TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO
Riflessioni teologico-politiche sulla Fede cristiana tra Stato, socialismo e liberismo
seconda parte
Debolezza intrinseca dell’Ordoliberalismo
La difficoltà a rispondere positivamente in modo incondizionato a tali domande sta nella lettura contrattualista che si da alla legge di natura e nella accezione razionalista, anche teologico razionalista, nella quale si restringe la natura umana intesa appunto come “natura razionale”. Perché se la natura umana è senza dubbio anche questo, ossia razionalità sicché pretendere di astrarla dalla razionalità significa sovente aprire l’abisso dell’irrazionalismo o del nichilismo apofatico, è però altrettanto vero che la natura umana è centrata sullo, ed aperta allo, Spirito che supera la razionalità. Lo Spirito è innanzitutto, come dicono i mistici, Fuoco d’Amore acceso nel cuore ad ardervi senza bruciare. Esattamente come la Fiamma che avvolgeva il sinaitico roveto ardente di Mosé.
Non si tratta, dunque, di accapigliarsi, più di tanto, in sottili distinzioni teologiche, sulle quali pure sono stati scritti trattati e summe troppo spesso lontane dall’esperienza di tutti noi, tra “natura pura” e “natura impura”, tra “natura ferita” e “natura corrotta”, quanto piuttosto di riconoscere, nella propria quotidiana esperienza personale, che la ferita del peccato consiste esattamente in quella chiusura del cuore al Fuoco dello Spirito Santo la quale ci allontana dal disegno originario di Dio su ciascuno di noi ed, impedendoci di amare il prossimo nell’Amore di Dio, ci costringe, ci riduce, a rapporti meramente, ossia esclusivamente, contrattualistici, utilitaristici, quindi a relazionarci con il prossimo soltanto in termini di reificazione, di utile e di autorefenzialità.
Da questa chiusura ontologica del cuore deriva anche la frattura che si è interposta tra etica ed economia, impossibile all’uomo da ricomporre in unità senza riaprire il cuore all’Altissimo.
Nella prospettiva liberista, qualunque sottile distinzione dottrinaria voglia farsi, l’etica è comunque inevitabilmente ridotta all’utile sicché il “rule of law” viene inteso come riconoscimento normativo positivo della legge “naturale” che unica regola i rapporti umani ossia la legge di mercato, la legge dello scambio contrattuale nel reciproco interesse. E se lo scambio è asimmetrico, favorendo alcuni a scapito degli altri e producendo accumulazione da un lato e povertà dall’altro, questo rientra, liberisticamente parlando, nel “corso naturale delle cose interferire nel quale è sempre controproducente”. Anche nella sua versione ordoliberale, senza dubbio in quella più individualista di Walter Eucken, la prospettiva etica riduzionista assunta dal liberismo non è sostanzialmente diversa, nonostante la pretesa cristiano-liberale di distinguere l’ordoliberalismo, il cosiddetto “liberalismo delle regole”, dal liberismo tout court. Non è affatto un caso se il guru del liberismo duro e puro, Friedrich August von Hayek, ha visto nella versione più sociale dell’ordoliberalismo proposta da Alfred Müller-Armack, che contempla interventi statuali più incisivi benché sempre “conformi” al mercato (anche se detta conformità resta sfumata e nella prassi diventa piuttosto presenza pubblica tout court), un tradimento, un inquinamento, del liberismo.
Una recente polemica tra il cattolico ordoliberale Flavio Felice ed il liberista “laicista” Michele Boldrin ha messo in luce la difficoltà della posizione ordoliberale quando essa cerca di distinguersi dal liberismo senza dover ammettere – cosa che è appunto una bestemmia in termini liberisti – che il mercato può e deve subire inferenze sovra ed extra mercantili, di natura etica e dunque normativa e quindi, in ultima istanza, checché ne dicano gli stessi ordoliberali, politica. Quel che è stato chiamato in causa, in quella polemica, è il ruolo dell’Autorità politica e conseguentemente, qui sta il cruccio degli ordoliberali, il limite di tale ruolo, la sua estensione che inevitabilmente dipende da molteplici fattori tutti, lo si voglia o meno, extra-mercato.
Boldrin ha rimproverato al Felice, riprendendo una vecchia polemica che a suo tempo fu già rivolta contro lo stesso Eucken, che il liberismo già contempla di per sé il governo della legge, dunque delle regole, e che quindi l’ordoliberalismo in nulla si distingue, o dovrebbe distinguersi, dal liberismo sic et simpliciter, sicché parlare di liberismo delle regole come qualcosa di diverso dal liberismo puro e semplice è un menar il can per l’aia. Oppure – ed è questo il sospetto di Boldrin – un tentativo di celare nell’aggettivo “sociale” l’intervento statuale, politico, sul mercato.
La replica di Flavio Felice, che ha rispolverato tutto l’armamentario ordoliberale – la “distinzione degli ordini” ossia della dimensione normativa, quale cornice del mercato, dalla dimensione economica, quale sostanza del mercato, la “costituzione dell’economia” con tanto di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, la regolamentazione inclusiva della concorrenza, il “sociale” come garanzia normativa dell’accesso senza privilegi al mercato contro ogni monopolio od oligopolio, etc. –, è stata inevitabilmente debole, quasi difensiva, rispetto alla logica serrata di Boldrin che è la logica del profitto individuale come unica possibile legge ad un tempo morale, normativa ed economica (9).
Non è che Flavio Felice non abbia saputo argomentare una difesa appropriata dell’ordoliberalismo, quanto piuttosto che è intrinseca alla posizione ordoliberale una debolezza teoretica a confronto con il ben più cinico e scaltro liberismo puro e semplice richiamato da Michele Boldrin. La difficoltà del cattolico liberista ad ammettere, senza venir meno alla dogmatica liberista sull’intangibilità assoluta del libero mercato (se tale, ossia, libero mercato si vuole che sia), la supremazia della dimensione etica nel senso cristiano del termine, dunque non utilitarista, sulle leggi stesse del mercato, le quali quindi possono essere legittime solo fino a quando non travalicano il limite della naturale socialità umana, riflesso dell’Amore sovrannaturale di Dio, sono emerse completamente nel confronto tra Felice e Boldrin.
Perché quando il mercato diventa il prius, l’unica dimensione stessa dell’esistenza umana, esso imprime una accelerazione verso la distruttività, il nichilismo e l’egoismo autoreferenziale insiti nell’operare, anche economico, di uomini feriti, nel cuore, dal peccato ossia dalla chiusura al Fuoco dell’Amore. La retorica smithiana sulla “sympathy”, infatti, non riesce affatto a nascondere la realtà, durissima, del mercato come luogo per eccellenza della più dura competizione nella quale inevitabilmente c’è sempre chi soccombe, ci sono sempre i deboli che vengono travolti.
Non dobbiamo mai dimenticare che lo stesso Adam Smith considerava, insieme alla moneta (che è già un grave errore economico), anche il lavoro una merce sottoposta alla inflessibile legge della domanda e dell’offerta, sicché i lavoratori non possono pretendere più del salario di sussistenza senza costringere gli imprenditori a lasciarli disoccupati. In questo, nella convinzione per la quale sarebbe l’offerta a crearsi la domanda, e quindi nella convinzione dell’efficacia economica del contenimento del costo del lavoro, per aumentare i profitti, senza rendersi conto che così facendo si deprime la domanda e quindi si provoca deflazione ed implosione dello stesso mercato, sta la contraddizione eterna del capitalismo.
Nella concezione di Adam Smith, che per i cattolici liberali sarebbe “morale” senza rendersi conto dell’ascendenza luterano-calvinista della filosofia morale smithiana, il mercato è una sorta di Leviatano, un Idolo, cui tutti devono sottomettersi perché dispensatore di salvezza o dannazione. E’ evidente la radice teologica rovesciata e distorta, appunto di eredità protestante, di questa idea “religiosa”, ma “luciferina”, del mercato. Rovesciata e distorta perché mentre il Dio della Rivelazione, il Dio cristiano della Tradizione apostolica, accoglie nella salvezza del Suo Amore chi ama il prossimo, procurando coscientemente e non irriflessivamente il suo bene, e d’altro canto rispetta la libera scelta della creatura la quale invece intende scegliere da sé la dannazione nella chiusura egoistica, il “mercato-dio” smithiano premia proprio questa chiusura autoreferenziale, che porta alla perdizione eterna, e punisce inesorabilmente l’amore del prossimo come contrario alla sua legge. Ogni argomento teso a dimostrare la radice cristiana della filosofia economica liberista fa inevitabilmente naufragio contro lo scoglio dell’egocentrismo, del fare di sé il centro normativo ed autonomo del mondo, sotteso a quella filosofia.
Al libero mercato più che la “sympathy” di Adam Smith, che tuttavia nel suo pensiero sempre si accompagna all’“egoismo virtuoso” quale vero movente dell’agire economico dell’uomo, si addice di più l’hobbesiano “homo lupus”. A meno che la regolamentazione del mercato, tanto decantata dall’ordoliberalismo, non diventi qualcosa di molto più strettamente cogente sul piano non solo regolatore ma anche, se necessario, ed è spesso necessario, dell’intervento diretto dell’Autorità politica. Infatti, anche sotto un profilo squisitamente economico, gli ordoliberali sembrano dimenticare, puntualmente come tutti i liberali, che la legge del Say appartiene ad un modello ampiamente superato, quello della scuola economica classica, e non consente – adaequatio rei et intellectus! – alcuna coerente adesione dell’intelligenza scientifica alla realtà dei fatti economici. Perché non è l’offerta a creare la domanda ma, casomai, il contrario, è la domanda che crea l’offerta.
Quindi si può ed anche si deve discutere su come sostenere la domanda. Se mediante interventi statali “conformi” al mercato, quali i trasferimenti di pubblico denaro ai singoli poi chiamati a scegliere come e dove spendere in termini di servizi, pubblici o privati, quel denaro, secondo il metodo dei bonus o voucher, auspicato da Müller-Armack, che contempla anche i sussidi pubblici di disoccupazione volti alla formazione per il reinserimento produttivo della persona senza lavoro (bisogna però tenere presente l’incentivo per i datori di lavoro a disfarsi dei lavoratori, in un’ottica non di valorizzazione del “capitale umano” ma di mercificazione dell’uomo, che è insito in sistemi i quali consentono irresponsabilmente all’imprenditore di liberarsi dei dipendenti anche senza motivo oggettivo, magari solo per delocalizzare, scaricando sullo Stato il dramma della disoccupazione) oppure, come suggerito da Keynes, se mediante una spesa pubblica produttiva, di investimento, in conto capitale (quindi non spesa corrente), qualificata e sapientemente selettiva, ovvero sottratta nella decisione della validità tecnica degli interventi e della progettualità alla politica cui deve competere solo la programmazione. Ma, al di là di questa discussione, è un dato ormai acquisito, nella letteratura scientifica più accreditata, che senza sostegno statale, pubblico, alla domanda il mercato non funziona affatto da sé, non è benefico né capace di dispensare benessere per tutti. Infatti, persino gli investimenti privati, che hanno la naturale tendenza a seguire a ruota quelli pubblici ed a fuggire dai mercati depressi e deflazionati, restano al palo senza la sollecitazione della spesa pubblica sulla domanda.
Un’Auctoritas politica interventista è davvero contraria al liberalismo ed al Cattolicesimo?
Senza dubbio non può essere l’Autorità Politica, che nella modernità ha preso la forma storica dello Stato, ad accendere nel cuore umano la Fiamma dell’Amore Divino, perché anch’essa, in quanto umana e incarnata da uomini, è fallibile nonché esposta all’autoreferenzialità, che nel suo caso si manifesta come autoritarismo. Non è, questo, il suo compito. Ma compito dell’Autorità politica, che per natura, non per contratto, è al di sopra della sfera economica, è quello di governare con misure sapienti la convivenza tra gli uomini e dunque anche il mercato e le relazioni inter-umane che si svolgono in esso. Governo che, però, non può essere limitato soltanto a disegnare la “cornice istituzionale” al mercato ed all’operare delle sue, presuntivamente intoccabili, leggi economiche, ma deve – come aveva intuito il più “interventista” tra gli ordoliberali, ossia il già citato Müller Armack – anche contemplare la legittimità di una diretta o indiretta, a seconda delle circostanze storiche del momento, azione pubblica sul e nel mercato. Azione sapiente, qualitativamente e quantitativamente, che, senza annullare quanto di positivo c’è nel mercato, non sia affatto una presenza timorata. «Il mercato fin dove è possibile, il governo quando è necessario», per dirla con un altro liberale, benché sui generis, ossia Giulio Tremonti.
In tal senso, non si vede perché mai, anche da un punto di vista ordoliberale, un mirato, keynesiano, intervento di spesa pubblica qualificata, dunque non solo e non tanto quantitativa quanto piuttosto selettiva con obiettivi di qualità, intesa a sostenere la domanda aggregata per far crescere l’economia e l’occupazione, debba essere respinto in termini ideologici e dogmatici come fanno spesso i liberali compresi quelli di fede cattolica.
L’intervento pubblico, qui auspicato, deve essere finanziato non solo e non tanto mediante il prelievo fiscale ma mediante la monetizzazione centralbancaria del fabbisogno pubblico strettamente, però, vincolata agli investimenti in conto capitale, che sempre hanno un effetto trainante anche per quelli privati, con esclusione quindi della spesa corrente. Questa monetizzazione deve essere attuata mediante l’acquisto primario di titoli di Stato, ad interesse zero o prossimo allo zero, da parte di una Banca Centrale, possibilmente pubblica sotto il profilo patrimoniale ed azionario, indipendente tecnicamente ma cooperante con il Governo (10).
John Maynard Keynes, del resto, si è sempre professato un leale liberale inglese benché dell’ortodossia economica liberale avesse compreso il punto debole ovvero l’irrilevanza, nella scienza economica classica, del problema della “domanda” (11).
Liberale era anche lord William Beveridge. Chiamato da Churchill nel 1941 ad elaborare una riforma delle assicurazioni sociali formulò, nel suo rapporto, le basi del sistema di Welfare poi attuato dal governo laburista Attle a partire dal 1945. Beveridge applicò, nel formulare le sue proposte, la lezione keynesiana avendo colto quanto la disoccupazione di massa fomenta le dittature. Da coerente liberale si convinse che non può esistere libertà disgiunta dalla solidarietà sociale.
Era, invece, addirittura un conservatore Beniamin Disraeli il quale, nell’Inghilterra del XIX secolo, contro i liberisti del suo tempo, attuò una politica intesa a riavvicinare le “due nazioni”, quella degli abbienti e quella dei poveri.
Nell’Ottocento, mentre gli economisti classici discettavano sul primato dell’offerta e le virtù benefiche della mano invisibile, che il mercato non funzionasse affatto in modo spontaneo ed armonico iniziò ad essere compreso dai governi non solo nell’Inghilterra patria del liberismo ma anche altrove. Nella Germania guglielmina, ad esempio, Bismarck, con il plauso della socialdemocrazia dell’epoca ma anche, nonostante il kulturkampf in atto, del “Zentrum” social-cattolico, introdusse il sistema statuale di assicurazioni sociali, primo elemento di un futuro welfare, nel capitalismo tedesco.
Proprio la Chiesa fu all’avanguardia nella critica sociale al liberismo. Il movimento sociale cattolico, si potrebbe ben dire “sospinto dallo Spirito”, non aspettò, nel XIX secolo, la ratifica, che tuttavia non tardò ad arrivare, del Magistero per elaborare e concretizzare, insieme alla critiche al liberismo, le soluzioni più realistiche per “socializzare” l’economia alla luce della Carità evangelica. Così, mentre Leone XIII, appunto consacrando il pensiero sociale cattolico ottocentesco, sanzionava, nella fondamentale “Cupiditas rerum novarum”, il principio morale per cui il lavoro non è merce, con il corollario naturale del giusto salario quale elemento nel calcolo economico non del tutto dipendente dalla legge della domanda e dell’offerta, aprendo in tal modo la strada al riconoscimento da parte cattolica del sindacalismo in termini moderni e della contrattazione collettiva, il nostro Giuseppe Toniolo, sulla scia leonina, rivendicava ai meriti del cattolicesimo sociale la formazione di un clima spirituale e culturale atto al superamento, già all’epoca in atto, del “laissez faire” nonché atto a sostenere le soluzioni maturate nelle diverse esperienze sociali che andavano elaborandosi e concretizzandosi in Europa.
E’ dunque evidente, sul piano storico, che l’invenzione, nel senso etimologico di “scoperta”, della presenza, attiva e non solo formalmente regolativa, dello Stato nel mercato appartiene di diritto, prima che alla sinistra non utopista, alla cultura cattolica ma anche a quella liberale e persino a quella conservatrice.
Perennialità e variabilità nel Magistero Sociale Cattolico. Strumentalizzazione del pontificato wojtiliano
Per riallacciare, anche oggi, il legame, originario, tra etica ed economia, è su questa linea che si deve lavorare.
Una azione culturale e politica che per i cattolici, pur nella distinzione dei piani, tra loro non comparabili, dovrebbe coincidere con il ri-cordare, ossia ricondurre nel proprio cuore, Dio.
Nel trentennio 1978-2007 – l’età del trionfo globale del neoliberismo sulla scia della Rivoluzione Neoconservatrice e Monetarista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher – la cultura politica cattolica è apparsa troppo schiacciata sulle tesi di un ordoliberalismo di segno conservatore che presume di rifarsi alla lezione dell’Aquinate ed alla seconda scolastica della Scuola di Salamanca. Tra i cattolici di orientamento liberal-conservatore il tomismo medioevale a salmantino è stato usato per dimostrare una presunta nobile e sicura ascendenza cattolica dell’ordoliberismo. Qui però si sconta la totale mancanza di un autentico senso storico che sappia distinguere tra quanto sussiste di imperituro nel tomismo originario come in quello ispanico-umanista, perché propriamente derivato dall’Eterna Sapienza, e quanto vi è invece di transeunte perché strettamente legato al proprio tempo, soprattutto nell’ambito della riflessione economica all’epoca soltanto ai suoi albori e non ancora assurta al rango di “scienza”. Sicché pretendere di trovare in Tommaso d’Aquino, Suarez o, per altri versi, in Bernardino da Siena le radici della scienza economica liberale significa soltanto fare un volo pindarico nell’esercizio del più vieto e ridicolo anacronismo, quello che per gli storici è il massimo dei peccati metodologici.
Del resto, che lo stesso magistero sociale cattolico contemporaneo risenta dei diversi climi epocali nel quale esso si esprime è cosa evidente leggendone i documenti. Tuttavia, in ciascuno di essi, al di là di ciò che è soltanto transeunte perché influenzato dalle circostanze storiche sempre provvisorie del momento, sussiste anche il riferimento ad una “perennialità” radicata nella Sapienza evangelica e nella Tradizione.
La destra cattolica, politicamente sdoganata dal reaganismo e dal thatcherismo, in nome dell’anticomunismo e della “santa alleanza” tra cattolicesimo e liberismo, alleanza decisa dagli uomini ma non da Dio come il rifiuto di san Giovanni Paolo II a benedire le guerre bushiste dimostrò poi chiaramente, ha tentato di presentare, al popolo cristiano, quella wojtiliana come una Chiesa finalmente aperta alle ragioni del liberalismo economico, riconosciute quasi sub specie aeternitatis, e di conseguenza ha tentato di presentare il capitalismo liberista come il sistema ordinato da Dio e santificato dal Suo Vicario in terra. Gli autori di questa truffa culturale, ad intra, sono stati i cosiddetti “teologi del mercato”, gli americani Michael Novak, George Weigel e Richard John Neuhaus, mentre, ad extra, hanno cooperato alla truffa tutte le “deficienze” di una sinistra radicale incapace di scuotersi dai propri luoghi comuni anticristiani e mitologico-resistenziali.
Quella di Giovanni Paolo II come “Papa del capitalismo liberale” è stata una rappresentazione assolutamente falsa in contrasto stridente con il comportamento stesso del pontefice che non lesinava abbracci al minatore sudamericano “sporco di miniera” e non si sottraeva al dialogo con un Fidel Castro leader di un esperimento comunista fallito ma anche di un popolo di atavica e profonda fede cristiana che ha dato al comunismo caraibico e latino-americano una impronta “cristiano-populista” più che “materialistico-marxista”. Dopo il 1989 Giovanni Paolo II ha ripetutamente avanzato dure critiche al capitalismo trionfante, mano a mano che le illusioni di una ricristianizzazione dell’Occidente, legate al clima di entusiasmo per gli eventi che accadevano ad est, venivano meno e mano a mano che apparve chiaro come il sistema occidentale era nemico non meno, anzi per certi aspetti anche più insidioso, di quello crollato al di là della cortina di ferro. Purtroppo Papa Woijtila non ha messo nero su bianco in una enciclica gli argomenti di questa disillusione, lasciando questo compito ai suoi successori. Questo ha consentito ai “truffatori”, di cui sopra, di argomentare le loro tesi anche sulla base dell’ultima sua enciclica sociale.
Non è, infatti, possibile negare una differenza di tono, benché non radicalmente di sostanza, nei testi del magistero sociale wojtiliano quando si mettono a confronto quelli precedenti il 1989 e quelli successivi. Mentre encicliche come la “Laborem excenses” (1981) o la “Sollicitudo rei socialis” (1987) mantengono ferma la duplice e contestuale critica al capitalismo ed al comunismo, dalla lettura di quella che gli ordoliberali cattolici sono soliti richiamare quale l’enciclica papale che segna l’apertura alle ragioni del libero mercato, parliamo della “Centesimus Annus” del 1990, si ha invece come l’impressione che, nel clima da “fine della storia” millenaristicamente prospettata da Francis Fukuyama negli anni seguenti la caduta del Muro di Berlino, la condanna dei mali del capitalismo sia stata da Papa Wojtila non certo ripudiata ma perlomeno mitigata nella illusoria speranza di un esito cristiano, etico e sociale, del liberalismo economico e quindi nella illusoria prospettiva di poter “battezzare” il modello capitalista.
L’impressione, purtroppo, permane nonostante nell’enciclica sia definita «inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto “socialismo reale” lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica» (n. 35) e nonostante in essa si paventi «il rischio di un’“idolatria” del mercato» (n. 40) nonché la diffusione di «un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale … affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato» (n. 42).
Rilevata detta impressione, non è tuttavia possibile trovare, nell’enciclica, l’inconfutabile conferma della narrazione catto-liberista per la quale il magistero sociale wojtiliano avrebbe, finalmente, battezzato l’ordoliberalismo sancendo come moralmente legittima la sola funzione di regolazione assegnata allo Stato e scomunicando ogni presenza interventista e redistributiva dell’Autorità politica. Purtroppo, però, certe espressioni contenute nell’enciclica, dato il clima epocale che facevano loro da contorno storico, appaiono un po’ troppo ingenuamente sbilanciate verso un’idea alquanto irenica ed armonica del “libero mercato”.
Infatti rispondendo alla domanda per la quale, ormai imploso il comunismo nelle sue insanabili contraddizioni (ma non la speranza di giustizia che esso ha preteso di incarnare), debba ora considerarsi il capitalismo il modello vincente verso il quale indirizzare tutti gli sforzi, Papa Wojtila scrive in quell’enciclica: «Se con “capitalismo”si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia di impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”. Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa» (n. 42).
Questo passo wojtiliano è diventato il cavallo di battaglia degli ordoliberali cattolici che credono di individuare in esso il superamento del duro giudizio di condanna del liberismo contenuto ad esempio, per citare uno dei tanti passi magisteriali in argomento, nel n. 89 della “Quadragesimo Anno” (1931) di Pio XI, per il quale: «… il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo … sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale dimenticando o ignorando che l’economia ha un suo carattere sociale, non meno che morale, ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo proprio principio direttivo o timone proprio, secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata. Se non che la libera concorrenza, quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta nei limiti bene determinati, non può essere in alcun modo il timone dell’economia; il che è dimostrato anche troppo spesso dall’esperienza, quando furono applicate nella pratica le norme dello spirito individualistico» (“Quadragesimo Anno”, n. 89).
Che dire? Alla luce della crisi globale iniziata nel 2007, Pio XI può ritenersi più profetico di Giovanni Paolo II. Del resto Papa Ratti scriveva subito dopo il “grande crollo” del 1929, individuandone la causa in quel che lui stesso, nella medesima enciclica, definisce significativamente «… funesto ed esecrabile … internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro» (n. 109). Invece Papa Wojtila scriveva nel pieno dell’apparente trionfo globale della stessa economia finanziaria condannata dal suo predecessore. Come si è detto, anche le encicliche risentono del momento storico della loro elaborazione. Ma sarebbe disonesto non guardare anche alla linea di continuità sussistente, benché con accentuazioni di tonalità differenti, nel magistero dei due Papi in questione. Infatti anche nell’enciclica wojtiliana sussiste, evidente, una forte ammonizione contro l’idolatria del mercato e il capitalismo radicale.
Il ruolo dello Stato in economia. Un confronto tra Pio XI e Giovanni Paolo II
Questa continuità è riscontrabile, nella diversa tonalità di cui si è detto, pure a proposito del ruolo che deve essere riconosciuto all’intervento dello Stato in economia.
Papa Ratti scriveva mosso anche dalla speranza di cattolicizzare l’esperimento corporativista e dirigista del fascismo italiano, del quale approvava l’impostazione di fondo pur, giustamente, criticandone l’assetto eccessivamente statualista (“Quadragesimo Anno” nn. 91, 92, 93, 94, 95, 96), assetto che d’altro canto però richiamava, benché in modo hegelianamente distorto, il retaggio “organicista” proprio del cattolicesimo politico e sociale tradizionalmente avverso all’individualismo ed al liberismo. Pio XI, dunque, riconosce allo Stato un ruolo naturalmente sovrano fino ad indicarlo come “assiso sui corpi intermedi” e quindi un ruolo non solo regolatore ma anche di intervento, certamente calibrato secondo sussidiarietà verticale (si badi: verticale, non orizzontale, perché di quest’ultima non c’è traccia nel magistero di Pio XI né in quello dei predecessori o dei successori).
Neanche Papa Wojtila misconosce la legittimità dell’intervento statuale in economia anche se, scrivendo nel clima illusorio di un’età di deregulation dilagante e quindi risentendo in parte di questo clima epocale, calca di più la mano sulla provvisorietà dell’intervento pubblico.
La differente tonalità è data dall’estensione assegnata al principio di sussidiarietà verticale (di quella orizzontale e reticolare, come si è appena detto, non fanno cenno, giustamente, né l’uno né l’altro). Ora, Pio XI assume la sussidiarietà verticale con una tonalità più “autoritativa” (“Quadragesimo Anno” nn. 79, 80, 81, 82, 109), per cui egli tratta della sovra-ordinazione dell’Autorità Politica. Autorità di uomini su altri uomini, per la quale i governanti sono chiamati a rispondere in eterno di fronte a Dio in ordine alla propria salvezza o condanna, e che deve, appunto, secondo Pio XI, assidersi «quale sovrana e arbitra delle cose, libera da ogni passione di partito e intenta al solo bene comune e alla giustizia». Invece, Papa Giovanni Paolo II tratta della sussidiarietà verticale con una tonalità più “liberale”. Infatti l’intero paragrafo n. 48 della “Centesimus Annus” descrive il “ruolo dello Stato nel settore dell’economia” in termini di “cornice giuridica” del mercato e del pluralismo associativo, sicché non a caso segue il paragrafo n. 49 nel quale si esalta il ruolo comunitario del “terzo settore”. Su queste premesse, Papa Wojtila indica la supplenza statuale, alle deficienze del mercato, come qualcosa di doverosamente temporaneo anche quando essa si dimostra necessaria, dovuta e duratura nel tempo.
Se in Papa Ratti la sociologia cristiana evidenzia una solida impostazione filosofica tomista, tale da non sminuire l’Auctoritas, in Papa Wojtila è più forte l’influsso dei “teologi del capitalismo” e degli eventi del 1989 che sembravano, in quegli anni, aprire la strada a “secoli di noia” contrassegnati da un capitalismo vincente e senza più avversari.
Papa Wojtila riconosce che il ruolo dello Stato in economia è stato necessariamente più incisivo nell’immediato passato e che esso aveva giustificazioni sociali innegabili ma invita anche a guardare al prezzo pagato in termini di eccessivo accrescimento, a scapito del vitale pluralismo sociale, degli apparati burocratici.
Qui, a nostro giudizio, ha fatto parziale difetto all’analisi wojtiliana una maggiore conoscenza del pensiero economico novecentesco ed un troppo acritico appiattimento sulla vulgata, all’epoca imperante e che continua ad essere ancora oggi presente nei media nonostante il fallimento del neoliberismo, secondo la quale le politiche keynesiane si realizzerebbero mediante la spesa pubblica nel suo complesso quantitativo e senza distinzioni né di tipologia né di qualità della stessa.
Keynes però non ha mai indicato nella spesa corrente, ossia quella che alimenta gli apparati burocratici comunque, in una certa misura storicamente variabile, pur sempre indispensabili per l’attivazione della spesa produttiva, il tipo di spesa pubblica necessaria al buon funzionamento del mercato. Al contrario egli, al fine di combattere il sottoinvestimento cui tende il mercato lasciato libero nelle sue presunte leggi naturali e quindi al fine di perseguire una politica nel lungo periodo di tendenziale piena occupazione, guardava alla spesa pubblica di investimento, ossia produttiva, in conto capitale, e riteneva necessario “socializzare” ovvero “pubblicizzare” l’investimento in una fascia di oscillazione, variabile a seconda delle concrete circostanze, tra 1/3 ed i ¾ del totale della spesa per investimenti e tra il 7,5 ed il 20 per cento del Pil (12).
Un intelligente e coerente tomista come il padre domenicano Raimondo Spiazzi non esitava a riconoscere, senza le remore di una mal riposta “prudenza conservatrice”, che: «Specialmente nella “Teoria Generale”, che è l’opera principale di Keynes, si effettua il passaggio dal liberismo economico della scuola di Cambrigde a … l’intervento pubblico per risolvere i fondamentali problemi di ordine economico-sociale. (…). Lo scopo principale di Keynes era quello di ottenere la piena occupazione delle energie del lavoro mediante interventi statali, giacché il processo spontaneo non è in grado di assicurarla. Ciò vale soprattutto in favore dei lavoratori … che non riescono da soli a entrare in nuovi strati operativi quando quello a cui appartengono entra in crisi. In questo la teoria di Keynes, criticata e criticabile in certi suoi risvolti e nelle applicazioni che ne sono state fatte, è consona alla concezione della dottrina sociale della Chiesa, per la quale il lavoratore non è un mero strumento di produzione, ma il fine del sistema economico, che deve essere orientato non solo a soddisfare le sue esigenze di consumo, ma a garantire il massimo spazio all’affermazione della sua personalità» (13).
Si ha, dunque, l’impressione che in Papa Wojtila non sia pienamente evidenziato il ruolo “giusto” dello Stato che, per lo stesso magistero sociale cattolico, non è mai stato soltanto quello del regolatore ma anche quello dell’Autorità che interviene direttamente o indirettamente, in modo variamente calibrato benché mai riconosciuto senza misura e tale da diventare, o rischiare di diventare, onnipervandente e tendenzialmente totalitario o totalizzante ossia assorbente della organica pluralità sociale che costituisce la fitta trama della vivente Comunità Politica degli uomini, al cui interno l’Autorità politica, nella modernità lo Stato, opera (o dovrebbe operare) in una posizione di primato «quale sovrana e arbitra delle cose, libera da ogni passione di partito e intenta al solo bene comune e alla giustizia» (Pio XI).
Si ha, in altri termini, l’impressione che Papa Wojtila, a differenza di Pio XI, non sia troppo propenso a riconoscere all’Autorità politica ed al potere pubblico un diritto-dovere di intervento per coordinare il pluralismo sociale anche in campo economico. La ragione di questa moderazione wojtiliana – la quale senza dubbio dipende anche dalla sua esperienza personale di vita sotto un regime totalitario come quello della Polonia comunista e che tuttavia non può di per sé giustificare questa eccessiva moderazione – sta certamente nella preoccupazione di esorcizzare il rischio dell’eccesivo accrescimento degli apparati pubblici, forieri di eccesso di spesa corrente e burocraticamente “freddi” nell’affrontare i bisogni dell’umanità sofferente.
«Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, – egli scrive al paragrafo n. 48 della sua enciclica del 1990 dando l’impressione, ma appunto è solo una impressione per quanto facile strumento dei conservatori, di riecheggiare in modo equivoco l’ipocrita ideologia del “compassionate conservatorism” – lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso … che (può) essere efficacemente aiutat(o) solo da chi (gli) offre … , oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno». Parole dense di verità, a proposito della fraterna vicinanza al bisognoso, ma anche non esaustive della complessità della questione. La carità cristiana può manifestarsi tanto all’interno di un apparato pubblico quanto in un’organizzazione di volontariato sociale. Dipende dagli uomini che animano quell’apparato pubblico o quella organizzazione privata. D’altro canto, l’avidità può tranquillamente nascondersi dietro pur nobili paraventi caritativi o solidaristici. Le cronache quotidiane, e non solo da oggi, sono pieni di episodi dai quali trapela il losco affarismo che spesso unisce gli amministratori pubblici e talune associazioni di volontariato anche religiose nello scambio, per ritorno elettorale, di quote di pubblico denaro destinato al sociale. La gestione immorale, a danno del sofferente, può manifestarsi anche nel cosiddetto “terzo settore”. La santità non è questione di mercato, di welfare State o di volontariato ma esclusivamente di persone aperte o chiuse all’Amore di Dio, ovunque dette persone siano poste ed ovunque esse operino.
Luigi Copertino
NOTE
9) M. Boldrin “L’economia sociale di mercato: cosa è?”, in “L’Imprenditore” novembre 2008 e in “Noise from America” del 18.01.2013; F. Felice “I limiti e i presupposti del mercato: una risposta a Michele Boldrin” sul blog “Formiche” del 08.02.2013.
10) L’obiezione liberale del rischio inflazione non tiene dal momento che la “teoria quantitativa della moneta” si è mostrata incapace a dare ragione di tutte le possibili cause di tale fenomeno che non sono, se non in minima parte e soltanto retrospettivamente, legate all’espansione della massa monetaria, espansione piuttosto consequenziale al preventivo aumento dei costi e dei prezzi il quale aumento finisce, poi, per “tirare” più moneta. Sicché laddove fossero praticate politiche monetaria restrittive questa potrebbero incidere soltanto sul quantitativo di moneta legale ma non anche su quello di moneta bancaria che, in carenza della prima, aumenterebbe sostenuta dalla domanda di mezzi di pagamento proveniente da imprese e famiglie. La “teoria endogena della moneta” spiega molto meglio nelle sue più verosimili cause il fenomeno inflazione che è innanzitutto connesso con l’aumento dei costi per fattori esogeni o con l’eccessivo aumento della domanda di beni rispetto alla capacità dell’offerta di soddisfarla. Nicholas Kaldor, ne “Il flagello del monetarismo”, ha definitivamente messo una croce sulle teorie neo-quantitativiste di Milton Friedman.
11) Nella sua “Teoria Generale” Keynes si dimostra tutt’altro che un rivoluzionario. Nel capitolo 24, dedicato alla filosofia sociale, egli scrive: «… la teoria precedente (ossia la sua teoria, nda) è piuttosto conservativa nelle conseguenze che implica». Keynes era sostanzialmente un conservatore. Ma era persona colta ed intelligente che aveva visto la Russia passare, nonostante gli sforzi di modernizzazione e di maggiore giustizia sociale perseguiti sotto gli ultimi Zar da alcuni ministri come Pyotr Arkadevich Stolypin, da una realtà ancora sostanzialmente di Ancien Régime al comunismo, abbandonando appunto quel poco di economia di mercato che, negli ultimi decenni di zarismo, era sorta nell’impero moscovita, e la Germania nazista instaurare un sistema totalitario quanto quello sovietico. Con la sua teoria voleva dare una risposta conservativa ad un “mercato possibile” rigettando l’utopia a-politica della quale si nutrivano i pensatori della Scuola Austriaca, von Mises e von Hayek, innanzitutto, e si nutriranno, in seguito, quelli di Chicago, ad iniziare da Milton Friedman. Il “New Deal” fu la risposta keynesiana all’irrealismo della scienza economica classica e neoclassica per la quale il mercato, se lasciato libero, è sempre in equilibrio e la disoccupazione involontaria non è mai possibile. Ma la realtà indicava nel XIX secolo, come negli anni ’30 del XX e come nei nostri anni, la disoccupazione involontaria quale dato oggettivo che solo per cecità ideologica scolastica si può non vedere. L’instabilità del libero mercato non è una invenzione di Keynes ma un dato di realtà, innegabile ed inevitabile in qualsiasi analisi. La scienza economica classica altro non era che una elaborazione concettuale dal punto di vista della sola “offerta”, la quale, nello schema economico liberale, assurgeva al ruolo del deus ex machina della dinamica economica. Per un secolo e mezzo, a partire dalla Francia dei “lumi”, la scienza ortodossa ha imposto la convinzione del tutto ideologica e priva di ogni scientificità che l’offerta fosse in grado di crearsi la domanda. Inseguendo questa erronea convinzione la scienza economica liberale entrò inevitabilmente in conflitto con la realtà di un sistema, come quello capitalistico, che chiedeva, come ancora chiede, la massimizzazione del saggio di profitto e la minimizzazione dei costi ad iniziare da quello del lavoro. Ma il lavoro altro non è che la “domanda”. Il basso salario erogato dall’imprenditore deprime le possibilità della domanda e questo fa cadere il castello fantastico della scienza economica liberale per la quale una bassa domanda dovrebbe assorbire tutta l’offerta. La realtà è ben diversa da quella postulata dal liberalismo economico. Nessuno, infatti, produce alcunché laddove di quel prodotto non c’è domanda o dove essa è debole per mancanza di reddito o per l’alta disoccupazione. Non era una fantasia di Marx, nella sua epoca, come non è una invenzione dei cosiddetti nemici della popperiana società aperta, oggi, la formazione inevitabile nel sistema capitalista della cosiddetta “riserva di disoccupati” – nel XIX secolo sotto forma di miseria, nel XXI secolo sotto forma di precariato – all’interno della quale il capitale può pescare a piacimento giocando al ribasso sul costo del lavoro. E’ il mercato stesso, lasciato libero alle sue immanenti leggi anetiche, a creare detta riserva di disoccupazione nello sforzo continuo di limare i costi di produzione.
12) «Gli anni del dopoguerra – è stato notato, a smentita delle accuse monetariste a Keynes per le quali egli avrebbe inteso favorire l’immorale ricorso all’indebitamento improduttivo – hanno dimostrato che invece di provvedere alla stabilità economica tramite l’applicazione dei suggerimenti programmatici di Keynes sugli investimenti governativi, con tutto ciò che implicava sul settore privato, i governi hanno risposto alle esplicite richieste dei loro elettori di una maggiore stabilità economica con garanzie particolari e individuali sul reddito reale e l’occupazione (leggasi, in particolare per il caso italiano, “clientelismo politico” soprattutto praticato nel reclutamento all’eccesso nelle dotazioni organiche pubbliche, cui però, ora, è del tutto ingiusto replicare con lo “sterminio di massa” del licenziamento collettivo nel pubblico impiego, invece che con una graduale e sana politica di smaltimento generazionale degli eccessi insieme a mobilità garantita degli occupati da situazioni di eccedenza verso situazioni di deficienza numerica, nda). (…). Nel soddisfare queste domande si sono creati oneri permanenti che hanno portato alla crescita della quota dei trasferimenti a scapito delle spese per beni capitali (leggasi, alla crescita delle spese correnti e delle rendite parassitarie mascherate da previdenze sociali, a danno dei veri bisognosi di aiuto sociale ed a scapito della spesa pubblica per investimento, del resto anche quest’ultima praticata sovente senza alcun riguardo al suo aspetto qualitativo ma solo a quello quantitativo, che da solo non è di per sé efficace nel lungo periodo, nda)». Cfr. Kregel J. A. “Finanziamento in disavanzo, politica economica e preferenza per la liquidità” in Vicarelli F. “Attualità di Keynes”, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 53, 58, 60, 74.
13) R. Spiazzi, a cura “Enciclopedia del pensiero sociale cristiano”, cit., p. 430.