Dragos Kalajic (1948-2005) tratteggiava la necessità storica dell’alleanza, «almeno tattica», tra la “vera” destra (sociale) e la “vera” sinistra (identitaria) al fine di dar vita al katechon, ossia «il potere che tiene a freno l’avanzata dell’Anticristo prima dell’apocalisse finale e della parusia di Cristo». Scriveva, infatti, Kalajic:
La coincidenza di posizioni – peraltro sintomaticamente speculare alla falsa sinistra e alla falsa destra – tra la vera sinistra e la vera destra, dà occasione di ripensare soprattutto le ostilità e le divergenze, ovvero tutta la storia degli ultimi decenni, caratterizzata anche da scontri fisici, tra destra e sinistra; mi riferisco in particolare agli anni di piombo, alla strategia della tensione, agli opposti estremismi. Oggi è chiaro a tutti che la strategia era confezionata e gestita dal di fuori, da Washington, che mirava a sfruttare queste opposizioni per gli scopi che oggi sono davanti ai nostri occhi. Ora, a mio avviso, bisogna ripensare tutto questo e creare un’alleanza almeno tattica, almeno su parziali interessi comuni sia sul piano del pensiero che dell’azione. Bisogna superare il vecchio antagonismo storico tra destra e sinistra, innanzitutto perché è stato infruttuoso, sterile; non ha portato nessun frutto positivo, anzi ha solo danneggiato sia la vera destra, quella ideale, nazionale (non quella economica) che la vera sinistra, quella ancorata agli ideali di una società più equa.
Il katechon è, secondo lo storico Santo Mazzarino, «la forza frenante dell’Impero romano prima della venuta antimessianica». Il katechon oggi è rappresentato dalla Russia sovrana, cristiano-ortodossa (ma comunque multietnica e plurireligiosa), la Terza Roma, l’impero del bene e della luce, impegnata nella strenua lotta di resistenza contro l’impero del male incarnato dall’anti-civiltà talassocratica e tecno-mercantile euratlantica, anglosassone. Il ruolo della Russia come katechon è perfettamente compreso dalle classi popolari autoctone e dei Paesi europei che, non a caso, ravvisano in Putin e nei suoi propositi di «democrazia sovrana» una sorta di argine contro l’incedere travolgente dell’illimitata «postsocietà americana» riproducentesi mediante strategie di guerra coloniale e crisi economiche perpetue e ripetute, il tutto sotto la copertura culturale neoliberale della “società dello spettacolo”.
Il 26 gennaio 2016 un sondaggio dell’agenzia demoscopica indipendente russa Levada Center affermava che il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, poteva vantare sull’approvazione dell’82 per cento dell’elettorato complessivo. Nel settembre precedente, un altro sondaggio riportava il dato secondo cui il partito di Putin, Edinaja Rossija (Russia Unita, il “partito del potere”), contava sul 51,6 per cento dei voti, a fronte di una platea di concorrenti distanziati di gran lunga (il primo dei diretti avversari di Russia Unita, il Partito comunista della Federazione russa, poteva annoverare il 7,8 per cento dei voti, seguito dai nazional-populisti del Ldpr con il 7,7 per cento e dai socialdemocratici di Russia Giusta con il 5,5 per cento). La popolarità di Putin travalicava ormai le frontiere nazionali, vanificando gli sforzi del fronte mediatico russofobico proteso a suscitare disapprovazione pubblica nei riguardi della figura politica del presidente russo. In Italia infatti, secondo quanto riportato dal quotidiano Libero, «Putin è considerato in assoluto il personaggio più influente [sulla scena mondiale] (votato dal 28 per cento del campione intervistato, […] davanti a Barack Obama, crollato dal 40 per cento del 2013 all’odierno 27 per cento)». Sempre secondo Libero, il 71 per cento degli italiani approvava la strategia politico-militare attuata da Putin in Siria. Il modello di «democrazia sovrana» propugnato da Putin per la Russia è, comprensibilmente e non a torto, molto apprezzato e condiviso dalle classi popolari dei Paesi della Ue perché risponde alla domanda di sicurezza politica, economica e sociale, nonché di partecipazione democratica ai processi decisionali a livello nazionale, proveniente dai settori sociali defraudati dall’odierna post-democrazia, o tecnocrazia neoliberale sovranazionale e anti-europea, di Bruxelles. Pertanto, il modello politico propugnato dal gruppo dirigente contiguo a Vladimir Putin in Russia è percepito, dalle classi popolari dei Paesi della Ue, come estremamente più democratico del modello di “liberalismo reale” promosso dal ceto dirigente sistemico, di centrodestra e di centrosinistra, rappresentato da personaggi quali Cameron, Hollande, Berlusconi, Sarkozy, Merkel e Renzi. In questo senso, è perfettamente comprensibile il voto massivo di operai, impiegati (un iscritto su quattro al sindacato francese Cgt, politicamente su posizioni di sinistra, per dichiarazione stessa del segretario generale della nominata centrale sindacale “rossa”, Philippe Martinez, «vota per il FN»), piccoli e medi imprenditori e disoccupati, ossia i cosiddetti “defraudati”, “marginalizzati” e “sradicati” dai processi di globalizzazione, ai partiti europei cosiddetti “populisti”, dal Front National al FIDESZ; partiti, questi ultimi, apertamente favorevoli all’innesco di una serie di dinamiche di risovranizzazione (politica, economica, culturale, monetaria e, in parte, anche militare) degli Stati nazionali del “Vecchio Continente” (naturalmente, occorre tener presente che una prospettiva deglobalizzatrice immaginata in chiave esclusivamente nazionalistica non conduce da alcuna parte in quanto genera, nel periodo medio lungo, ripiegamento localistico e chiusura sciovinistica, se non viene coniugata in un’accezione eurasiatista, ossia di costruzione di un vero e proprio blocco geopolitico continentale, costruito su basi culturalmente tradizionali ed economicamente solidaristiche, cooperativistiche e socialiste, ma va tenuto presente che la critica “nazionalistica” del capitalismo odierno è assai più in sintonia con i sentimenti, le esigenze e le aspettative delle classi popolari rispetto alle confusionarie velleità progettuali degli altermondialisti, new global, “dirittumanisti” e femministe, fautori di una lacrimevole e parolaia critica del liberismo economico ma sostenitori del nomadismo e del cosmopolitismo di indistinte “moltitudini desideranti” in ambito culturale).
Si configura dunque, giunti a questo punto della trattazione, approfondire il tema relativo al concetto di «democrazia sovrana», il cui ideologo principale risultò essere, un decennio addietro rispetto all’oggi, il vicepremier (nonché vice-capo dell’amministrazione presidenziale dal 1999 al 2011) Vladislav Surkov, giornalisticamente definito «l’eminenza grigia» del governo di Vladimir Putin. Secondo l’analisi effettuata sulla rivista Gramsci Oggi dalla ricercatrice Cristina Carpinelli, «la Russia non è un banale Stato autoritario. Non è nemmeno uno Stato di tipo sovietico. Né una democrazia liberale. E’ una democrazia “guidata”», i cui ideologi nutrono affinità maggiori con politici e pensatori quali François Guizot (1787-1874), primo ministro liberale francese durante il periodo cosiddetto della “monarchia di luglio”, «sostenitore dello Stato minimo» e il politologo Carl Schmitt (1888-1985), esponente di punta della corrente «conservatrice rivoluzionaria» tedesca degli anni Venti e Trenta del XX secolo. I riferimenti ideali di chi, in Russia, ha teorizzato e realizzato l’esperimento definito di «democrazia sovrana» non possono in alcun modo essere definiti «comunisti» o «nostalgici del “totalitarismo” sovietico». Essi appartengono infatti a scuole di pensiero ideologicamente agli antipodi del marxismo e del leninismo, che ispirarono e funsero da propulsore alla Rivoluzione bolscevica d’Ottobre. La costruzione di un sistema di «democrazia sovrana» in Russia è strettamente correlata alla reazione opposta dal Cremlino ai tentativi occidentali di «promozione della democrazia» nelle repubbliche ex sovietiche, in special modo in Georgia ed Ucraina, a partire dal 2003 («Rivoluzione delle rose» a Tbilisi). Così come i piani di ri-centralizzazione del potere statale nei confronti della periferia regionale furono approntati e messi in atto a seguito dell’attacco terroristico di Beslan (settembre 2004), l’ideale patriottico di «democrazia sovrana» fu inizialmente concepito e successivamente concretizzato dopo gli eventi georgiani (autunno 2003) ed ucraini (dicembre 2004) noti in Occidente come «rivoluzioni colorate». Il concetto di «democrazia sovrana» è centrato sulla priorità della tutela e salvaguardia dell’interesse nazionale e collettivo attraverso la conduzione di un cosciente processo di nazionalizzazione delle élites (succeduto alla fase di progressiva snazionalizzazione, bespredel’, o caos costruttivo, caratterizzante l’era Eltsin). Secondo l’analisi di Cristina Carpinelli, l’origine russa del termine «democrazia sovrana» dev’essere ricercata «nella spiegazione data dal Cremlino della cosiddetta “rivoluzione arancione” che aveva invaso le piazze delle maggiori città dell’Ucraina nel novembre 2004 – gennaio 2005». Di fronte alla destabilizzazione “arancione” dell’Ucraina, attuata anche e soprattutto mediante il contributo politico e organizzativo delle Fondazioni americane per la «promozione della democrazia all’estero» (George Soros), «Putin si affrettava, dunque, a lanciare la sua contro-rivoluzione, producendo una profonda trasformazione del tipo di democrazia instauratasi in Russia negli anni di Eltsin […]. La finta democrazia di Eltsin era stata rimpiazzata dal consolidamento del potere dello Stato da parte di Putin attraverso la nazionalizzazione delle élites e l’eliminazione o la marginalizzazione di ciò che Vladislav Surkov aveva definito l’“aristocrazia offshore”». La sopraccitata «nazionalizzazione delle élites» fu sostanzialmente condotta, dalla verticale del potere radunatasi attorno alla figura-simbolo di Vladimir Putin, «con la statalizzazione del sistema energetico» al fine di recuperare al controllo pubblico gli assets strategici determinanti per l’indipendenza energetica nazionale, «la legge contro le Ong russe finanziate dalle Fondazioni occidentali», al fine di evitare una non del tutto impossibile ripetizione, a Mosca, dello scenario ucraino denominato “rivoluzione arancione” e «la creazione di movimenti patriottici in grado di garantire un supporto attivo al sistema presidenziale in tempi di crisi (vedi il movimento giovanile Nashi)». Quest’ultimo punto si caratterizza come particolarmente rilevante nella strategia di costruzione della «democrazia sovrana».
Oppositori griffatissimi
Bisogna infatti tener conto del fatto che i soggetti sociali protagonisti delle varie “rivoluzioni colorate” nei Paesi dell’Est non sono i pensionati socialmente massacrati dalle privatizzazioni e dalla demolizione oligarchica del precedente stato sociale sovietico, bensì sedicenti, griffatissimi (nello stile di abbigliamento) e gadgettizzati (ossia, muniti di regolamentare smartphone d’ordinanza) studenti immediatamente percepiti, dall’opinione pubblica dei semicolti occidentali, come benestanti ma desiderosi di ulteriori opportunità individuali nel “meraviglioso mondo” dei consumi e dei desideri pubblicitari a stelle e strisce, un “mondo paradisiaco” che la “perfida repressione” dei “regimi postsovietici” dei vari Putin, Lukashenko, Yanukovich e Milosevic impedirebbe loro di raggiungere, tenendoli confinati (magari costringendoli a contemplare vecchie statue di Lenin e del milite ignoto) nelle anguste frontiere nazionali. Per fronteggiare questa becera propaganda russofobica, tesa a suscitare il consenso dei ceti semicolti delle principali città europee e dei campus universitari liberal statunitensi nei confronti delle velleità cosmopolite della «giovane borghesia» moscovita e pietroburghese (i cui esponenti venivano immediatamente avvertiti come “dei nostri” dagli strati superiori della classe media globalizzata bazzicante le business school di New York, Parigi e Londra), Putin autorizzò la formazione di un movimento giovanile a carattere finalmente patriottico, Nashi (I Nostri, laddove il pronome “nostri” ricopriva un voluto significato specularmente opposto a quanto inteso dalla knowledge class occidentale nel momento in cui rimarcava similitudine e “solidarietà” [tra virgolette perché all’interno di un orizzonte di vita egoistico e consumistico come quello caldeggiato dai giovani “rampanti” aspiranti manager globalizzati non può trovar posto alcuna forma di solidarismo e cooperazione] con il magma studentesco di classe media moscovita; I Nostri era infatti inteso, in questo senso, come “I russi”, coloro i quali, nella propria militanza politica, sono ispirati da “valori” e non da “interessi” e/o da “desideri” di acquisizione materiale). Va da sé che Nashi, per la serie “non c’è limite alla vergogna e al trash” coltivati a piene mani dal circo giornalistico liberale di complemento all’atlantismo e al sionismo più oltranzisti, fu immediatamente diffamato, dai media occidentali e dai “dissidenti” da salotto (ossia, con passaporto americano) del panorama politico russo, in stile Garry Kasparov, come una sorta di riedizione, in salsa russa, della «Gioventù hitleriana» (vedasi a riguardo, G. Kasparov, L’inverno sta arrivando, Fandango Libri, Roma, 2016, p. 214). A detta di Cristina Carpinelli, dopo gli anni di Eltsin e dei Chicago Boys, «solo attraverso la “nazionalizzazione” delle élites si poteva ottenere una democrazia correttamente orientata a perseguire gli interessi nazionali», ossia un sistema politico centrato su di un blocco popolare e patriottico egemonizzato dai ceti medi produttivi autoctoni, e sostenuto dal voto massivo delle fasce sociali più propriamente popolari abitanti la sterminata periferia provinciale del Continente-Nazione “Russia”. L’elaborato teorico della «democrazia sovrana» riteneva dunque il perseguimento dell’interesse nazionale prioritario nei confronti delle istanze liberalizzatrici propugnate dalle élites oligarchiche e partitiche filoccidentali interne al quadro politico-sociale della Federazione russa. Personaggi quali Mikhail Khodorkovskij non potevano in alcun modo essere ritenuti compatibili con il modello politico di «democrazia sovrana». Gli oligarchi, assai vezzeggiati come “imprenditori democratici” dalla stampa occidentale, che parlava (e tuttora parla) di loro come dell’espressione della Russia «aperta» e «migliore», erano infatti radicalmente avversati dalla stragrande maggioranza della popolazione russa. E’ sufficiente, in proposito, per verificare direttamente l’avversione dell’uomo comune russo nei confronti degli oligarchi (perlopiù ex tecnocrati “rampanti” e spregiudicati affaristi di classe media appartenenti, agli albori della perestrojka, alle seconde linee del Pcus) riportare le seguenti parole, pronunciate da un “normale” cittadino russo e citate nel libro Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievic:
E’ come se in Russia ci fosse un capitalismo senza capitalisti […]. Gli oligarchi russi non sono dei capitalisti, ma solo dei ladri. E poi come potrebbero venir fuori dei capitalisti da ex comunisti e attivisti del Komsomol. Non provo nessuna compassione per Khodorkovskij. Se ne stia lì sul suo tavolaccio. Mi rincresce che sia il solo a stare lì. Qualcuno deve rispondere di quello che ho patito negli anni Novanta. Ci hanno ridotti allo stremo. Ci hanno tolto il lavoro. I signori capitalisti rivoluzionari: Gajdar, il Vinni-Puch di ferro… Il rosso Chubajs… Hanno fatto esperimenti su persone vive, come cavie.
Il risentimento delle classi popolari russe nei confronti degli organizzatori e dei profittatori milionari della «rapina generalizzata» della proprietà pubblica e dei risparmi privati tra il 1992 e il 1996 è inequivocabile e sarebbe ora che i media liberal occidentali cominciassero a prendere in considerazione questo dato di fatto, cessando di sostenere la causa oligarchica e iniziando a chiamare i mafiosi con il loro nome, invece di perseverare a definirli “imprenditori democratici” e “dissidenti” anti-Putin. I media occidentali dovrebbero rivedere la propria posizione nei riguardi degli oligarchi anche alla luce delle considerazioni di un personaggio certamente non etichettabile come “filo-Putin”, ossia il citato Garry Kasparov. Perfino Kasparov, infatti, nel suo libro parla di «saccheggio legalizzato» in merito ai processi di privatizzazione attuati dalla cupola politico-affaristica ruotante attorno a Boris Eltsin a partire dal 1992 e arriva ad affermare quanto segue: «I giganti dell’energia Yukos e Sibneft furono acquistati da Mikhail Khodorkovskij e Boris Berezovskij, due dei più ricchi e influenti oligarchi, per meno del 10 per cento del loro valore reale». Il giornalista Maurizio Blondet, nel suo libro Stare con Putin?, ha sintetizzato, con efficacia, l’ascesa politico-affaristica di Khodorkovskij, con le parole che seguono:
Bastava essere amici della famiglia Eltsin (Khodorkovskij lo era) per accaparrarsi, a prezzi stracciati, dei succulenti bocconi. Lui s’era comprato la Yukos, ossia praticamente tutto il petrolio russo. Come? Con denaro anticipato dai Rotschild di Londra. Quanto? 273 milioni di dollari. Il fatto è che la Yukos, alle quotazioni di Borsa, vale 19 miliardi di dollari. Insomma Khodorkovskij ha pagato il suo tesoro privatizzato 60 volte meno del suo valore di mercato. Persino il Wall Street Journal, in un raro slancio di oggettività […] disse che era come se uno avesse comprato, in una piazzola d’autostrada, un autentico Rolex di platino per 30 dollari: è chiaro che era stato rubato, e il rischio era che il proprietario te lo chiedesse indietro, e ti mandasse pure in galera per incauto acquisto, o ricettazione. Ma così erano le privatizzazioni russe, preferite dal sistema finanziario occidentale, e finanziate dai Rotschild e dai Rockfeller.
Putin rimase infatti un “amico” degli Stati Uniti fino a quando non decise di riacquisire alla sovranità russa i cespiti del petrolio ricavati dalle risorse energetiche nazionali. Fino al 2003 infatti, il petrolio russo era nelle mani di Khodorkovskij, descritto giustamente da Blondet come «l’uomo più ricco della Russia, con un patrimonio di 15 miliardi di dollari». Khodorkovskij stava brigando per vendere la Yukos alle americane ExxonMobil e Chevron e, contemporaneamente, «s’era dato a fare la fronda a Putin appena succeduto a Eltsin; pagava i politici avversi, finanziava i giornali ostili», tra cui quelli liberali filoccidentali di Javlinskij e Nemtsov. Scrive in proposito, in Stare con Putin?, Blondet:
L’arresto di Khodorkovskij cambia tutto. Per la finanza anglo-americana, Putin cessa di essere “amico” da una data precisa: giugno 2003, quando mette sotto processo (e poi manderà in Siberia) Mikhail Khodorkovskij.
L’origine della «democrazia sovrana» in Russia è dunque da ravvisare nella politica di Vladimir Putin, iniziata nel giugno 2003, di riacquisizione allo Stato russo delle risorse sottratte al popolo dagli oligarchi à la Khodorkovskij negli anni Novanta. Da quel “fatidico” giugno 2003, i media liberali occidentali cominciarono una martellante campagna stampa diffamatoria nei confronti di Putin, improvvisamente divenuto un “dittatore” e un “assassino di dissidenti” (Litvinenko, Politkovskaja e, chi più ne ha, più ne metta). Da notare come Cristina Carpinelli affermi che «gli ideologi russi della “democrazia sovrana” sono fortemente orientati contro la teoria anglosassone della democrazia liberale centrata sui diritti e le libertà individuali e sul sistema di checks and balances dei poteri. Non condividono la tesi occidentale dell’esistenza di un unico modello di democrazia, entro cui i diritti umani prevalgono sugli interessi della società». I sostenitori della «democrazia sovrana» respingono infatti la progettualità politica e il programma economico dei liberali, ossia di quelli che, per citare Kasparov, «credono nel libero mercato e in una società aperta e filoccidentale», ossia ideologicamente egemonizzata dalle, minoritarie peraltro, nuove classi medie cosmopolite di Mosca e San Pietroburgo (i cosiddetti “agenti dominati delle classi dominanti”, per citare Jean-Claude Michéa) ed economicamente sottoposta al giogo speculativo della Global class di Wall Street e della City londinese. I fautori della «democrazia sovrana» respingono quella che il russofobico Kasparov (lasciando in tal modo intendere che la Russia “di Putin” sia un Paese tout court “incivile”, in quanto non interamente adepto all’american way of life) definisce la «partnership con il mondo civilizzato» (ossia, gli Usa e i loro alleati internazionali) e perseguono un modello nazionale e patriottico di democrazia, un modello centrato sul primato delle tradizioni della Russia storica nei confronti di qualsivoglia cedimento al liberalismo culturale espressione del colonialismo americanocentrico postmoderno. Per la maggioranza dei russi, in totale sintonia con gli enunciati delle nuove élites patriottiche in tema di sovranità nazionale, «lo Stato è garanzia di ordine e principale forza trainante di qualsiasi cambiamento. Questi sentimenti sono anche condivisi dalla Chiesa ortodossa».
La «democrazia sovrana» deve in tal modo essere intesa come una originale, particolare e forse addirittura provvisoria «via russa alla democrazia», caratterizzata non tanto dall’ostilità delle classi dirigenti russe (facenti riferimento al «partito del potere» Edinaja Rossija) nei confronti della comunque, e non del tutto a torto, criticata «democrazia liberale» occidentale, quanto dal tentativo di ritrovare, attraverso la modificazione in senso centralistico e verticistico del sistema politico russo, un minimo di stabilità interna (il cosiddetto «ripristino dell’autorità dello Stato» nei confronti dei poteri oligarchici privati, dal 1991 costituitisi come «fuori controllo» per definizione) funzionale alla futura proiezione esterna della Russia quale attore globale nel quadro complessivo delle relazioni internazionali. Interessante infatti sottolineare come il già citato Vladisalv Surkov abbia sostenuto che «i tentativi di esportare in terra russa norme e comportamenti di altri Paesi equivalgono a pressioni indebite». L’accento posto da Surkov sulla necessità, da parte della “verticale del potere” costruita attorno ai progetti di «democrazia sovrana», di scongiurare il rischio di ingerenze esterne, occidentali, negli affari interni della Federazione russa, è giustificato dai fatti relativi alle vicende storiche culminanti nello smantellamento dell’Urss, nel 1991. Infatti, benché il comunismo storico novecentesco fosse in definitiva crollato per ragioni endogene, il ruolo esercitato dall’Occidente per favorire la disgregazione dell’Urss fu innegabile, tanto da essere menzionato persino da Garry Kasparov, uno dei più infervorati sostenitori delle politiche statunitensi di regime change nei Paesi da ricondurre nell’orbita di Washington. Nel suo libro, L’inverno sta arrivando, Kasparov scrive infatti:
L’impero sovietico non era crollato certo grazie a un atteggiamento compiacente dell’Occidente bensì con una coerente lotta di principio in difesa dei valori liberaldemocratici. Accondiscendere alle richieste degli anziani leader sovietici non aveva mai prodotto risultati positivi; la vera svolta fu data dalle tante iniziative per raggiungere il popolo russo, ad esempio tramite Radio Free Europe/Radio Liberty e Voice of America […].
In effetti, in un certo qual senso, uno tra i principali ideologi del modello di «democrazia sovrana», il giornalista Vitalij Tret’jakov, redattore della rivista Politiceskij klass, presenta tale postulato ideologico-programmatico come funzionale alla realizzazione, in Russia, di un sistema di governo centrato sull’efficientismo e la modernizzazione del Paese, laddove elementi di apertura al mercato e dirigismo statale vadano affiancandosi e combinandosi, e dove l’élite dirigente non si lasci «guidare dalle proprie predilezioni ideologiche […] bensì dagli interessi nazionali del proprio Paese», ignorando e contrastando ogni tentativo di ingerenza esterna negli affari interni della Federazione russa. Tret’jakov individua nel «rafforzamento dell’istituto della proprietà privata» e nell’«avvio dell’economia russa su di un cammino di sviluppo innovativo, legato anzitutto alla creazione di un’ampia rete di industrie ad alto contenuto scientifico e tecnologico», priorità essenziali per il nominato processo di modernizzazione dello Stato, promosso dal sistema di «democrazia sovrana».
Stato promotore di innovazione
Allo stesso tempo, Tret’jakov pone in risalto l’ineluttabilità del ruolo che lo Stato deve esercitare quale coordinatore principale degli orientamenti generali di politica economica, anche in virtù delle passate esperienze e tradizioni nazionali. Tret’jakov afferma infatti che «tenuto conto delle tradizioni socialiste dominanti nella coscienza e nel comportamento di una parte considerevole della popolazione [russa], [occorre il] mantenimento del paternalismo statale nei rapporti reciproci tra potere e società». Il politologo conclude sostenendo che «sia […] nella sfera politica come in quella economica lo Stato è considerato il principale promotore ed artefice di riforme e innovazioni».
Lo stesso Vladimir Putin ebbe a dichiarare in proposito: «La Russia non diventerà la seconda edizione degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, dove i valori liberali hanno profonde tradizioni storiche. Il nostro Stato e le sue istituzioni e strutture hanno sempre giocato un ruolo eccezionalmente importante nella vita del Paese e delle persone. Per i russi lo Stato forte non è un’anomalia di cui liberarsi. Al contrario, è una fonte di ordine e la principale forza che orienta qualsiasi cambiamento […]. I sentimenti paternalistici hanno profonde radici nella società russa […]. Per questo non possono essere ignorati. Devono essere presi in considerazione nella politica sociale. Devono rimanere in primo piano». La formula della «democrazia sovrana» è fortemente emancipatrice in quanto, come scrive (sulla rivista Limes) Adriano Roccucci, tesa a divincolare la Russia «dalla soggezione ai modelli di cultura politica che si erano affermati come dominanti con il crollo del potere sovietico», ossia il liberalismo e la democrazia cosiddetta occidentale. La «democrazia sovrana» segnò pertanto la fine della dipendenza del sistema politico russo dalle pressioni e dalle ingerenze culturali provenienti dal mondo anglosassone. Quello della «democrazia sovrana» è stato altresì presentato come un sistema di governo e di potere all’interno del quale, nell’ambito di Russia Unita, convivono correnti politiche appartenenti a campi apparentemente difformi, ossia gli oligarchi fedeli al governo (Potanin, Aven, Friedman, Abramovic e qualche altro), i siloviki (o “putiniani rossi”), esponenti provenienti dagli apparati di sicurezza, in particolar modo dal dipartimento del Fsb (ex Kgb) di San Pietroburgo e i civiliki («liberali-modernizzatori» contigui a Dmitrij Medvedev), giuristi ed economisti di formazione «riformatrice», rappresentanti l’ala cosiddetta «moderata e pro-Occidentale» del complesso di equilibri e bilanciamento di interessi politici ed economici interni. Non è errato, sulla scorta di quanto scrive Carmen Scocozza nel libro Un’identità difficile. Occidentalisti e slavofili russi tra passato e presente, definire i civiliki, e anche una parte dell’entourage dell’amministrazione presidenziale e della classe dirigente più contigua a Putin, come «dei necentimentalneye patrioty – dei patrioti non sentimentali – dal momento che, riconoscendo all’Occidente il merito di essere il più promettente modello di sviluppo politico ed economico, non esitano ad indicarlo come la meta da raggiungere nell’interesse stesso del Paese». In questo contesto vanno anche annoverate le esternazioni, diffuse ad arte ai fini di catalizzare i sentimenti dell’opinione pubblica russa a favore dell’adesione ai modelli culturali tipici dell’Occidente individualista e consumista, di alcuni esponenti «liberali» della classe dirigente russa, in particolare Dmitrij Medvedev, tese a valorizzare determinati aspetti dell’american way of life (es. la predilezione sbandierata dall’ex presidente russo per la musica pop-commerciale statunitense, il suo essere titolare e frequentatore di blog e social network, ecc.). Tali dichiarazioni contrastano nettamente con quelle di Vladimir Putin, poco o nulla aduso alle nuove tecnologie e lontano dai modi e dai caricaturali stili di vita, giovanilistici e yuppies, tipici di esponenti di rilievo della nomenklatura, politica ed oligarchica, russa. L’interpretazione liberale, ossia manicomiale, della figura politica di Vladimir Putin, tende infatti a ridurre il presidente russo a una sorta di troglodita incapace di confrontarsi e, soprattutto, di adattarsi alle “normali” abitudini dettate dai codici comportamentali caratteristici della società postmoderna. Secondo i media liberali di sinistra, infatti, Putin sarebbe un «nazionalista» restio all’integrazione cosmopolitica nel novero di una società tecno-mercantile caratterizzata dal primato del World Wide Web come vettore di «liberazione» ed «emancipazione» individuale dai precedenti vincoli «statalistici», «burocratici» e «gerarchici» propri dei «regimi novecenteschi». Putin, secondo la nominata vulgata interpretativa manicomiale e demonizzante la sua figura politica, sarebbe “un pazzo” poiché politicamente e a livello di attitudini individuali non compatibile con la forma mentis cosmopolitica della nuova classe media occidentalizzante di Mosca e San Pietroburgo, esattamente come, secondo il quotidiano il manifesto, l’ex presidente della Republika Srpska, Radovan Karadzic, sarebbe “impazzito” in quanto avrebbe sprigionato «la sindrome del ragazzo di campagna che, arrivato in città, sviluppa un risentimento patologico nei confronti della “gradska raja” di Sarajevo, dell’élite culturale urbana che non lo aveva sufficientemente apprezzato». In questo senso, è lampante la serie di sconcertanti equazioni, tendenziose e viziate da profonda e atavica corruzione ideologica, proposte dalla stampa liberal e radical-chic: “new global middle class uguale normalità”, “liberalismo culturale/cosmopolitismo uguale normalità”, “società liquida uguale benessere e progresso”, “patriottismo/abitudini tradizionali uguale disadattamento sociale”. Per la pubblicistica di sinistra, russofobica, femminista e politicamente corretta, dunque, sentimenti e abitudini psico-politiche come l’istintivo patriottismo o il conservatorismo delle classi popolari e dei ceti urbani “borghesi tradizionali” sarebbero da delegittimare, tout court, come “pericolose” tendenze all’autoritarismo, al maschilismo, al particolarismo localistico e, ovviamente… al fascismo (l’eterno nemico di una sinistra impossibilitata a emancipare il proprio discorso politico dalla categoria dell’“antifascismo” pena la sua inevitabile estinzione quale parte politica ormai riconoscibile unicamente in base alla propria stanca e folkloristica riproposizione come “baluardo democratico” e “antifascista” contro qualsivoglia “autoritarismo conservatore” e “di destra”). Nel 2014, il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, definì infatti, in paradossale ma perfetta consonanza con gli ideologi e gli strateghi del Dipartimento di Stato Usa, Vladimir Putin «sostanzialmente un fascista». In realtà, come scrive Charles Robin ne La sinistra del capitale e dell’alta finanza, «un comportamento individuale che non obbedisca rigidamente alle leggi meccaniche della razionalità e dell’interesse privato – ad esempio un comportamento dettato da un certo senso dell’onore, del sacrificio, della generosità o della virtù – apparirà inevitabilmente, nell’ottica liberale, nella migliore delle ipotesi, come strano, “eccentrico” (in senso etimologico, ossia “al di fuori del centro, della norma”), nella peggiore, come contrario alle leggi umane, dunque irrazionale, deviante e, infine, indesiderabile». In altre parole, Putin e coloro i quali la pensano come lui sarebbero dei “disadattati”, ma tutto ciò è l’esatto opposto della realtà storica e della corretta interpretazione delle contemporanee dinamiche di riproduzione psico-sociale perché, come spiega Robin, «a livello psichico, l’espansione del liberalismo coincide con l’emergere di psicopatologie, come la depressione». A livello politico, invece, l’espansione del liberalismo coincide con la frenetica convergenza “al centro” (campo politico per eccellenza della “moderazione”, ossia della “normalità borghese”) delle forze politiche impegnate nel tentativo di seduzione pubblicitaria dell’“elettore medio”, timorato dallo scivolamento del quadro interno in direzione dei cosiddetti “opposti estremismi” e nella relativa criminalizzazione di qualsivoglia ipotesi radicalmente alternativa, di volta in volta demonizzata come “populista”, “nazionalista”, “comunista”, ecc. In realtà, il patriottismo di Russia Unita è marcatamente antisciovinistico e si fonda sulla sacralizzazione politica e ideologica del “9 maggio”, il Giorno della Vittoria (Den Pobedy) dell’Unione Sovietica nei confronti dell’invasore nazista. In Russia, ogni tentativo revisionistico in chiave politica o storiografica è severamente osteggiato non soltanto dalle élites dirigenti ma dalla stragrande maggioranza della popolazione e soltanto i liberali più accaniti, perlopiù russofobici benché di nascita e cittadinanza russe, propongono talvolta strampalate iniziative propagandistiche volte a gettare discredito sull’eroismo e sul sacrificio di 22 milioni di sovietici durante gli anni della Grande Guerra Patriottica. Il 15 maggio del 2009, un decreto dell’allora presidente federale Dmitrij Medvedev istituì una “Commissione presidenziale per contrastare i tentativi di falsificare la storia a danno degli interessi nazionali russi”. La Commissione era guidata dall’allora capo dell’amministrazione presidenziale, Sergej Naryshkin, e composta, tra gli altri, dagli storici Andrej Artizov, Aleksandr Chubaryan, Andrej Sakharov, Natalia Narochnitskaya e Nikolaj Svanidze, dal generale dell’Esercito Nikolaj Makarov, dal generale del Fsb Vassilj Khristoforov, dal dirigente del Svr (controspionaggio) V. Zimakov e dagli ideologi di Russia Unita Sergej Markov, Ivan Demidov e Konstantin Zatulin. La Commissione fu istituita, secondo le parole del ministro della Difesa, Sergej Shoigu, al fine di «proteggere la nostra storia, e le gesta dei nostri padri e nonni nella Grande Guerra Patriottica» da ogni tentativo di «riabilitazione del nazismo». Da notare come in Russia, in perfetta consonanza con le dichiarazioni in merito dei nazionalisti baltici, in special modo lettoni ed estoni, il lavoro della Commissione fosse osteggiato dai politici e dai media di orientamento neoliberale, come Vladimir Ryzhkov del Partito repubblicano russo, Lev Ponomaryov, Yulija Latynina e il quotidiano economico (filoccidentale) Vedomosti. Il “culto della Vittoria”, fondamento ideologico del patriottismo e dell’idea stessa di «democrazia sovrana» è infatti avversato dai fautori “russi” del cosmopolitismo e del “mercato libero e senza frontiere”, tanto è vero che il citato quotidiano Vedomosti, testata prediletta della nuova classe media privata moscovita, ha sprezzantemente, e in maniera del tutto fuorviante e antistorica, sostenuto che il lavoro della Commissione mirasse «a istituire un “culto della vittoria” simile alle religioni civili sui cui sono stati istituiti, nel XX secolo, gli Stati autoritari e totalitari». Come si vede dalle opinioni espresse da Vedomosti, la russofobia è anche un vizio dello spirito di alcuni russi, in particolare di quelli di orientamento culturale e politico liberale e “modernista” e non soltanto un’aberrazione propagandistica, a sfondo razzista, tipica della borghesia anglofila di Stati Uniti e Paesi della sedicente Unione europea. La russofobia delle classi dirigenti di estrazione anglofila era già stata perfettamente compresa dallo zar Nicola I (1825-1855) ai tempi della guerra di Crimea. Codesto imperatore infatti era conscio delle «paure degli occidentali nei confronti della Russia» (O. Figes, Crimea. L’ultima crociata, Einaudi, Torino, 2015, p. 43) e sapeva perfettamente che «l’ondata di russofobia che travolse buona parte dell’Europa» (Ivi) sin dagli albori del suo regno (in particolare dopo il Trattato di Adrianopoli con i Turchi, che «non fece che aumentare ulteriormente la russofobia» [Ivi] degli occidentali) trovava negli “occidentalisti” interni una sostanziale Quinta Colonna. Gli “occidentalisti” infatti, molto influenti nella «società illuminata» russa, ossia tra i settori cosmopoliti dell’aristocrazia e della borghesia autoctone, sin dall’inizio del XIX secolo «caldeggiano l’apertura delle frontiere al pensiero e ai costumi del resto dell’Europa» (H. Troyat, Lo zar che distrusse la Russia, Piemme, Casale Monferrato, 2003, p. 173). Di fronte ai pericoli provenienti dall’esterno (espansionismo della talassocrazia russofobica britannica) e all’emergere di una sostanziale Quinta Colonna interna, Nicola I caratterizzò il proprio regno come «dominato dalla convinzione assoluta della sua missione divina di salvare l’Europa ortodossa dalle eresie occidentali del liberalismo, del razionalismo e della rivoluzione» (O. Figes, Crimea. L’ultima crociata, op. cit., p. 39).
Lo stesso Vladimir Putin, che tra il 1975 e il 1991 servì nel controspionaggio del Kgb e fu iscritto al Partito comunista dell’Unione Sovietica, non ha mai nascosto di provare, a livello emotivo, ancora oggi, a 25 anni dallo smantellamento dell’Urss, simpatia per le idee politiche socialiste e comuniste. Tuttavia, sentimenti individuali e progettualità politiche collettive non sempre possono coincidere e oggi, per molte ragioni, il programma di Russia Unita è ispirato a un patriottismo di ascendenza conservatrice che rende questo partito, il “partito del potere” e della “democrazia sovrana”, di fatto assimilabile, a livello di riferimenti ideologici, alle componenti più conservatrici della Democrazia cristiana negli anni Cinquanta del XX secolo e, a livello di finalità programmatiche in tema di politica interna, a un partito «conservatore di destra» (come lo stesso Vladislav Surkov ebbe a definire, nel 2007, Russia Unita) quale poteva essere, in Italia, negli anni Sessanta, il Msi “micheliniano” o, più recentemente, in Francia, il Mouvement pour la France di Philippe de Villiers. In politica sociale, il conservatorismo di Russia Unita è, in qualche modo, equiparabile all’originario giustizialismo peronista. Esemplificativi della tendenza politica di Russia Unita sono le dichiarazioni del vicepremier russo, Dmitrij Rogozin, a sostegno del “Partito Radicale Serbo dr. Vojislav Seselj” alle elezioni serbe del 24 aprile 2016 e i ripetuti incontri istituzionali, a Mosca, tra lo speaker della Duma, Sergej Naryshkin e la leader del Front National, Marine Le Pen. Bene dunque fa il giornalista e politologo Gennaro Malgieri quando sottolinea l’evoluzione del personaggio politico Vladimir Putin «dal comunismo al patriottismo». Un patriottismo inscindibilmente connesso alla memoria storica dei russi come popolo vincitore delle armate hitleriane nella Seconda Guerra Mondiale (sacralizzazione politica del “9 maggio”, il Giorno della Vittoria) e non esente da sempre meno occasionali richiami alla tradizione cristiano-ortodossa della Russia storica. Due esempi, in merito, sono emblematici per comprendere la matrice profondamente tradizionale, legata alla memoria storica del Paese, del patriottismo di Putin. Da un lato, nel dicembre 2000, il nuovo presidente russo ordina il ripristino dell’inno sovietico quale inno nazionale russo e, al contempo, restituisce la bandiera rossa, la Bandiera della Vittoria, innalzata dai soldati sovietici sulle rovine del Reichstag il 9 maggio 1945, alle Forze armate federali, con queste motivazioni: «La bandiera rossa è stata innalzata vittoriosa a Berlino. Se accettiamo di non poter usare i simboli di epoche precedenti, inclusa quella sovietica, allora vuol dire che i nostri padri e le nostre madri sono vissuti inutilmente, che la loro esistenza è stata priva di senso o sono vissuti invano». Dall’altro lato, Putin fece ricostruire, il 19 agosto 2000, la famosa cattedrale moscovita del Cristo Salvatore, precedentemente distrutta da Stalin. Putin rivendica con orgoglio il passato sovietico dell’Urss vittoriosa sul nazismo e, al contempo, fa innalzare, all’Accademia navale di San Pietroburgo, una statua all’ammiraglio Kolcak, comandante delle truppe “bianche” durante la guerra civile del 1918-1920. Le coordinate ideali della «democrazia sovrana» sono infatti proprio queste: riconciliazione di “bianchi” e “rossi” in nome della ritrovata dignità e del ricostituito orgoglio di un popolo inteso nella propria accezione di cittadinanza nazionale e non etnica o sciovinistica. Putin infatti, rivolgendosi ai suoi compatrioti, utilizza il termine rossianin (cittadini della Federazione russa, a prescindere dall’appartenenza etnica) e non russki (russi etnici). Naturalmente, la leadership di Russia Unita è perfettamente a conoscenza del fatto che il modello di «democrazia sovrana» da essa propugnata può concretamente inverarsi soltanto respingendo ogni compromesso con l’atlantismo e il cosmopolitismo delle classi medie occidentalizzanti interne.
Siloviki slavofili
La promozione dei siloviki al rango di classe dirigente a livello politico viene considerata, dal giornalista Stefano Grazioli nel libro Gazprom, il nuovo impero, «il mezzo più sicuro per tenere saldamente le redini e riportare ordine dopo l’anarchia eltsiniana: una questione pratica, non tanto una missione ideologica». Le stesse divergenze di fondo tra le diverse componenti interne a Russia Unita vengono sostanzialmente (e momentaneamente) ad appianarsi nel nome della fedeltà politica al presidente Putin. Stefano Grazioli ha infatti scritto, a riguardo: «Le differenze [dei siloviki] con l’ala moderata, quella dei liberali e tecnocrati, consistono più che altro (oltre che nella provenienza geografica) nell’impostazione di fondo, che ricalca la storica divisione tra slavofili e occidentalisti: Medvedev e i pietroburghesi, o affini […] possono essere meno ingessati dal punto di vista ideologico – meno nazionalismo, più apertura – ma non differiscono dai loro colleghi conservatori per quello che concerne la fedeltà a Putin. Oggi, oligarchi, siloviki e liberali, non esistono quasi più: al Cremlino adesso dominano i silogarchi, che costituiscono l’architrave su cui si regge il sistema Putin-Medvedev e rappresentano le diverse facce di una stessa medaglia. Il comune denominatore è proprio la lealtà al presidente e al primo ministro; al contrario, più che dalle posizioni politiche, sono distinti in base ai legami, diretti e indiretti, con i vari settori dell’economia, dell’industria, della finanza o dell’amministrazione […]». Tuttavia, l’essenza del programma politico di «democrazia sovrana», ossia la riappropriazione, da parte dello Stato russo, dei cespiti strategici della produzione energetica, rischia oggi di essere posta in discussione proprio dalle velleità «riformatrici» della componente liberale della classe dirigente facente riferimento al “partito del potere” nonché dalle condizioni di crisi economica in cui versa la Russia a partire dal 2014, in seguito al varo delle sanzioni euro-atlantiche nei suoi riguardi a seguito della deflagrazione della “questione ucraina” (golpe di piazza Maidan). Nel 2015 infatti, il Pil russo si è contratto del 3,7 per cento e, a seguito delle manovre speculative dei sauditi, il prezzo del greggio, principale fonte di sostentamento per un’economia, come quella russa, ancora fondamentalmente dipendente dall’esportazione di materie prime, crollò addirittura a 25 dollari al barile (dicembre 2015). Tale situazione ha contribuito al ritorno in auge delle politiche di privatizzazione. Infatti, il ministro dell’Economia della Federazione russa, Aleksej Uljukaev, un liberale di Russia Unita, ha affermato, nel febbraio 2016, che «in Russia non è più possibile rinviare le privatizzazioni» per impinguare la casse del budget federale. Venendo incontro alle pressioni dei liberali e conscio della criticità della situazione economica interna, Putin, come scrive Antonella Scott su Il Sole 24 Ore, «ha dato incarico al governo di preparare una lista di compagnie da candidare alla privatizzazione». Tra i «gioielli di Stato» passibili di essere privatizzati, scrive sempre Antonella Scott, «potrebbero […] entrare i nomi di Aeroflot, di Rosneft con una possibile quota del 19,5 per cento, Transneft (il monopolio degli oleodotti), Sovkomflot, Rostelekom e Alrosa, il gigante russo dei diamanti. Veri gioielli di Stato: e se il budget preparato per il 2016 contava sulle privatizzazioni per introiti pari a 33,2 miliardi di rubli, più di recente il ministro delle Finanze, Anton Siluanov, ha detto che l’obiettivo adesso è raccogliere in due anni fino a un trilione di rubli: al cambio di oggi dell’euro, 11,7 miliardi di euro».
Si tratta di un vero e proprio piano di ridefinizione complessiva degli assetti strategici nazionali, tant’è vero che Putin, perfettamente conscio del rischio che il sistema di «democrazia sovrana» verrebbe a correre a seguito di un sostanziale ritorno agli anni Novanta, si è affrettato, come riporta Il Sole 24 Ore, a esprimere le proprie preoccupazioni affinché «sia garantita la “trasparenza incondizionata” delle transazioni e che i prezzi non siano stracciati». Secondo Putin, infatti, è fondamentale che «il pacchetto di controllo delle compagnie strategiche e di quelle di importanza sistemica resti nelle mani del governo». Eventuali nuovi proprietari, ha affermato Putin, «devono rientrare nella giurisdizione russa», al fine di combattere l’offshore ed evitare conseguenze negative «per lo sviluppo dei distinti settori e dell’intera economia». Il sotterraneo confronto politico, nell’ambito della classe dirigente russa, tra i patrioti (siloviki) sostenitori di una democrazia sovrana centrata sulla strutturazione di un efficiente sistema nazional-capitalistico e i «riformatori» (civiliki) fautori di una democrazia liberale fondata sull’internazionalizzazione del capitalismo russo pare essere del tutto aperto e la «democrazia guidata» patrocinata da Putin risulterà essere al riparo da potenziali esiti “liberalizzanti” soltanto preservando il protagonismo statale in politica economica e il protagonismo del patriottismo come «idea nazionale russa» in politica socio-culturale interna, nonché nell’ambito delle relazioni internazionali.
Paolo Borgognone, autore, per la casa editrice Zambon, di vari libri tra cui Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche (2015) e L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale (20