MATTEO RENZI, ANGELA MERKEL ED ALTIERO SPINELLI – Ma l’Europa è un’altra cosa. Di Luigi Copertino

MATTEO RENZI, ANGELA MERKEL ED ALTIERO SPINELLI

Ma l’Europa è un’altra cosa

 

Sembra che lunedì prossimo, 22 agosto, il nostro capo del governo, Matteo Renzi, approfitterà dell’incontro in programma con Angela Merkel e Francois Hollande sulla nave Garibaldi per portare in visita i suoi ospiti nell’isola di Ventotene, dove Altiero Spinelli fu confinato dal regime fascista.

Altiero Spinelli, un socialista liberale, è considerato tra i padri nobili dell’idea di Europa. Egli fu mandato al confino da Mussolini e quindi la sua memoria si presta anche per dare sostanza all’antinazionalismo propagandisticamente utile nell’attuale scenario che vede l’Unione Europea – la quale però non vuol ammettere i suoi errori – insidiata dai risorgenti populismi.

Su Il Messaggero del 18 agosto scorso, lo stimato storico “cristiano sociale” dell’economia Giulio Sapelli ha ricordato, con enfasi, il confino di Altiero Spinelli, deportato sull’isola di Ventotene e sottoposto ad un’occhiuta vigilanza carceraria. Tuttavia – e lo diciamo solo per amore di verità storica – non si può esagerare con l’enfasi della retorica, dato che proprio su quell’isola Spinelli, insieme ad Ernesto Rossi, trovò modo, quindi ebbe la libertà necessaria, per scrivere tra il 1941 ed il 1944 il famoso “Manifesto di Ventotene” considerato, per l’appunto, l’atto di nascita del federalismo europeo.

Il Manifesto fu scritto da Altiero Spinelli con la collaborazione non solo di Ernesto Rossi ma anche di Ursula Hirschmann ed esso seguì la discussione liberamente – si noti: “liberamente” – instauratasi tra i molti confinati antifascisti presenti sull’isola. Fu poi pubblicato nel 1944 da Eugenio Colorni, che ne curò anche la prefazione.

Viene da chiedersi, e da chiedere agli enfatizzatori della retorica euro-federalista, se Spinelli, Rossi e la Hirschmann avrebbero mai potuto elaborare, mediante libere discussioni, il loro Manifesto anche in un lager hitleriano o in un gulag staliniano.

Pur riconoscendo la imperdonabile privazione della libertà per gli oppositori politici e la pressione psicologica cui erano certamente sottoposti i confinati a causa della stretta vigilanza sulle loro vite, pensiamo, senza affatto volerlo giustificare, che in fondo Mussolini non è stato verso di essi un satrapo e che non abbia affatto usato metodi assassini. Perfino Spinelli avrebbe preferito il confino fascista se gli si fosse prospettata, in alternativa, la realtà concentrazionaria nazista o sovietica.

Nel suo articolo Giulio Sapelli ricorda che il Manifesto di Ventotene delineava una Unione Europea molto differente del suo esito attuale a guida tecnocratica. Quel Manifesto, ci ricorda Giulio Sapelli, è stato il primo documento politico a prefigurare la necessità di una Federazione europea – sul modello statunitense – dotata di un parlamento europeo eletto, democraticamente, a suffragio universale e non su basi nazionali, e quindi di un governo democratico transnazionale con poteri reali in alcuni settori fondamentali come l’economia e la politica estera.

Quel che, però, Sapelli non dice è che esso, a dispetto delle pur nobili intenzioni, è innegabilmente uno dei documenti preparatori dell’attuale europeismo globalista, perché propugnava l’unificazione dell’Europa in senso federale su una base filosofica kantiana e su una base teorica istituzionale hamiltoniana. Spinelli e gli altri estensori del Manifesto affermavano la necessità di creare una forza politica esterna ai partiti tradizionali, inevitabilmente legati alla lotta politica nazionale, e quindi incapaci di rispondere efficacemente alle sfide della crescente internazionalizzazione. Il Movimento Federalista Europeo, che sarà anche il modello per il Partito Radicale Transnazionale di Marco Pannella, sarebbe, infatti, nato ispirandosi al Manifesto, nel quale era chiaramente affermato che

«la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».

Giulio Sapelli, nel suo caloroso ricordo di Spinelli, lamenta che l’Unione Europea non ha affatto seguito la linea tracciata dal Manifesto di Ventotene ma è rimasta incagliata ed irretita da un assetto tecnocratico alleato, alla bisogna, con il persistente nazionalismo tedesco ossia della Nazione più forte nell’ambito dell’Unione. Sembra quasi che Sapelli voglia, implicitamente, constatare una segreta rivincita della Germania “nazista” sulla resistenza antifascista di Spinelli e, forse, per certi profili, non avrebbe neanche torto.

Il problema che però né Sapelli né, a suo tempo, Spinelli si sono posti sta nella domanda se le nazioni sono un residuo arcaico ed un nemico della Pace Universale di matrice kantiana oppure se esse corrispondono ad una reale e legittima esigenza politica e naturale dell’essere umano. Abbiamo detto “nazioni” e non “Stati nazionali” per quanto dicendo nazioni, a partire da Vestfalia (1648), non possiamo non dire anche Stati nazionali.

E qui cade un primo punto critico. La Pace di Vestfalia – che sancì il definitivo assetto statual-nazionale dell’Europa fuoriuscita dallo sconquasso della Riforma ed avviata verso l’abbandono del vecchio modello universalista della Cristianità medioevale ancora nel XVI secolo incarnato, in forme adeguate ai tempi, dalla “Monarchia” plurinazionale asburgica – ha generato quel che Carl Schmitt chiama “jus publicum europaeum”. Si trattava di un sistema di diritto internazionale inter-statuale ed eurocentrico che, bandita ogni giustificazione teologica – la “justa causa” – della guerra, riconosceva come legittimo il solo “justus hostis” ovvero il nemico formalmente tale sul piano gius-internazionalista, indipendentemente dalle motivazioni vere o presunte della guerra, e che tale poteva essere solo uno Stato territorialmente definito e quindi dotato di un esercito statuale non mercenario.

L’intento era quello di limitare il conflitto, di incanalarlo verso esiti istituzionalizzati in termini e forme diplomatiche, di regolarlo geometricamente sui campi di battaglia onde salvare quante più vite umane possibili, di configurare un diritto bellico che tutelasse i prigionieri e le popolazioni civili. Alla base di tutto questo stava l’esigenza, dopo le cruentissime guerre di religione scatenate dall’offensiva luterano-germanica, di togliere alla guerra ogni giustificazione “militante”, “missionaria”, “ideologica” e quindi ogni giustificazione che, come sarebbe successivamente avvenuto a partire dal XIX secolo, potesse discriminar tra l’“umanità” – ossia il complesso indistinto della collettività mondiale – ed i “nemici dell’umanità” – ossia quegli Stati che ponendosi “al di fuori dell’umanità” attentano, in detta prospettiva mondialista, alla Pace perpetua.

Per circa due secoli, dopo Vestfalia, lo jus publicum europaeum funzionò e riuscì, su base inter-statuale e non anti-statuale, a limitare e contenere la violenza e la guerra. Ma a partire dalle guerre napoleoniche la giustificazione ideologica del conflitto, riapparsa in forma inedita con la Rivoluzione Francese, e quindi il carattere discriminatorio, dello scontro bellico, tra amici e nemici dell’umanità, rientrarono dalla finestra dopo essere stati cacciati dalla porta.

La giustificazione ideologica, però, questa volta si presentò in forma secolarizzata, moderna. Non più, pertanto, nella cornice di  un orizzonte spirituale che, ad iniziare da Aurelio Agostino, nell’età della Cristianità, chiedeva per la legittimità morale della guerra una “justa causa”, sempre difficile da stabilire in mancanza di un’Autorità super partes che giudicasse e pacificasse i contendenti. Anche, infatti, nel caso del diritto internazionale pre-statuale della Cristianità medioevale l’intento era  quello di stabilire i casi, pochi, nei quali fosse lecito ai cristiani combattere. Quindi anche in tal caso  si trattava di cercare le vie per limitare e contenere il conflitto. Benché, poi, all’atto pratico non sempre vi si riusciva, perché il concetto di “giusta causa” era perennemente esposto alla strumentalizzazione ritenendosi ciascuno dei contendenti, senza una forte Autorità che si imponesse quale arbitro terzo, giudice “in causa sui”. Nel XVI secolo ci si sarebbe, infine, accorti che, fratturata irrimediabilmente l’unità della Cristianità e messo in discussione il principio universalista del Papato e dell’Impero, non esisteva più alcuna Autorità che potesse garantire un giudizio equo tra i belligeranti.

Quindi quando Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, nel loro Manifesto, individuano la causa dei mali e delle guerre intra-europee negli Stati nazionali essi prendono una sonora cantonata storica. Non gli Stati nazionali, diventati con Vestfalia i legittimi soggetti del diritto internazionale e dimostratisi capaci di contenere le guerre per tre secoli, ma casomai le ideologie moderne, non escluso il nazionalismo, sono state alla radice dello sconquasso bellico che per due volte nel XX secolo ha travolto l’Europa ed il mondo.

Arriviamo ora al secondo punto critico. L’appartenenza nazionale di ciascun uomo è di diritto naturale, pertanto innegabile sul piano immanente. L’Unicità di Dio e l’Universalità della Chiesa appartengono all’ordine trascendente che non nega, anzi pretende il pluralismo ed il particolarismo dei popoli e delle nazioni sul piano immanente, quindi naturale e politico. Voler astrarre da questo pluralismo non è realizzare l’universalismo cristiano ma al contrario è imitarlo in termini luciferini.

La storia dell’Europa, oltretutto, è una storia al plurale e non è affatto possibile ipotizzare un unico parlamento europeo a base democratica ma a-nazionale, perché non esiste affatto un “unico popolo europeo” ma solo diversi popoli europei uniti da vincoli comuni di cultura e storia. La gollista “Europa della Patrie” corrisponde molto meglio alla storia del Vecchio Continente che non il Federalismo transnazionale di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

Ed ecco, dunque, il terzo punto. L’Europa un suo modello storico di unità lo ha ed in passato lo ha sperimentato. Lo abbiamo già incontrato quando abbiamo fatto cenno alla “Monarchia” ispano-asburgica, quella di Carlo V sulla quale “non tramontava mai il sole”. Questo modello era l’esito della rielaborazione rinascimentale dell’antica Cristianità medioevale. Una rielaborazione che tentò di tener conto dell’intervenuta frattura luterana mediante l’applicazione del principio del “cuius regio eius religio”, definito dall’imperatore nella Pace di Augusta del 1555 per determinare la religione dell’Impero nei termini della coesistenza tra luteranesimo e Cattolicesimo. Quel principio sanciva per i prìncipi e le città libere la facoltà di introdurre la fede luterana (lo jus reformandi) nel loro territorio, pur godendo degli stessi diritti degli Stati cattolici all’interno dell’Impero. La popolazione di confessione diversa da quella del principe, sia cattolica sia protestante, doveva adeguarsi alla confessione del principe oppure emigrare.

Come sostengono Franco Cardini e Sergio Valzania, nella loro opera “Le radici perdute dell’Europa – da Carlo V ai conflitti mondiali” (Mondadori, 2006), la rielaborazione ispano-asburgica dell’ideale universalista della Cristianità medioevale non era un utopico tentativo fuori del tempo, contro la modernità nascente e rappresentata dalle monarchie assolute nazionali. Quella rielaborazione corrispondeva ad una reale possibilità storica rimasta allo stato potenziale ma che, anzi, avrebbe potuto avere, in circostanze più favorevoli che purtroppo non si diedero, una sua continuità contendendo il primato alla forma politica dello Stato nazionale o perlomeno affiancandosi ad essa integrandola.

La continuazione storica di quel modello fu l’Impero Austriaco ottocentesco. Il quale sembrò adempiere a quella originaria vocazione soprattutto nella seconda metà di quel secolo quando avvio un processo interno di riforma che trasformò l’Impero ad egemonia tedesca nell’Impero dualista austro-ungherese. La Duplice Monarchia aveva dato avvio alla prospettiva della successiva a progressiva parificazione giuridica tra tutte le sue componenti nazionali. Già, infatti, si parlava a fine ottocento, nonostante le resistenze opposte proprio dagli ungheresi, di “trialismo” con la concessione dell’eguaglianza anche all’elemento slavo (come avrebbe voluto l’erede al trono Francesco Ferdinando, quello assassinato nel 1914 a Sarajevo dagli irredentisti serbi che guardavano al trialismo come ad un pericolo per il nazionalismo slavo).

Si trattava senza dubbio di una compagine sovranazionale ma non transnazionale – che pertanto si fondava sul tendenziale riconoscimento delle nazioni componenti, secondo l’antico e cristiano modello dell’“unità nella diversità”, e non sull’eliminazione delle appartenenze nazionali – il cui delicato equilibrio era assicurato dalla “santità” della Monarchia imperiale che quale Auctoritas super partes riunisse, senza negarli, i popoli dell’Orbe. In tal senso l’imperatore, come faceva il Beato Carlo d’Asbugo, da Madera, luogo portoghese del suo esilio, ben poteva dichiararsi “padre comune dei suoi popoli”.

La Duplice Monarchia danubiana costituiva già un libero mercato al suo interno che avrebbe potuto sviluppare una economia socialmente equa ed equilibrata, all’occorrenza anche applicando, nonostante i fasti dell’austro-marginalismo di Carl Menger, politiche “keynesiane”, dato che l’Autorità imperiale per quanto in alto ben poteva intervenire, direttamente e sussidiariamente, laddove se ne ravvisasse la necessità. Ed anche sotto questo profilo essa rappresenta un modello per l’oggi.

Nell’ultimo parlamento della Monarchia Austro-Ungherese, non a caso, la rappresentanza non era solo a base partitica ma eminentemente a base nazionale. In quel parlamento, nel quale erano rappresentate tutte le nazionalità dell’Impero, fece le sue prime esperienze politiche anche il trentino, e pertanto fino al 1918 suddito imperiale, Alcide De Gasperi, tanto che il suo europeismo, per quanto lo si voglia criticare, è senza dubbio debitore dell’ideale asburgico.

Se, ora, volessimo trasporre quanto finora siamo andati spiegando in termini di attualità, dovremmo dire che il modello storico imperiale al quale abbiamo fatto cenno sarebbe traducibile non nei termini di una Federazione transnazionale, come nell’ipotesi del Manifesto di Spinelli, né in quelli di un unico Super-Stato Centrale Europeo, ma in quelli di una Confederazione che assicuri e garantisca la parificazione giuridica sostanziale tra gli Stati nazionali che la comporrebbero.

Ed assicurare la parificazione giuridica sostanziale tra gli Stati europei significherebbe in concreto, per esempio, stabilire, insieme ad una stanza di compensazione tra monete nazionali legate ad un cambio fisso ma flessibile con l’euro, un meccanismo perequativo delle bilance dei pagamenti, sul modello di Bretton Woods secondo la visione di Keynes e non quella di White, in modo che gli Stati in surplus finanziario e commerciale, come la Germania, siano costretti ad attuare politiche di sostegno alla domanda interna che costituiscano uno sbocco di mercato per le esportazioni dei partner europei. Non, come accade attualmente, con l’egemonia tedesca che impone, per il proprio tornaconto egoistico, la penalizzazione eurocratica dei soli deficit finanziari e commerciali dei più deboli Stati, euro-mediterranei, in difficoltà, a forza di tagli di bilancio, deflazione ed austerità.

 

                                                                                                  Luigi Copertino