di Roberto PECCHIOLI
E’ di tutta evidenza che l’emergenza del Coronavirus (accidente della storia o astuzia criminale del potere?) sta facilitando l’estensione di quello che Michel Foucault chiamò biopotere, ovvero il dominio attraverso il controllo dei corpi- diventati docili per la paura – e della vita, una forma di tirannia non imposta con la violenza diretta , ma con strumenti “tecnici” sofisticati che permettono di conseguire il controllo su milioni di esistenze , sugli spazi che abitano, le relazioni personali , i comportamenti e gli affetti, sui pensieri e desideri più segreti . Foucault lo chiamò dispositivo e, sulle piste dell’utilitarismo inglese del secolo XIX, intuì la natura “panottica”, poliziesca, tirannica e concentrazionaria assunta dal potere. L’errore fu attribuirla esclusivamente al capitalismo. Erano gli anni Settanta del XX secolo e l’ubriacatura marxista non risparmiò quasi nessuno.
Resta il valore delle sue scoperte, la cui importanza è amplificata, nel tratto di secolo XXI che stiamo attraversando, dall’enorme accelerazione impressa da scoperte scientifiche – privatizzate come il resto del mondo – poste al servizio di tecnologie di sorveglianza massiccia che tracciano i nostri movimenti, manipolano, precedono e addirittura determinano le nostre decisioni.
Sono tecnologie a cui ci sottomettiamo di buon grado mentre armeggiamo con i nostri apparati informatici e con il telefono mobile, convinti che il potere le utilizzi a nostro favore, per garantire la nostra sicurezza e proteggere la nostra salute. La tirannia per via tecnologica succede alla dittatura finanziaria e lavora in sinergia con la dittatura sanitaria e tecnocratica di oligarchie che stanno utilizzando la lunga emergenza da Coronavirus per formattare l’uomo di ieri e creare il nuovo umanoide asservito, un uomo senza qualità deprivato del pensiero, derubato delle libertà, un pezzo di carne potenzialmente infetta a cui è stata amputata la dimensione spirituale. Nuda vita con l’unica preoccupazione di durare per l’attimo seguente, macchina desiderante con istinto di conservazione biologica.
Nel passato, carestie, guerre ed epidemie rendevano più acute le inquietudini spirituali; l’onnipresenza della morte faceva affiorare le domande di senso che la prosperità, il godimento di beni materiali e la quotidianità tendono a nascondere. L’emergenza presente è caratterizzata drammaticamente da un’assenza di preoccupazioni spirituali, neppure scalfita da situazioni estreme, come l’abbandono degli anziani nelle strutture sanitarie, morti in solitudine senza la presenza dei loro cari e in mancanza di quelli che una volta si chiamavano conforti religiosi. Nessun accenno al senso della vita nelle discussioni intellettuali, negli interminabili, inconcludenti dibattiti che punteggiano questi mesi, in cui il biopotere si intreccia come non mai con la società dello spettacolo (Guy Debord).
Tirannide e declino della spiritualità sono fenomeni collegati. Lo capì già nell’Ottocento Juan Donoso Cortés, aspro critico della modernità nascente, che mise in relazione nel Discorso sulla dittatura il declino della religiosità con l’aumento della tirannide. La religione fornisce agli uomini una direzione interiore, un autocontrollo che guida la vita morale; via via che il senso morale discende – potremmo definirlo il Super Io della psicanalisi- aumenta inevitabilmente la repressione esterna, politica, che la post modernità nasconde nel velo animale dello scatenamento degli istinti (l’Es). Donoso, atterrito da una società in cui il termometro religioso continuava a scendere, previde la nascita di un tiranno universale, immenso ed ubiquo nei confronti del quale non vi è più possibilità di resistenza fisica o morale, perché lo spirito è disperso.
Contro questa nuova forma di tirannide, non riteneva vi fosse altro antidoto che una “reazione religiosa”. Il pensiero inquietante che ci affida è il seguente: “È possibile questa reazione? Possibile, lo è; ma è probabile? Signori, parlo con la più profonda tristezza: non lo credo probabile. Ho visto e conosciuto molti individui che hanno lasciato la fede e vi si sono tornati. Purtroppo, non ho mai visto tornare alla fede i popoli che l’hanno perduta.” Ciò che accade sotto i nostri occhi, sullo sfondo del contagio, non fa che confermare le previsioni funeste del pensatore spagnolo. I nuovi tiranni hanno fatto strame delle nostre vite.
Questa riflessione è propedeutica al titolo del presente intervento: procurate moderare, barones, sa tirannia. Fu l’inno maestoso della rivoluzione antifeudale e antisabauda della Sardegna di fine Settecento, una sorta di Marsigliese isolana, scritta dal patriota sardo Francesco Ignazio Mannu. La prima strofa esprime tutta la forza della rabbia popolare contro la mancanza di libertà, soffocata dai feudatari. “Cercate di frenare, baroni, la tirannia, Se no, per la vita mia, rovinerete a terra! Dichiarata è la guerra contro la prepotenza, e comincia la pazienza nel popolo a mancare!” Tempi bui, rischiarati dall’esistenza di un popolo reattivo, in grado di individuare e mettere nel mirino i suoi nemici. Che bello sarebbe che l’accelerazione tirannica del maledetto 2020 producesse almeno una presa di coscienza comunitaria, un sussulto spirituale, un’ansia di riscatto morale e un desiderio di libertà diverso dai finti “diritti” della finta “società aperta”. Che successo se davvero la pazienza cominciasse nel popolo a mancare!
Non è così; la stretta dei sovrani, dei feudatari e dei baroni è sempre più forte e nessuno intima di moderare la tirannia. La pazienza – diventata esaustione, svuotamento di massa- sembra infinita e c’è da dubitare anche dell’esistenza di un popolo, ridotto a gregge disciplinato dal terrore. Il dispositivo del potere, fattosi biopotere, regna indiscusso. Il fuoco forse cova sotto la cenere, ma il rapporto tra masse e potere è più sbilanciato che mai, anche per la mancanza di coraggio, morale e anche fisico, lo svalutato ardimento. Scrisse Georges Bernanos che chi ha perduto l’anima, pensa solo alla pelle. Quella pelle su cui scrisse pagine memorabili Malaparte e che uno dei cattivi maestri della contemporaneità, Sigmund Freud, comprese essere l’unico obiettivo dell’uomo moderno, il quale, “in cambio di un po’ di sicurezza, ha rinunciato alla possibilità di essere felice”. Felice perché libero, aggiungiamo.
Una giovane studiosa di bioetica, Giulia Bovassi, definiva la nostra come l’era degli “assopiti dinamici”. Il sopore si è rovesciato in narcosi e il dinamismo moderno è sconfitto dal distanziamento “sociale”, dalla deriva anaffettiva ed egoista di una plebe informe di atomi agitati esclusivamente in difesa di un surplus di sopravvivenza, i tempi supplementari di chi non osa vivere per non morire.
E’ in corso una partita esistenziale, un esperimento antropologico la cui posta in gioco siamo noi, il dominio sull’esistenza morale, spirituale e biologica di ciascuno di noi: io, tu, tutti gli altri. Sorprende la vittoria postuma delle proibizioni, dopo mezzo secolo di “vietato vietare” e di odio sparso a piene mani contro l’autorità: il Sessantotto, rivoluzione contro i padri, non contro i padroni. Non solo si estendono i divieti che speriamo contingenti, legati all’improvvida (o forse callida, astutissima) gestione del virus da parte del potere, ma tutti quelli di un nuovo diritto penale repressivo che colpisce le idee e persino i sentimenti, inibisce i giudizi di valore e impone un‘ uguaglianza per equivalenza che ci rende simili ai granelli di sabbia nel deserto.
La tirannia agisce nella neolingua e nella correttezza politica che impone di non chiamare le cose con il loro nome e di non credere ai propri occhi, nell’odio feroce contro la natura dell’Homo deus, aspirante creatore di se stesso. Brucia sulla pelle di popoli la cui sapienza e cultura è negata, derisa in nome della dittatura degli esperti, i sapienti, i detentori della “scienza”, una superstizione o un totem intangibile più che una fiammeggiante religione materiale. Nel paesaggio cosparso di ceneri, la decadenza del linguaggio non è una malattia quanto un sintomo, come intuì Ernest Juenger. Fa ristagnare l’acqua della vita. La parola ha ancora significato, ma non senso, sempre più sostituita da cifre. Corpi e anime restano docili, domati. Il biopotere è un grande, perseverante domatore.
Siamo domati perché abbiamo offerto corpo e anima a Mefistofele in cambio di nulla. Corpi docili in quanto sono docili le anime e perché infecondi, vecchi, avvizziti. Il biopotere ha estenuato tre generazioni educate allo sballo, avviate a molteplici dipendenze, alla discussione interminabile, alla mediazione, alla debolezza, soprattutto all’irresponsabilità. Ha diffuso l’idea della vita come fuga, sequenza di attimi punteggiati da emozioni, piaceri volgari, vacanze. Vacanza significa assenza, mancanza. Davvero, tutto manca, specie la spina dorsale. Non abbiamo dubbi che la reazione, la “resilienza” davanti all’epidemia sarebbe stata ben più forte, nell’Italia non ancora disossata di trenta- quarant’anni fa.
Il Leviatano di Thomas Hobbes – a suo modo biopotere- si presentava come protettore della vita e garante della libertà dinanzi alla violenza bruta. La definizione hobbesiana della libertà, per quanto grezza e materialista, dovrebbe far sussultare le anime belle degli uomini domati: assenza di ostacoli al movimento. Del resto, auctoritas, non veritas facit legem. In un libello polemico della seconda metà del secolo XIX, Maurice Joly, avvocato francese acerrimo nemico di Napoleone III e del suo impero, frutto di quello che oggi chiameremmo “golpe bianco”, immagina un dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu sui diritti e la libertà. La conclusione messa in bocca al segretario fiorentino è che i popoli tornano alla barbarie per la via della civilizzazione.
Il biopotere fabbrica un universo concentrazionario in cui esso è l’unico detentore del diritto di vita e di morte. Lo verifichiamo nella gelida dittatura sanitaria in cui sono gli “esperti” a scegliere chi curare e chi abbandonare al suo destino. Altri periti, magliari della psicologia di massa, nel frattempo convincono ad abbandonare non solo il possesso del corpo, ma addirittura a rinunciare alla vita. L’argomento forte della propaganda mortuaria – questo è l’eutanasia, branca di un’eugenetica spaventosa anche perché non dichiarata – è che morire sarebbe “nel nostro interesse “, la migliore decisione di fronte a una scarsa “qualità della vita”, i cui parametri sono decisi dal biopotere. Non servo più, divento un peso per lorsignori, non sono più “necessario allo sforzo produttivo”, come ha scritto pochi giorni fa il governatore ligure Giovanni Toti. Crepa, corpo senza qualità.
Governo dei corpi, dunque, decisione sul loro spostamento. Non è forse biopotere imporre da un momento all’altro il telelavoro e la didattica a distanza? Non abbiamo più il diritto – virus a parte – di interagire con altri esseri umani, collaborare, litigare, scambiare idee. Il mediatore, anzi l’interlocutore, sarà sempre più uno schermo governato da remoto; la relazione con la realtà diventa la lontananza. E’ l’ossimoro del distanziamento “sociale”, giacché ogni distanziamento è per natura asociale. Biopotere, intrusione nella vita fisica e morale è la chiusura individualistica, solipsista imposta a generazioni “agite”, comandate a distanza da un pulsante on/off, private della cultura, che è libertà di sapere, conoscere, giudicare, pensare liberamente, cioè diversamente.
Il biopotere ama lo stato d’eccezione, aspira a renderlo permanente, e taglia il nodo gordiano dell’etica e della bioetica affermando che conta esclusivamente la sopravvivenza biologica individuale, almeno fintantoché ha “qualità”, ovvero serve al consumo. In caso contrario, pollice verso, come nel circo romano, tanto meglio se la disperazione di vivere ci indurrà a recidere volontariamente il filo della vita. Si tratta di un biopotere che porta al massimo grado l’antico “divide et impera”, riuscendo a penetrare non solo nelle relazioni, ma in interiore homine. Sono riusciti a scindere l’individuo da se stesso: un “dividuo” schizofrenico, sospettoso, egoista, nemico del suo simile e insieme macchina desiderante, un inseguitore di piaceri ed emozioni in mancanza delle quali crolla la “qualità della vita” e appare più accettabile, desiderabile l’annullamento di sé, il nichilismo gaio di massa che non si pone più domande perché qualcuno ha cancellato le parole e i significati, non solo i principi.
Per vivere meglio e di più, per non essere esclusi dal circo del consumo, ci stanno persuadendo a farci marchiare, come le mandrie. Questo è il senso dei chip sottocutanei e dei vaccini che apriranno le porte della felicità e della vita. In quanto alla morte, non esiste più come tale: ci sono solo “cause di morte”, che la scienza scopre, comprende e sconfigge, conducendoci verso la “trans-umanità”, il regno apparente dell’uomo che trascende se stesso e si ibrida con la macchina. In realtà, è la schiavitù perfetta, poiché la Macchina, l’Apparato, non è più un dispositivo, per quanto gigantesco, come per Foucault, ma la proprietà privata di chi la controlla e attraverso di essa esercita una tirannia il cui potere di vita di morte sgomenta per impersonalità. Viene in mente il concetto di banalità del male introdotto da Hannah Arendt. La Megamacchina, una volta attivata, agisce da sé, diventa procedura, amministrazione. Io, Tu, Noi, sono solo pronomi privi di riferimento alle persona vive, reali, alle anime.
In questa dimensione scabra, meccanica, trionfa il biopotere, il Leviatano nel cui tempo può sopravvivere solo il più forte. Oltre le oligarchie padrone del potere e perfino del mio e del tuo corpo, là fuori è una giungla popolata di lupi, squali e sciacalli. Ed è biopotere anche il Ministero della Verità, non più invenzione letteraria di George Orwell, ma dispositivo di censura preventiva, di nascondimento, controllo sociale, lavaggio del cervello. Che cosa significa quest’ espressione diventata proverbiale, se non che qualcuno, dall’esterno, “lava”, cancella ciò che io sono e ridisegna la mia vita, i miei principi, gesti, parole, secondo la sua volontà, sostituendosi a me?
Si sono impadroniti del “disco rigido” interiore di ciascuno, lo hanno resettato e sostituito con software decisi da loro, innestati nel corpo e nell’anima. Se questa non è tirannia, non sapremmo descriverla diversamente. Confinati nella caverna di Platone (il primo lockdown…), dimentichiamo la dimensione dell’autonomia e la categoria della libertà, tanto in senso alto, metafisico, quanto nella concretezza quotidiana (mi sposto, vivo, agisco, faccio scelte). Domato e rinchiuso il corpo docile, siamo schiavi di chi ci ha estirpato il pensiero critico, sottratto la cultura, derubato del libero arbitrio. Sono una rete, ma hanno anche sigle, nomi e cognomi. Chiamiamoli convenzionalmente i baroni. Non chiediamo molto, come non pretendevano granché i rivoltosi dell’inno sardo: solo di moderare la tirannia. Se davvero cominciasse la pazienza nei popoli a mancare, soffierà il vento.
Il canto dei patrioti sardi si conclude con un vigoroso grido d’incitamento alla rivolta, suggellato da un detto popolare di lapidaria efficacia: “Cando si tenet su bentu, est prezisu bentulare “, quando si leva il vento, è il momento di trebbiare.