STAI LONTANO DALLA GIUSTIZIA!

di Roberto PECCHIOLI

La nonna materna di chi scrive queste note era nata verso la fine dell’Ottocento. Piccolissima, aveva fatto in tempo a vivere l’ultima epidemia di colera. Aveva frequentato la seconda elementare e parlava solo il dialetto. Di lei ricordiamo i grossi occhiali che utilizzavano allora gli affetti da cataratta, una certa taccagneria figlia della povertà vissuta nell’infanzia e alcune frasi lapidarie, vere e proprie sentenze per orientare la vita del nipote prediletto. Una, che ripeteva spesso, era “stai lontano dalla giustizia! “.

La sentiamo ancora risuonare nelle orecchie, pronunciata con enfasi, gravità, l’indice ammonitore. Nonna Luigia aveva ragione da vendere. La sua non era solo l’esortazione a vivere nell’onestà, ma era anche la sfiducia delle persone semplici per i meccanismi, il linguaggio e gli uomini della legge, così incomprensibili, estranei alla mentalità di chi si guadagna la vita con il sudore della fronte.

La paura della “giustizia”, intesa come apparato incombente e sostanzialmente nemico, macchina impersonale da cui guardarsi con tutte le forze, ci accompagna sin dall’adolescenza, ed è diventata distanza sospettosa, talora vero e proprio terrore. I fatti delle ultime settimane, con la pubblicazione di impressionanti intercettazioni di dialoghi e messaggi di magistrati – gli operatori della giustizia, i custodi della legge, coloro che accusano, giudicano ed esercitano un potere immenso e praticamente incontrollato – hanno rafforzato la convinzione che le idee della nonna, donna semplice che allevò figli e nipoti e tenne per quarant’anni un esercizio commerciale, fossero un distillato di saggezza popolare.

Confessiamo: la paura di essere travolti, stritolati dagli ingranaggi giudiziari ci ha sempre accompagnato. Per professione, ci è toccato frequentare quegli ambienti senza mai liberarci da una paura sottile: paura di dire ma anche di tacere, difficoltà di tenere il “giusto” comportamento. Redigere rapporti penali a carico di qualcuno – per quanto si trattasse spesso di soggetti ben meritevoli del tribunale – ci è sempre costata fatica e le numerose volte in cui ci siamo seduti sul banco dei testimoni ci siamo sentiti in un letto di Procuste. La sindrome del colpevole, anche un po’ ridicola, nonostante il nostro ruolo fosse quello di chi applicava le leggi dello Stato.

Stai lontano dalla giustizia, ingiungeva la nonna, ma il nipote non poteva, per dovere d’ufficio. Nel tempo, ci siamo persuasi della verità di un’affermazione di Thomas Hobbes: è il potere, non la verità, che crea le leggi.  Più prosaicamente, l’umoristica, ma ferrea legge di Murphy, ha dimostrato che presso ogni categoria o gruppo umano la percentuale di malvagi e di onesti, di galantuomini e mascalzoni, è pressoché uguale, a nulla rilevando la funzione o la cultura.

Inutile, dunque, pretendere o sperare che chi amministra giustizia sia un santo o un essere superiore. Il procuratore antimafia calabrese Nicola Gratteri – un uomo che vive blindato, praticamente senza una vita privata – avrebbe affermato che la corruzione, nella sua categoria, raggiunge il 5-6 per cento del totale. Se fosse vero, si tratterebbe di almeno 500 corrotti che indagano, giudicano, accusano, hanno tra le mani la libertà personale, l’onore e gli interessi dei loro concittadini.

Speriamo abbia torto, ma ciò che sgomenta – e gli elementi trapelati nelle intercettazioni ne sono una prova sconcertante – è un costume, un modus operandi che lascia senza parole. La frase che sentiamo tanto spesso ripetere dai tanti che entrano nel cono d’ombra delle indagini – colpevoli o innocenti- “ho fiducia nella magistratura”, è una sorta di litania obbligata, una premessa in cui l’espressione e il tono di chi la pronuncia smentisce le parole. Sapevamo da tempo – le intercettazioni telefoniche escono secondo interesse e tornaconto di qualcuno – che la principale funzione del CSM, Consiglio Superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dell’ordine giudiziario, è amministrare le carriere e gli incarichi dei colleghi, la più potente casta italiana secondo convenienza politica, appartenenza a correnti e partiti interni, difendendo gli amici e gli affini, amministrando i rapporti con la politica e colpendo i non allineati.

Nonostante la paura ereditata dalla nonna, osiamo affermarlo in quanto ammesso dallo stesso presidente della Repubblica, nelle occasioni – rare – in cui non ha potuto fare a meno di intervenire sulle vicende del CSM, definito da moltissimi “un verminaio”. Conosciamo il giudizio lapidario di un politico di lungo corso e di spregiudicati maneggi, Giovanni Giolitti: la legge per gli amici si interpreta e per i nemici si applica. Abbiamo assistito all’attacco ventennale contro un personaggio tutt’altro che limpido come Silvio Berlusconi, accusato praticamente di tutto.

Ci è noto l’impegno di tanti avvocati a difendere “dal “processo e non nel processo i loro assistiti. Tutti sanno che i magistrati sono inquadrati secondo orientamento ideologico, che le correnti esercitano un potere immenso e le elezioni del CSM avvengono con campagne di tipo ideologico-politico. Non immaginavamo operazioni perfettamente orchestrate, alla luce del sole, attraverso gruppi di sodali che agiscono di concerto, avvalendosi di giornalisti amici, in alleanza organica con pezzi di sistema politico, per orientare l’azione penale, attaccare, screditare sino ad abbattere, esponenti politici e partiti sgraditi.

Il caso di Matteo Salvini è esemplare: un perfetto lavoro di squadra tra politica, correnti dell’ordine giudiziario e pezzi del CSM ha voluto, commissionato, l’indagine a carico dell’ex Ministro degli Interni per il caso delle navi di immigrati clandestini bloccate. Salvini ha ragione, ammettono nelle loro chat interne (il cui linguaggio imbarazza la dignità della funzione), ma deve essere attaccato. Qualcuno scrive che bisogna stare dalla parte dei “migranti”. Perché? Secondo Costituzione, il feticcio, il totem a cui si avvinghiano, come certi figuri al patriottismo di paccottiglia, il magistrato è soggetto esclusivamente alla legge. Non può discriminare, non può fare il tifo, scegliere un amico o un avversario. Deve applicare le norme scritte nei codici.

Non sappiamo se Salvini sia un pericoloso rapitore, ma sappiamo che ha diritto a un giudizio in cui le sue idee, quelle dei suoi accusatori e dei giudici, non contano. Importano i fatti, ovvero se ha commesso i reati ipotizzati, da solo o eventualmente con la complicità di altri, a partire del primo ministro. Quando la politica, l’ideologia, entrano dalla porta, la giustizia fugge precipitosamente dalla finestra. Non osiamo immaginare che cosa possa accadere (“possa”, non diciamo che sia così…) nelle ovattate stanze del processo civile, in cui sono in ballo interessi economici concreti, se il metodo è lo stesso.

Intanto, la nostra libertà, la nostra protezione dal crimine, sono affidati a signori e signore la cui preoccupazione principale è la carriera, il conseguimento di certe posizioni e l’occupazione di certe sedi, e per questo costituiscono “cordate”, gruppi d’ influenza e potere interno collegati con la politica, ordiscono, se non complotti, reti di contatti, influenze e amicizie che rendono assai arduo l’esercizio sereno e imparziale della funzione giudiziaria. Del resto, che attendersi, in un paese marcio sino al midollo a ogni livello? I gilet arancioni vengono denunciati per leso distanziamento sociale, ma i manifestanti del 25 aprile no, mentre i detenuti che misero a ferro a fuoco le carceri la faranno franca. Stai lontano dalla giustizia…

Abbiamo abbandonato la speranza, il che, paradossalmente, assicura una certa serenità; scriveva Emil Cioran, il gran pessimista romeno, che “la giustizia è un’impossibilità materiale, un grandioso nonsenso, l’unico ideale di cui si possa affermare con certezza che non si realizzerà mai, e contro il quale la natura e la società sembrano aver mobilitato tutte le loro leggi.”

Dunque, non c’è un giudice a Berlino, come sperava l’umile mugnaio tedesco in lotta con l’imperatore e il giusto non è altro che l’utile del più potente, come argomentava Trasimaco nella Repubblica di Platone? No, per fortuna un gran numero di persone manda avanti la baracca e svolge la sua funzione con diligenza. Non abbiamo bisogno di eroi neppure in toga – qualcuno c’è stato e c’è- ma di un sistema che riconosca ciò che tutti hanno studiato in gioventù, ad esempio il brocardo di Ulpiano, giurista romano: giustizia è la volontà costante e perenne di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto.  Siamo davvero lontani.

I tempi dei processi si dilatano, per la disperazione degli innocenti e il vantaggio dei farabutti e degli azzeccagarbugli. La volontà di colpire si fa legge con l’estensione dell’istituto della prescrizione. Compito del diritto, è una tautologia- è fare giustizia. I tempi lunghi sono il contrario della giustizia. La presunzione di innocenza, grande conquista del pensiero giuridico, è rovesciata, offesa dall’uso spregiudicato di microspie e trojan , gli apparecchi che hanno inguaiato il magistrato Palamara e la sua “banda”. E’ il termine usato da una delle partecipanti alle cene eleganti dei togati per indicare il gruppo di amiconi riuniti – giudicanti, inquirenti, imprenditori vicini al partito Stato, il PD. Sconcertante è che, nonostante almeno un quarto di secolo di dibattiti, non si riesca almeno a dividere le carriere dell’ordine giudiziario. Lo strapotere della magistratura inquirente è evidente nelle figure più note dei membri del sindacato, dei componenti del CSM, delle vere e proprie star dei processi spettacolo.

Un esponente di spicco della categoria è Pier Camillo Davigo, etichettato come uomo di destra, mente giuridica del vecchio pool milanese di Mani Pulite, un autentico Robespierre per il quale non vi sono innocenti, ma solo soggetti sfuggiti alla condanna. Corre un brivido lungo la schiena all’idea di essere accusati da mentalità siffatte. Il pubblico accusatore è parte in causa. Il suo compito è assai simile a quello del poliziotto; dispone, a norma dell’art. 109 della Costituzione, “direttamente”, della polizia giudiziaria. Non può far parte della stessa categoria, essere collega del magistrato giudicante. Diverse attitudini, distinte sensibilità. Sono necessari percorsi culturali e persino indoli differenti. Secondo Platone il giudice dovrebbe essere persona di età matura, “uno che ha appreso tardi che cos’è l’ingiustizia, senza averla sentita come personale e insita nella sua anima; ma per averla studiata, come una qualità altrui, nelle anime altrui”.

Al contrario, i concorsi sono unici e nel corso della carriera la funzione inquirente e quella giudicante può essere scambiata fino a quattro volte. Non osiamo immaginare il sistema dei concorsi. Sappiamo qualcosa dei concorsi per dirigenti in alcuni ministeri; non possiamo scrivere ciò che corre di bocca in bocca, ma ricorsi, blocchi, annullamenti e pesanti sospetti di pastette sono all’ordine del giorno, con gravi danni per l’operatività e pregiudizio dei candidati armati solo delle loro capacità. Vogliamo sperare che la magistratura, come la moglie di Cesare, sia al di sopra di ogni sospetto e maldicenza. L’Italia è quello che è, ma, come sapeva Otto von Bismarck, con cattive leggi e buoni funzionari si può pur sempre governare. Con cattivi funzionari, neanche le buone leggi servono a qualcosa. Diventa un comodo alibi sostenere che “bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”, ed è la sentenza di un grande legislatore illuminista, Cesare Beccaria.

D’altronde, individuare lo spirito della legge, nell’alluvione di testi, norme, interpretazioni e novelle, tipiche dell’universo giuridico italiano, è impresa titanica. Summum ius, summa iniuria, troppe leggi, massima ingiustizia; Cicerone lo scrisse venti secoli fa. Occorre, per Seneca, che le leggi siano brevi, in modo che anche l’inesperto possa comprenderla facilmente. No, meglio testi logorroici, pletore di “esperti”, di periti di sofismi, cavilli, virgole e interpretazioni; meglio districarsi tra sentenze, pareri e soprattutto cerchie di amici fidati della stessa corrente, gli stessi che garantiranno un trasferimento, una poltrona prestigiosa e una difesa efficace (giudici di se stessi…) dinanzi a eventuali errori o abusi.

Votammo per la responsabilità civile dei giudici, ma non se ne fece nulla. Vuolsi così dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. In compenso, l’ultimo impiegato d’ordine della Pubblica Amministrazione lotta ogni giorno – se lavora – con la responsabilità amministrativa, civile e penale. Ecco la differenza tra una categoria e una casta. Chiunque conosca addetti ai lavori apprende in privato di fatti e comportamenti da brividi nei corridoi giudiziari. Inquirenti e giudici non possono non avere le loro idee, ma l’indipendenza ha bisogno di gesti, di equilibrio, di una sobrietà e riservatezza che troppi non conoscono e che proprio la natura, i toni, il linguaggio spesso scurrile delle intercettazioni pubblicate negano.

Non cambierà nulla: non è pessimismo, ma conoscenza della storia. Qualche presa di posizione, anche ai massimi livelli, parole fintamente indignate, dita alzate nella riprovazione, e tutto prosegue come prima. Le tempeste arrivano e passano, anche le rivoluzioni falliscono. Lo scoprì quasi due secoli or sono Tocqueville, osservando come neppure i giacobini erano riusciti a mutare nel profondo l’alta amministrazione francese. Figuriamoci in Italia, il paese dove tutto cambia perché niente cambi e dove la maschera più nota è Arlecchino, il servitore di due padroni.

Di rinvio in rinvio, il sistema digerisce gli oppositori: I più vengono comprati o cooptati, alcuni vengono distrutti (colpirne uno per educarne cento, Mao Tze Tung). La maggioranza, come sempre, si accuccia al tavolo del principe. Quando si tratta di giustizia, la rabbia è più grande, ma non esiste via d’uscita. Quando un corpo della nazione è in preda alle metastasi, a nulla serve qualche finta riforma di facciata. Caro connazionale, se puoi, tieniti lontano dalla giustizia e prendi sul serio i libri per fanciulli, come Le avventure di Pinocchio. Quando il Giudice consegna il povero burattino ai gendarmi, ordina: “quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.”