di Roberto PECCHIOLI
L’intera nostra vita ci è testimone che non abbiamo mai provato eccessiva simpatia per Matteo Salvini e il suo partito. Innanzitutto c’è una distanza estetica: il fastidio per il populismo sudaticcio delle felpe, l’imbarazzante episodio del Papeete, la vita sentimentale un po’ disinvolta. Sul piano politico, da arci nordisti orgogliosi di esserlo, non abbiamo mai apprezzato i toni esagitati, qualche volta davvero offensivi ed antinazionali, dei leghisti e di Salvini in persona, nei confronti degli italiani del Sud, ai quali ora strizzano l’occhio e chiedono il voto. Non perdoneremo mai al Capitano l’improvvido autogol dell’estate 2019, quando se ne è andato dal governo, offrendo il potere su un piatto d’argento ai nemici suoi e – lo gridiamo – della nostra nazione, un atto che ha dato inizio alla sua parabola discendente. Per di più, un giorno il Matteo milanese è cattolico integralista, un altro liberista, il terzo ritorna nordista e, a giorni alterni, sfodera patriottismo, felpa e mascherina tricolore. Come il suo partito, nel quale si trova tutto e il suo contrario.
Da oggi, tuttavia, 3 ottobre dell’annus horribilis 2020, anno I dell’era del virus e II del dis-governo giallo fucsia, e sino al termine del processo a suo carico, Salvini è il nostro Capitano. O capitano, mio capitano, cantava Walt Whitman in morte per assassinio di Abramo Lincoln. La prima strofa della poesia dell’autore di Foglie d’erba è terribile e bellissima: O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato; vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta, mentre gli occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida; ma o cuore! cuore! cuore! o gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il mio Capitano, caduto, gelido, morto.
Temiamo che uguale sia l’obiettivo: uccidere politicamente e ingabbiare fisicamente un nemico. Per questo, Matteo Salvini, con tutti i limiti e i dissensi che ci dividono, è oggi il nostro capitano. Davvero, non avremmo creduto di assistere a un processo penale per il tremendo delitto di rapimento a carico di un ministro di Sato che ha cercato di difendere i confini della nazione. Esiste ancora, poi, uno Stato, se saltano i tre classici elementi costitutivi, popolo, governo e territorio? Il territorio non può più essere difeso dal governo, il popolo chi è? I cittadini italiani, tutti coloro che sono presenti entro gli indifesi confini in un dato momento, o chi altro? Salvini ha impedito lo sbarco dalla nave Gregoretti, che aveva raccolto degli stranieri intenti a violare il territorio, ovvero uno dei fondamenti giuridici dello Stato.
Chi è, però, lo Stato? Forse la magistratura, che a gomitate si è ritagliata il ruolo di potere autonomo, sganciato nei fatti dalle responsabilità, forse quella parte di sistema politico che da anni, decenni, violenta la sovranità popolare per conto di poteri estranei e vive in simbiosi con il settore politicizzato dell’ordine giudiziario. E’ in corso un bizzarro processo, presso l’organo di autogoverno dei giudici, a Luca Palamara, ex uomo forte della magistratura organizzata. Lo si vuole togliere di mezzo come capro espiatorio, per fingere che non esista il sistema di complicità politiche reciproche, il commercio delle carriere che il popolo italiano vede con sgomento e subisce allorché ha la disgrazia di incappare nelle maglie della giustizia, per molti anticamera della rovina, personale, economica e civile.
O capitano, mio capitano, a processo con i voti determinanti di quelli con cui condividevi responsabilità di governo e tacquero- forse segretamente applaudirono – alle tue mosse nei confronti dell’’immigrazione clandestina. Gente che afferma che “uno vale uno”, ma non è vero, perché per essere “uno” occorre intanto essere uomini. A Catania capiremo se l’Italia è ancora uno Stato di diritto, se possiamo sperare nel futuro o se la scelta più saggia è quella di abbandonare questa ex nazione folle e disgregata. Probabilmente altrove, pur da stranieri, saremo trattati con maggiore rispetto che in Patria. Il passaggio è cruciale: è forse entrato in vigore, a nostra insaputa, il cosiddetto “diritto penale del nemico “? Ne parleremo più ampiamente in uno specifico intervento, ma il nostro timore è che stia vincendo la corrente del diritto penale contemporaneo chiamata “funzionalismo normativo”, nota anche come diritto penale del nemico, il cui massimo teorico europeo à il tedesco Günther Jakobs. Per Jakobs devono sussistere due binari giuridici divergenti, rivolti a due categorie differenti di soggetti: il primo vige per il cittadino ordinario, il secondo è uno strumento da utilizzare contro chi, di volta in volta, è identificato come nemico all’interno di una società politica. In sostanza, attraverso tale arbitraria costruzione giuridica, non si analizza il profilo di reato di un fatto, ma si persegue l’autore in quanto “nemico” dello Stato, della società, dell’ordine civile.
Da un quarto di secolo, alcuni mettono nel mirino l’avversario politico e cercano tenacemente il reato da attribuirgli. Costui diventa una non-persona, un bersaglio, qualcuno a cui sono sottratti i diritti, lo stesso corpo (habeas corpus) attraverso la privazione della libertà personale. L’impressione – speriamo sia una forma di paranoico complottismo – è che coloro che non condividono le idee di una precisa parte politica, culturale e di un potentissimo apparato di potere sui temi dell’immigrazione, della morale familiare, della bioetica, della cittadinanza, dal 2020 anche il giudizio sul Coronavirus e misure come lo stato d’emergenza , non siano più cittadini da contrastare sul piano delle idee, ma veri e propri nemici ai quali applicare un giudizio di colpevolezza preventivo, ad personam, attraverso la torsione degli strumenti del diritto penale e l’occupazione di spazi fin qui riservati all’azione legislativa .
Non si è più cittadini della sedicente “società aperta” se non se ne condividono i presupposti, con buona pace della sovranità popolare. La distinzione amico/nemico introdotta da Carl Schmitt riguarda lo stato d’eccezione e la guerra, tradizionale o partigiana. Non può mai affiorare nelle norme e nei comportamenti di uno Stato di diritto. La società aperta, peraltro, già nell’opera del suo primo teorico, Karl Popper, lasciava spazio alla sua negazione concreta: non si può essere tolleranti con gli intolleranti, tuonava lo studioso austro americano. Ma chi decide chi è tollerante e chi no? Soprattutto, è ancora lecito avere opinioni e condotte politiche diverse da quelle del dilagante progressismo governato dal politicamente corretto e dal marxismo culturale alleato con le oligarchie finanziarie e tecnologiche? Salvini ha infranto il dogma non dell’accoglienza, ma della sostituzione etnica. Va punito, rintracciando nei suoi atti qualunque profilo in grado di essere considerato reato. Essenziale è individuare il reo, il nemico, non il comportamento.
Ci rivolgiamo particolarmente alle correnti politiche e civili che si definiscono libertarie: che cosa ne pensate? Uno degli antefatti è il processo interno a Luca Palamara, le intercettazioni in cui si si afferma, nei dialoghi tra magistrati, che Salvini ha ragione, ma bisogna andare avanti. Opinioni, per quanto autorevoli, se pronunciate da tecnici del diritto, ma chiunque vede qual è lo stato della giustizia e più in generale il degrado civile, politico e morale di settori di classe dirigente – specchio della nazione- che ammettono implicitamente di amministrare giustizia secondo criteri che un docente definiva con tono beffardo “metagiuridici”, ovvero diversi dall’imperio della legge. Il giusto, il diritto, tornano a essere quelli dell’argomento di Trasimaco nella Repubblica di Platone: l’utile di chi comanda. Che, nel caso italiano, sembra davvero aver istituito una legislazione parallela, destinata a colpire il nemico.
Ci viene assicurato da decenni che in democrazia non ci sono nemici, ma avversari. Il confronto, pur nell’asprezza di principi e interessi contrapposti, deve avvenire fuori dai binari della violenza. Non c’è violenza fisica, ancora, ma psicologica, interminabili processi, la sproporzione fattuale tra accusa e difesa, l’essere passibili di processo per opinioni e persino sentimenti (il delitto di odio), l’aspettativa concreta della rovina e della distruzione della propria vita. A nulla vale il vecchio adagio “male non fare, paura non avere “. La paura c’è, ed è tanta, se non si è più cittadini con doveri e diritti, ma nemici per ciò che si è, per come si pensa, per come si agisce. Il potere tende a diventare biopotere, ovvero a impadronirsi dei corpi e oggi anche dei pensieri. Se sono un nemico, ho ancora diritti? Un eventuale processo tenderà ad accertare i fatti oppure a individuare un titolo di reato, uno qualsiasi, per giustificare la condanna già decisa?
Non vogliamo pensare che tale sia il destino del processo a Salvini: ha la capacità di difendersi e con lui è schierata una parte importante di opinione pubblica. La stessa magistratura non vive certo un momento di grande prestigio, con il bruciante caso Palamara. Le paure, tuttavia, si estendono; con esse, anche la sensazione di vivere un momento di profondo cambiamento, inavvertito ai più. La vecchia legittimità si ritrae e lotta dietro le quinte con nuovi principi nascenti. Guglielmo Ferrero, sociologo e pensatore dimenticato, scriveva che il potere nasce per contrastare la paura, ma a sua volta sa di generarla chiedendo il rispetto di regole. Tale circolo vizioso può essere interrotto solo se il potere viene esercitato secondo regole condivise, e per questo riconosciuto come legittimo da parte dei sottoposti. Le regole che determinano la legittimità del potere erano definite da Ferrero “geni invisibili della Città”, fattori che garantiscono l’unità culturale del gruppo associato, che consentono l’esercizio del comando e impediscono l’insorgere dell’anarchia distruttrice.
Quei geni invisibili sembrano dissolti e il timore cresce perché giace esanime il vecchio principio elettivo e democratico. Un esempio: è incredibile che dopo il referendum non si lavori a una legge elettorale capace di ridefinire i collegi e i seggi in palio in base alla modifica costituzionale, peraltro in vigore prima del voto confermativo. Quindi, la democrazia è sospesa di fatto e di diritto, poiché non si può “tecnicamente” andare a votare. Perduti nel presente e con la nave alla deriva, dobbiamo accettare senza fiatare lo stato di emergenza, il confinamento e l’impossibilità di manifestare. Intanto, il CSM chiude in gran fretta il cerchio attorno a Palamara, dichiarato unico colpevole, solitario esponente di un sistema di scambi e comparaggi, la mela marcia in un cesto di virtuosi. Ordini dall’alto, e del resto solo dall’alto possono arrivare gli ordini. Contemporaneamente, Salvini è processato e con lui le idee di un vasto settore di opinione pubblica. Il territorio, lo Stato non hanno confini, il popolo non ha voce.
Turba l’assenza di verticalità, la perdita di identità minima che sostenga le nostre vite e il destino comune. La fragile architettura politica della nazione sprofonda, ma “tutto andrà bene”. Le cose cambiano a nostra insaputa, dietro le nostre spalle, ma la crisi di sostituzione – del potere, della legittimità, della composizione del nostro popolo- non significa lotta per un nuovo ordine: l’agonia è solo decadenza terminale. Rotto l’ultimo vincolo, spezzata l’esile corda che ci tiene legati a un sistema, incontreremo il nulla. Anche l’epidemia – e la sua rappresentazione – finirà. Ha ragione Michel Houellebecq: tutto continuerà come prima, solo un po’ peggio.
Anche il processo al Capitano finirà. Comunque vada, avrà lasciato ferite inguaribili: il tifo delle opposte gradinate in nome di una politica fatta di urla scomposte, il conflitto tra poteri dello Stato, l’accanimento proibizionista nei confronti di idee largamente diffuse, la sensazione che un gran numero di italiani siano nemici, non più cittadini e membri della nazione, figli di un Dio minore da abbattere, cancellare per via giudiziaria. Tanto vale comportarsi davvero da nemici, non da buoni, onesti, leali italiani come siamo sempre stati, e reagire ogni volta che è possibile.
Capitano, o capitano, non meriti davvero di essere caricato di tanta forza simbolica, di diventare un martire o un colpevole designato. Sei, tutt’al più, un buon sergente, ma che ci resta? La speranza è che tu – probabile vittima designata di un potere ben peggiore dei tuoi difetti – abbia il destino di Abramo Lincoln, protagonista del canto di Whitman: assassinato, ma vittorioso.