di Roberto PECCHIOLI
“Povera patria schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame, che non sa cos’è il pudore;
si credono potenti e gli va bene quello che fanno, e tutto gli appartiene. “
Trent’anni fa aveva capito tutto Franco Battiato, probabilmente l’ultimo grande di un’Italia tanto decadente da non accorgersi più del suo declino. Povera patria e povero mondo, a cui sono sottratte libertà, giustizia e verità. Che importa, siamo (ancora) vivi, vaccinati e il coprifuoco è stato posticipato di un’ora. Alleluia. Intanto, le opinioni di un arcivescovo, monsignor Viganò, sono state rimosse da Youtube. Il laconico comunicato del portale – proprietà di Google, giusto per rinfrescare la memoria – recita così: “Abbiamo riscontrato che i contenuti violano le norme sulla disinformazione in ambito medico. “
Esiste dunque una verità “ufficiale”, indiscutibile della medicina, se le parole ancora hanno un significato una dittatura medica, che si aggiunge a quella tecnologica e della sorveglianza, di cui sono protagonisti i giganti Big Tech, e a quella finanziaria esercitata dai padroni del denaro. Casualmente, si tratta sempre degli stessi soggetti, che abbiamo cominciato a chiamare “Dominio”. La perdita delle libertà – al plurale- avanza a ritmo serrato: la rana è ormai bollita abbastanza da non poter saltare dalla padella in cui lorsignori l’hanno scaraventata. Non ci interessa, in questa sede, un dibattito sul concetti di libertà e di verità. Ci basta portare all’attenzione le enormi contraddizioni del sistema in cui viviamo. Presto in Italia – attraverso il ddl Zan- sarà vietato il principio di realtà. Una deputata finlandese e un vescovo luterano dello stesso paese sono sotto processo e rischiano il carcere per aver citato la Bibbia e il principio- mai posto in dubbio da nessuna civiltà per la sua evidenza – che “maschio e femmina li creò”.
E’ in atto un attacco ai fondamenti alla verità e alla libertà concreta da parte di un Dominio diventato biocrazia, potere sulle nostre vite, fisiche e spirituali, che ci riporta alle origini della nostra civiltà, in particolare al libro I della Repubblica di Platone.
Socrate è in polemica sull’idea di giustizia con Trasimaco, un sofista che sosteneva una tesi o il suo contrario, a seconda della paga, insomma un “intellettuale” della Grecia antica. Trasimaco, stavolta, è insolitamente chiaro e netto, e il suo argomento vale ancora, dopo venticinque secoli. “Io dico che la giustizia altro non è che se non ciò che giova al più forte. Ciascun governo si fa le leggi che meglio gli giovano. (…) Una volta fatte, i governanti dichiarano giusto per i sudditi quel che giova a se stessi e puniscono chi trasgredisce i loro ordini come violatori delle leggi e colpevoli di ingiustizia. Questo è dunque, brav’uomo, quello che in tutte le città io dico essere ugualmente giusto: ciò che giova al governo costituito, che è poi il potere dominante. Chi ben ragiona deve riconoscere che giusto è dappertutto egualmente questo: ciò che giova al più forte.”
Esiste ancora, concretamente, la libertà, la facoltà primordiale e naturale che ci conferisce il potere di pensare e decidere? E’ ancora permesso ragionare in maniera differente al pensiero dominante, unico e accettato, mettere in dubbio la versione ufficiale, che si tratti di pandemia, vaccinazioni, teoria di genere o qualunque altro tema civile e morale, o siamo condannati alla morte civile per uniformità? Siamo liberi nel mondo attuale o siamo soggetti a un nuovo ordine che è riuscito a trasformare la sottomissione, la subordinazione, la condizione di servitù, schiavitù e prigionia in qualcosa di lieve, futile, sottile, persino soave, accettata come beneficio e ineludibile? Le risposte sono scomode ma non possono restare inevase.
Tutto ciò che davamo per scontato o acquisito, non lo è più. Il terremoto è avvenuto, la casa è in frantumi, ma non ci crediamo ancora, ed è questo il vero dramma: l’incredulità del servo.
I regimi sedicenti liberali e democratici stanno realizzando dall’alto un cambiamento di ampiezza tale da essere diventati irriconoscibili. Perdurano ancora le forme “cosmetiche” per le quali non possiamo affermare che quello vigente è un regime totalitario, ma dobbiamo gridare che questa è una società di controllo e sorveglianza in cui gli spazi – ogni giorno più ristretti- di libertà- sono vigilati attraverso meccanismi di coazione sociale inaudita, che si insinuano nella vita privata, intima e nella quotidianità. E’ indubitabile che la pandemia abbia accelerato processi che vengono da lontano.
Se dunque veniamo sempre più spesso censurati, attaccati, denunciati e dunque viviamo- di fatto- da fuorilegge, questa non è che la riaffermazione dell’argomento di Trasimaco. Una regressione di venticinque secoli. Il potere non colpisce i suoi avversari per i loro torti, ma per le loro ragioni, talché la persecuzione e la repressione sono prove del fatto che i dissidenti sono nel giusto, quello di Socrate, il giusto “morale”. Non dimentichiamo che nell’Atene inventrice della prima democrazia, il fondatore dell’etica europea fu perseguito come corruttore della gioventù. Il primo esempio di capovolgimento, o, come ci piace dire con una facile battuta, di “Stato di rovescio”, anziché di diritto.
Avere opinioni distinte rispetto alle leggi “ di genere” , all’emergenza climatica, al matrimonio gay, al femminismo rancoroso, al linguaggio inclusivo, alla transessualità, all’aborto, all’eutanasia, al multiculturalismo, alle migrazioni, alla transizione ecologica, in una parola dissentire dalla narrazione ufficiale “progressista”, frutto della dannata alleanza tra il Dominio e la cultura post marxista, costa caro, si commettono una serie di delitti ideologici rubricati nella nuova categoria dei “crimini di odio”, di cui il potere è insieme giudice e accusatore. Presto diverrà reato affermare l’esistenza del “politicamente corretto”, tanto esso sarà diventato senso comune di una popolazione diventata plebe cretinizzata e animalizzata. La storia passata è controllata da una visione ufficiale unica e indiscutibile imposta dagli Stati, ridotti a poliziotti del pensiero al servizio del Dominio, il cui nemico è addirittura la realtà.
La tragedia non è che questo accada – il potere, ce lo ha spiegato Trasimaco, è sempre uguale a se stesso– ma che non si batta ciglio. Un deputato spagnolo si è visto cancellare il profilo Twitter per aver affermato “un uomo non può rimanere incinto”. Viene da ridere amaramente ricordando la copertina di un settimanale con il disegno di un uomo barbuto con il pancione della gravidanza e la didascalia “la diversità è ricchezza”. Nulla da eccepire nel metodo: il settimanale, in libertà, ha il pieno diritto di pubblicare ciò che crede. Perché, tuttavia, la libertà è oggi una strada a senso unico? Perché molti, in particolare i “risvegliati”, non colgono la contraddizione di predicare “diversità” e contemporaneamente negarla inflessibilmente a chi non condivide il loro universo mentale? Il bispensiero di Orwell più Trasimaco uniti per realizzare lo “Stato di rovescio”.
La domanda di fondo è: come è potuto accadere? Vi sono molteplici livelli di risposta. Limitiamoci all’aspetto giuridico, ossia al cammino dalla libertà di pensiero e parola- duramente conquistata – al suo contrario. Nel futuro giuristi, sociologi e filosofi dibatteranno a lungo sull’incredibile distanza tra le enunciazioni generali di libertà e la prassi quotidiana, sull’evidente contrasto (evidente, ahimè, solo a chi ha occhi per vedere e cervello per pensare) tra le più alte, ufficializzate, dichiarazioni di principio, le costituzioni che le accolgono e l’impianto normativo che le nega in radice senza che ai tecnici del diritto venga in mente di segnalare l’incongruenza. Ancora Trasimaco: conta il potere, il Dominio e la forza coercitiva che esprime, di cui l’apparato degli Stati è il braccio secolare.
Uno strumento potentissimo di destrutturazione è il positivismo giuridico trionfante. Per molti, esiste una legge naturale, iscritta nell’animo umano, antecedente a ogni ordinamento giuridico, a cui deve conformarsi il diritto, scienza dotata di una curvatura e un’intenzione morale. Al contrario, il positivismo giuridico, che nel secolo XX è dilagato attraverso la “teoria pura” del diritto di Hans Kelsen, afferma che lo ius è essenzialmente coercitivo e va separato da ogni dimensione morale. Conta che una legge sia formulata ed approvata attraverso le procedure vigenti, che sia “formalmente “legale, a nulla importando che sia giusta. E’ la capitale distinzione tra “legalità” (conformità al dettato della norma scritta) e legittimità (l’adesione ai precetti della legge naturale). La vittoria del positivismo giuridico esclude il dibattito su ciò che è “giusto”, rimandando al sofisma che Platone mette in bocca a Trasimaco.
Le grandi dichiarazioni di principio, dai Diritti dell’Uomo e del Cittadino della rivoluzione francese alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 hanno un prevalente impianto di diritto naturale: affermano cioè diritti che l’essere umano possiede in quanto tale e che non possono essere conculcati. Le costituzioni moderne hanno il medesimo approccio. Perché dunque lo Stato di diritto – quello dove non esiste “nullum crimen, nulla poena, sine lege stricta et scripta” (nessun delitto, nessuna pena senza una legge chiara e scritta) nega nei codici ciò che aveva proclamato con grandi squilli di tromba nella legge fondamentale a cui dovrebbero conformarsi tutte le altre?
L’esempio della contraddizione è la costituzione italiana. L’articolo 2, primo comma, è assai netto: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Secondo la dichiarazione del 1948, ogni uomo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, alla libertà di pensiero, coscienza e religione. La gestione del coronavirus, giustificata con lo stato d’eccezione, affermato senza seguire le procedure formali (dunque, a rigore, non valido in senso giuspostivista!) ha fatto strame degli “immortali principi “. In nome della “nuda vita”, o dell’utile del più forte?
Parallelamente, avanza una legislazione proibizionista che nega nei fatti i diritti di libertà espressi nell’articolo 21 (Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione). Gli articoli da 13 al 18 sono violati sistematicamente dall’inizio dell’emergenza virale (e non solo) o forse no, poiché il legislatore si è premurato di prevedere eccezioni stabilite di volta in volta dalla legge. Poiché è il sovrano a decidere, e per lui alcune caste privilegiate di periti del diritto, lo Stato di rovescio si estende. In modo speciale rispetto ai temi che il nostro tempo considera “sensibili”: la sfera sessuale, le questioni di razza, etnia e identità territoriale. In Italia, passiamo dalla legge Mancino, che punisce ogni “discriminazione”, alla criminalizzazione come discorso di odio, di ogni valutazione diversa da quella corrente rispetto alle tematiche “di genere”, bioetiche e civili (matrimonio e adozione omosessuale).
Siamo titolari di diritti “umani” che ci vengono negati o fortemente limitati come “cittadini”. Pensare, diceva Rosa Luxemburg, è, quasi sempre, “pensare altrimenti”. In Italia non siamo ancora giunti alle follie anglosassoni in tema di “cultura della cancellazione “(è questione di tempo, stante il tradimento della Chiesa e l’inazione delle forze politiche), ma il bavaglio non è meno ferreo. La deriva autoritaria avanza gigante nell’indifferenza dei più e nello sgomento impotente di chi non sa più a quali autorità, a quali principi appellarsi. Non ci riferiamo a questioni ridicole, come considerare reato penale alzare il braccio destro nel saluto romano a settantasei anni dalla fine del regime che amava quel gesto, ma a questioni più sostanziali.
E’ notizia recente che alcuni italiani sono stati accusati di vilipendio al Capo dello Stato per aver espresso valutazioni politiche negative sul suo operato. Ecco un altro potente elemento di contraddizione: una repubblica che si proclama democratica nella quale dir male del presidente (fuori dall’ingiuria, beninteso) non rientra nelle prerogative tutelate dall’art. 21. Si tratta di un residuo dell’esecrato codice Rocco di epoca fascista, che ancora serve al potere quando gli conviene. Nel caso del vilipendio del presidente della Repubblica, l’articolo 278 del codice penale così recita: “chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. Ha inquietanti profili di genericità, in un periodo in cui l’offesa è quella “percepita” dal destinatario, ciò che è alla base della legge sull’omofobia e in parte della legge Mancino.
Nel caso di specie, i testi “incriminati” esprimono critiche aspre, ma nessuna ingiuria personale legata alla sfera grigia dell’onore e del prestigio, a meno di non considerare vietata ogni critica. Oggi è “vilipendio” al Presidente, oggi e domani “discorso di odio”, discriminazione, fino alla xenofobia e al razzismo, tutte fattispecie aleatorie, ovvero arbitrarie o legate al sentire soggettivo. Perfino un divieto odioso, ma chiaro è preferibile alle fumisterie e alle contorsioni giuridiche, anticamera dello “Stato di rovescio”.
In più, è vincente una visione orribile della natura, dell’uomo e della vita materialista, radicalmente atea che unisce le due correnti di pensiero più forti nell’Occidente terminale: il libertarismo e il post marxismo. La natura diventa un regno del Caos e il compito dell’uomo (progressista e risvegliato) è quello di dettare norme. Scrive Marco Malaguti: “Nella visione progressista tutto deve essere normativizzato, pena il dilagare dell’iniquità. Da questo punto di vista la natura è sterco, un brulicare purulento di pus biologico, una ferita nel corpo del Nulla, come ebbe a definirla Georg Büchner. “Nulla appaga di più il politico progressista, aggiunge, di una società che cessa di autoregolarsi per obbedire in maniera automatica, come se si trattasse di un elettrodomestico.
Tutta la retorica sulla libertà personale si rivela per ciò che è oggi, un imbroglio, un espediente retorico, il cavallo di Troia per distruggere dall’interno la libertà. Non dimentichiamo che i suoi banditori più accesi, i cosiddetti intellettuali, sono personalità molto più inclini al totalitarismo rispetto alla gente comune. Ovvio: sono gli illuminati, i sapienti, i “risvegliati”, servi perfetti e ben retribuiti del Dominio.
In un quadro a tinte fosche, siamo tutti passibili di processo, tutti colpevoli a prescindere, chiamati a rispondere perfino di atti compiuti dai nostri antenati. Avanza a passi da gigante un nuovo autoritarismo mascherato che condanna e punisce pensieri, parole e sentimenti, in cui siamo alla mercé di sedicenti offesi ai quali non possiamo opporre nulla. A quale diritto, a quale principio ci appelliamo? Non c’è un giudice a Berlino, ma un accusatore giacobino e una ghigliottina fatta di discredito, rovina economica, isolamento sociale e, beninteso, le mura del carcere.
Non conosciamo un’epoca più ipocrita e kafkiana di questa. Nel Processo, Franz Kafka narra la storia di un uomo perseguito e arrestato da una remota, inaccessibile autorità, senza che la natura del suo crimine gli venga rivelata. La situazione è accettata passivamente dagli altri personaggi, un segno di ineluttabilità, una sorta di fenomeno meccanico. A nulla vale la razionalità e la lucidità di Joseph K., la cui condizione di colpevole sfugge a ogni logica. Speriamo di sbagliarci, di eccedere in peccare di pessimismo, ma questo è il presentimento per il futuro prossimo.
Per questo il nostro appello è una chiamata estrema a difendere, ripristinare e rilanciare i grandi temi del diritto, della libertà e della persona, uniti al rigetto per un mondo in cui ci viene espropriato lo spazio soggettivo, intimo e privato. Io e te in quanto uomini abbiamo il diritto naturale alla vita, alla libertà, alla coscienza e a uno spazio esistenziale, morale e pratico indisponibile, intangibile al Dominio. Fatti non fummo a viver come bruti.