di Roberto Pecchioli
Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti. E’ una famosa citazione di Luigi Pirandello, dal romanzo Uno, nessuno e centomila. Non avremmo creduto di verificare sulla pelle la verità letterale dell’aforisma e di constatare che la realtà è la maschera, non più il volto. Al tempo del virus che continua, tra la seconda ondata e la paura di massa elevata a modo di vita, la maschera non è una metafora, ma il simbolo realistico di un mondo, l’Occidente e l’Italia, che cambiano in peggio.
Forse domani il tempo iniziato nel fatale 2020 diventerà il principio di un’età della storia. Iniziò l’età antica in data incerta, poi arrivò il Medioevo alla caduta dell’Impero Romano. L’età moderna cominciò con la scoperta dell’America, o nel 1453, alla caduta di Costantinopoli e dell’impero romano d’oriente. L’età contemporanea ha la data della presa della Bastiglia nel 1789. La Quinta Età è iniziata a Wuhan, Cina, ad opera di un pipistrello dispettoso e sarà chiamata Età Virale. Ve ne sono tutti i presupposti, giacché è bastato una virus relativamente nuovo e mediamente letale per aprire il vaso di Pandora sotto i nostri occhi.
Un punto sembra certo: è finita una storia, quella dell’homo sapiens inteso, alla maniera di Aristotele, come animale politico. Sarà difficile ritornare a confidare nel prossimo, rinchiusi, ritratti nel nostro guscio come lumache. Intanto, democrazia e libertà battono in ritirata e arrivano senza presentarsi regimi autoritari, mostrando alla massa inerte un volto benevolo e protettivo dietro la mascherina di una crisi sanitaria che serve egregiamente a copertura di una serie infinita di abusi politici, economici, sociali e morali. Probabilmente non c’è al mondo un numero di scellerati sufficiente alla vittoria definitiva del Male, ma il vero pericolo è la gente comune, quella che si considera buona, riflessiva, di buon senso. L’istinto gregario determinato dalla paura fa sì che molti parlino, pochi pensino e nessuno agisca. Protestiamo solo quando possiamo farlo protetti dalla massa, un atto proibito dal divieto di assembramento. Salvo, naturalmente, che la riunione pubblica non sia approvata dallo stato maggiore politico, economico e mediatico.
Osserva Eugenio Capozzi, cui dobbiamo il migliore libro sull’ideologia del politicamente corretto, che è in atto una psicosi pandemica non più giustificata dall’emergenza sanitaria, fatta di paura del futuro e dalla rinuncia a vivere, “caratteristica di società gerontocratiche e infertili, in cui la spinta vitale si è ormai quasi arrestata. Il panico da Covid è diventato un sintomo ed al contempo un propellente della loro decadenza.” La psicosi è partita dalle classi politiche, si è diffusa alle opinioni pubbliche attraverso campagne mediatiche di martellante allarmismo, ed è ritornata al ceto dirigente nella forma di richiesta ossessiva di protezione e sicurezza, attaccamento spasmodico alla “nuda vita” che ha fatto dimenticare le difficoltà economiche e le costrizioni alla libertà imposte dal confinamento.
Senza saperlo, la locandina di un giornale locale spiega tutto. In alto, spicca l’appello delle categorie economiche che implorano: lasciateci lavorare. Sotto, il dramma delle residenze per anziani, che si svuotano per i lutti ma soprattutto per il panico delle famiglie. Una pubblicità “positiva” mostra un giovane che dice di non voler cedere alla paura: ma è solo la reclame di un corso per tatuatori. La paura domina su tutto, un sentimento corrosivo che uccide lentamente, blocca gli affetti, rende lividi, ostili, impedisce lo slancio vitale nutrito del suo contrario, il coraggio. L’ultimo a sfidare pubblicamente la paura fu papa Wojtyla, nel famoso discorso in cui esortava a scacciare i timori ed aprire le porte a Cristo. Era il 1978, un’era giurassica. Oggi il suo successore sulla cattedra di Pietro tace sull’essenziale mentre mostra un’incredibile logorrea su temi estranei alla fede e al senso della vita. Come spalancare il cuore al divino se le porte delle chiese sono sprangate e la Parola è ridotta ai consigli di profilassi dell’azienda sanitaria?
La paura è stata sempre considerata una debolezza, un muro da scalare. Shakespeare poteva scrivere nel Giulio Cesare “i paurosi muoiono mille volte, ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una volta. La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà. “Gli occidentali non credono più nel destino, l’amor fati degli antichi, e meno ancora confidano in Dio: non resta che difendere con le unghie e con i denti il pezzetto di vita che resta. La paura, non la legittima prudenza, diventa virtù. Un folto numero di medici e terapeuti ha sottoscritto la Dichiarazione di Great Barrington, nella quale si afferma che le politiche di blocco “stanno producendo effetti devastanti sulla salute pubblica, nel breve e lungo periodo. Il deterioramento della salute- fisica e mentale- porterà a un aumento della mortalità nel medio termine. I ceti più bassi e i giovani pagheranno il prezzo più alto”.
Siamo persuasi che sia l’esito voluto dalle oligarchie, che stanno utilizzando il Covid 19 – quale che ne sia stata l’origine – per intensificare i loro dannati progetti di ingegneria antropologica. I governi rafforzano il circolo vizioso paura-confinamento con una “narrazione “che attribuisce la colpa del peggioramento della situazione ai cittadini poco rispettosi delle “regole”. I giovani, già afflitti dalla precarizzazione sociale, derubati del futuro, confusi in quanto privati di principi e senso della vita, sono accusati di voler vivere, unirsi, incontrarsi. La polarizzazione produce divisione, aggressività sociale, sfiducia reciproca e genera ulteriori timori. La tendenza delle società e dei singoli a chiudersi in se stessi, la monocorde sintonizzazione sulla paura del futuro, la rinuncia a vivere e a voltare pagina, non sono sintomi casuali. Rappresentano caratteristiche di società vecchie, esaurite, in cui i giovani sono pochi e intimoriti. Unica parole d’ordine: mantenersi individualmente in vita un altro po’, nella speranza che “passi la nottata”. In attesa del vaccino e dell’invocata immunità di gregge, corre il terrore di gregge, in nome del quale si accetta di perdere libertà, dignità, diritti fondamentali.
Primum vivere, è ovvio, ma sgomenta i pochi dissidenti rimasti l’“unicum vivere”, la consegna dietro la quale incede la servitù volontaria e la società delatoria. Il governo, tra le varie misure applaudite dalla folla terrorizzata, vuole proibire anche le riunioni familiari. Il malcapitato ministro della sanità, che si chiama Speranza – eccezione a “nomen omen” – ha apertamente invitato a “far pervenire segnalazioni”. Non abbiamo dubbi che sarà esaudito dall’ OVRA – Opera Vigilanza Repressione Antivirus- ma ciò che sfugge al popolo intimorito è la violenza totalitaria di chi entra nella vita e nei sentimenti più intimi e sacri. Divieto di assembramento: giusto, entro certi limiti, ma è la proibizione tipica delle dittature. A distanza, non si può dibattere, discutere. Non si può neppure dissentire, tanto meno manifestare.
Chiunque eccepisca è tacciato di “negazionismo”: un nemico pubblico da isolare e denunciare. Chi ha tentato riunioni di piazza, è stato condannato all’insuccesso dall’impopolarità indotta dal gigantesco apparato della comunicazione, al quale mai come oggi si attaglia la definizione di Guy Debord: società dello spettacolo. La scena è occupata, più che dal virus reale, dalla sua rappresentazione. In tempi di fragilità psicologica e comportamentale, funziona perfettamente e a nulla vale il richiamo alla razionalità. Che cosa vogliono quelli che gridano di voler lavorare? Untori, temerari pericolosi, nemici che attentano alla “mia “vita, l’unica di cui davvero mi importi. Neppure nel corso delle epidemie più gravi del passato si è fermato tutto, ma allora il potere della megamacchina – statale e dei potentati privati – era inferiore e la gente non riponeva le sue speranze unicamente nel vaccino.
Non permettiamoci di organizzare feste private: il potere, oltreché distanziati, ci vuole tristi, ossessionati dal virus h.24. Di proibizione in proibizione, lo Stato terapeutico non riesce a sfuggire a contraddizioni clamorose. Vediamo ogni mattina la coda, necessariamente ravvicinata per mancanza di spazio, di cittadini davanti al centro di visite e prelievi dell’ASL. Inevitabili le liti, le recriminazioni e le accuse: come i capponi di Renzo che si beccavano a vicenda e non sapevano di essere destinati alla mensa dell’avvocato Azzeccagarbugli. Il sistema sanitario fa quel che può, con il risultato che non si viene curati per le malattie “normali”. Confessiamo un autentico terrore alla prospettiva di essere trasportati in ospedale. Chi conterà le morti indotte da mancate terapie? Meglio tacere, “il nemico ci ascolta “ed evitare anche il respiro.
Il nuovo autoritarismo è applaudito in quanto si basa sul terrore e l’ansia di protezione; ogni disposizione restrittiva scatena l’ingenua speranza che sia finalmente risolutiva. Meraviglia il silenzio dell’opposizione politica, ma è duro dissentire quando la maggioranza ha paura e il suo oggetto è invisibile. E’ arduo argomentare a chi vive nell’attesa nevrotica del bollettino sanitario serale. Nessuno crede davvero che la mascherina obbligatoria salvi dal contagio. Mettiamola per precauzione e prudenza, ma la sensazione è che sia un effetto placebo, per placare istinti e paure. C’è di più: simboleggia la sottomissione e la spersonalizzazione, due elementi fondamentali nella costruzione dell’autoritarismo. Nell’ Età del Covid 19, la maschera significa che non siamo più liberi e non siamo più noi stessi. Ombre vaganti, non individui, ma esseri da soggiogare, assoggettare. Il termine “assoggettare” ha la stessa radice di “soggetto”; non persone, non individui, ma atomi. Scriveva il Manzoni a proposito delle “gride”, i decreti del potere all’epoca dei Promessi Sposi: “le gride (…) assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere”.
Chi conserva il senso critico avrà riconosciuto la sinistra affinità con la condizione odierna. Nihil sub sole novi, recita il libro dell’Ecclesiaste, attribuito al re Salomone (Qoelet, 1,9). “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.” L’orgoglioso progresso di cui ci vantiamo crolla come un castello di carte dinanzi a un esserino invisibile, il virus, che riafferma l’eterno ritorno nella scena del mondo. La paura, la divisione, la manipolazione sono le armi del potere, sempre.
Il motivo per cui siamo convinti che alla fine dell’emergenza niente sarà più come ieri, tanto da farci immaginare l’evo virale prossimo futuro, è che ci sembra esaurita la fase storica avviata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Allora vennero rigettate le vecchie credenze, abbattuta l’autorità tradizionale e adorata una nuova divinità, la Ragione. L’uomo si sentiva adulto (Kant) e attraverso la razionalità affermava di aborrire la tirannia in nome dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità. Le religioni divennero superstizioni e furono proclamati diritti individuali dichiarati universali. L’uomo, così sembrava, si liberava delle maschere imposte dal potere: l’obbedienza, la fede, i doveri. Moriva l’etica del Cavaliere, sostituita dalla deontologia del mercante. L’uomo varcava un tornante della storia.
A quasi due secoli e mezzo di distanza, la Ragione è soppiantata dalla potenza predittiva della statistica, la Scienza è l’ancella della Tecnica. Il potere è in mano a chi possiede la Tecnica e la Tecnologia: persino la ricchezza è un retaggio del passato, al tempo in cui un clic permette alla megamacchina di creare il denaro dal nulla. Il passaggio che stiamo vivendo è quello del Dominio e del Controllo. Il potere non è più su popoli, nazioni e individui, ma sulla vita stessa, Bìos più Zòe.
L’homo sapiens occidentale si era abituato a libertà, autonomia, autogoverno, democrazia. Quel tempo sta finendo, ed è in via di esaurimento il sistema del lavoro basato su fabbriche e grandi organizzazioni. Le risorse del pianeta si stanno pericolosamente assottigliando, mentre bussano alla porta dello “sviluppo “popolazioni che si contano a miliardi. Capiranno i posteri se la pandemia fu colpa di un pipistrello o di una “manina” umana, ma in fondo adesso poco importa: è l’occasione per imprimere una svolta. Rivelò una volta Jacques Attali, gran ciambellano dell’oligarchia, che i grandi cambiamenti devono essere imposti e le epidemie, in fondo, sono delle opportunità per il potere. Non era possibile imporre una perdita di libertà se non attraverso la paura: abbastanza grande da essere concreta, non tanto drammatica da far perdere il controllo a lorsignori.
Chi crea il denaro, possiede le tecnologie digitali e informatiche, controlla le ricerche scientifiche è il padrone non solo del mondo, ma di ciascuna delle nostre vite. Forse il virus non è opera loro, ma è l’occasione che aspettavano. Diventa grottesca e anacronistica l’invocazione di chi ha un’impresa o ne è dipendente: lasciateci lavorare, anche a rischio della salute. Le oligarchie della Tecnica e del Denaro lavorano per diffondere povertà; hanno bisogno della nostra paura, creano le nostre divisioni e su di esse costruiscono il Dominio. Ieri la guerra e la carestia, oggi il coronavirus, domani chissà. Nulla di nuovo sotto il sole, tra maschere e paure.
Nessuna possibilità di invertire la rotta: la forza del nemico è la nostra tenace incapacità di comprendere, l’esito è la servitù volontaria nella caverna di Platone. Tragico e sfortunato il destino di Cassandra, la mitica figlia di Priamo, re di Troia, sacerdotessa di Apollo, Dio del Sole, delle arti, delle pestilenze e della scienza che illumina l’intelletto. La poveretta aveva il dono di antivedere le sventure: per questo era invisa e non creduta. Gli uomini non prestano fede a chi pronuncia verità sgradite e preferiscono non credere ai loro occhi. Non resta, come il Ribelle di Juenger, che “passare al bosco”, vivere nascosti per quanto possibile e diventare, come l’Anarca, legge a se stessi.