di Roberto PECCHIOLI
La posta in palio della battaglia culturale contemporanea è l’uomo stesso. Nel prezioso libriccino L’abolizione dell’uomo, C.S. Lewis afferma l’esistenza di un ordine morale oggettivo che gli uomini di ogni tempo e civiltà, nelle più diverse tradizioni religiose o filosofiche possono riconoscere attraverso la retta ragione. Un ordine che l’uomo può approfondire con nuove intuizioni, ma al quale non può contribuire con invenzioni, come non può “immaginare un nuovo colore primario, creare un nuovo sole e un nuovo firmamento.” Lewis avverte dell’emergere di innovatori sociali – i Condizionatori – che, innalzando la bandiera del soggettivismo, postulano che l’ordine oggettivo può essere arbitrariamente trasformato e sostituito. Quando i Condizionatori, “armati dei poteri di uno stato onnicomprensivo e di una tecnologia scientifica irresistibile” riusciranno a plasmare una generazione, l’umanità avrà cessato di esistere. L’origine ultima di ogni azione umana smetterà di essere qualcosa di dato, per diventare qualcosa che può essere manipolato.
Bene e male diverranno parole vuote: il loro contenuto sarà ciò che avranno stabilito i Condizionatori. Se bene e male cessano di avere senso, prevale il più forte, quello che afferma: “io voglio”. Il condizionamento fa sì che le azioni umane siano guidate dal desiderio, dal capriccio, dal mero appetito travestito da forze sentimentali. Da quel momento diventiamo patetici burattini. Pensiamo all’ idea di soggettivizzare il sesso in base alla percezione individuale del momento: se si nega l’ordine morale oggettivo, la “destra” avvertirà che alcuni uomini che entreranno nei bagni delle donne e gareggeranno negli sport femminili; metterà in guardia del rischio che i genitori possono perdere la patria potestà se rifiutano di assecondare la volontà di un figlio che intende cambiare sesso. Non vedrà realtà ancora peggiori: ad esempio, il fatto che la cultura “gender”, asserendo che i minori sono consapevoli della propria “identità sessuale”, stia ponendo le basi per normalizzare i demoni più oscuri. Se accettiamo l’idea che i minori vivono una pienezza sessuale, perché non dovrebbero avere rapporti con gli adulti? Non lo dicono apertamente, la finestra di Overton non è ancora spalancata, ma l’esito è iscritto nella logica che stanno imponendo.
Una prova inequivocabile che il concetto di libertà liberale serve a far prevalere il campo progressista è il dibattito sull’eutanasia. Una libertà che rende sovrana la volontà individuale inevitabilmente si ribella alla sofferenza. Nel vecchio mondo dove la libertà era il discernimento tra il bene e il male nell’ordine dell’essere, l’uomo accettava la sofferenza come parte integrante della vita. Nel mondo governato dalla libertà liberale, l’uomo si ribella alla sofferenza ed aspira a sopprimerla, assumendo il controllo del suo destino attraverso la scienza.
Alla fine, la scienza fallisce, lasciando nudo l’uomo-Dio; alla libertà autodeterminata non resta che sopprimere la vita stessa. La stazione finale dell’uomo divinizzato del liberalismo è l’eutanasia e il comitato di accoglienza è progressista. Il liberalismo scuote l’albero, il progressismo raccoglie le noci. Per questo i liberali non possono essere contrari all’eutanasia, conseguenza finale del loro concetto di libertà. Solo chi intende la libertà alla maniera aristotelica può intendere la vita come “datità”, qualcosa di cui l’uomo non può disporre, e accettare che la sofferenza sia parte della vita. Una società che legalizza la morte procurata, che si sopprime per evitare la sofferenza, ha perso la voglia di vivere; risponde al male, alla vecchiaia, al disagio con la disperazione, poiché non crede che esista una dimensione “altra”.
È inevitabile che una società atea trovi nell’eutanasia, sintomo dell’autodistruzione individuale e collettiva, una via di fuga dalle sofferenze che non sa sopportare. Il liberalismo, insegna Donoso Cortés, è una scuola senza teologia: per questo finisce per generare scetticismo, perdita di senso, ateismo. Non esiste soluzione poiché il concetto di autodeterminazione è inscritto nel DNA liberale in tutte le sue componenti di destra e di sinistra. Di fronte al concetto di libertà aristotelica – la capacità degli esseri umani di agire all’interno dell’ordine dell’essere – la libertà liberale è la volontà di abbandonare l’ordine dell’essere e affermarsi sovranamente. E’ l’hegeliana libertà del volere, “libertà veramente infinita il cui oggetto non è un altro o un limite, ma è se stessa”. Questa libertà di modellare la vita a piacimento fa di ogni individuo un monarca che può rendersi indipendente dalla famiglia (divorzio), dalla vita nascente nel suo grembo (aborto), dal corpo fisico (cambio di sesso), e in ultimo dall’esistenza (eutanasia). Capovolgendo l’ordine ontologico, la libertà che si autodetermina continuamente distrugge ogni forma di vita comunitaria. La società liberale, non riconoscendo un ordine dell’essere, soppianta i legami naturali con vincoli puramente contrattuali, dando luogo a una convivenza malata, una “dissocietà” per mera aggregazione di individui che vivono sotto un contratto sociale gestito da leggi cangianti e coercitive. In questa dissocietà crescono personalità chiuse, egoiste, infatuate del supermercato dei diritti che permette di rendersi indipendenti – ovvero di “liberarsi” della famiglia, della vita nascente, del sesso biologico, della stessa vita.
Solo se si nega il concetto di libertà liberale e si accetta l’ordine dell’essere si possono risolvere i problemi della comunità, mettendo da parte una libertà velenosa che ha distrutto la vita comunitaria e ci ha trasformati in massa cretinizzata soddisfatta della sua degenerazione, senza altro ideale che una comoda schiavitù. Occorre tornare al concetto di uomo “nobile”, l’essere che ha un’anima per sé e per gli altri. Capace di punire se stesso e gli altri, dotato di “stile”, rivolto verso l’alto, l’uomo nobile, come sapeva Goethe, chiede di poter aderire a un ordine e a una legge. Sa obbedire, frenare e vedere, odia il gregge e sente l’onore come parte della sua vita. L’uomo nobile possiede se stesso, per questo può morire per una causa, è capace di dare ciò che nessuno gli chiede e di astenersi da ciò che nessuno vieta.
Un ideale troppo elevato? Forse, ma occorre volgere in alto lo sguardo, verso la vetta, allontanandolo dalla greppia nell’allevamento in cui ci hanno rinchiuso. Quando vengono spezzati i legami con la tradizione diventiamo massa amorfa e i tiranni possono modellarci a loro piacimento. Non si legge quasi più, si ignora tutto di ciò che era, indifferenti anche al futuro. Lottare contro l’odiernità, l’eterno presente è un’altra battaglia della guerra culturale, nonostante un sistema educativo che plasma le menti per distruggerle, renderle servili. Per essere “diversi” occorrono sacrifici. Gli schermi disperdono la nostra attenzione, introducono una componente di nervosismo nella nostra vita: non si possono leggere le Confessioni di Sant’Agostino e rispondere a un messaggio Whatsapp. Certo, è molto più facile collezionare fidanzate su Tinder che avere una persona a cui dedicare la vita. Vince l’attimo, il carpe diem di chi esorcizza il nulla correndo senza meta ed accettando una standardizzazione come nessun altro tempo aveva imposto.
Vivono e hanno linfa solo le comunità che hanno e ricreano una tradizione; in esse possono emergere le diverse personalità. Le società tradizionali proteggono il sorgere del “genio”, non solo quello delle personalità superiori, ma soprattutto il “genio” di ciascuno, il modo peculiare di essere nel mondo che promuove vocazioni e “persone” distinte. Le società che tagliano i legami con la tradizione vivono solo nel clima culturale del tempo, producono uomini e donne gregari, opachi, seriali, conformisti. Lo chiamano “progresso” e le forze in campo – divise sull’asse destra/sinistra – condividono lo stesso orizzonte liberale. La frattura che dobbiamo provocare, alimentare, ridestare è la distinzione capitale tra liberalismo e tradizione.
La battaglia culturale consiste nel fornire alla società un’alternativa, che può sussistere solo se entro una cornice coerente e perenne, cioè la Tradizione. Una delle caratteristiche dell’Occidente è la scomparsa della questione religiosa. Oltre l’ateismo: gelida indifferenza nei confronti dello spirito, della trascendenza, di tutto ciò che eccede l’attimo e la dimensione materiale. E un fatto sconvolgente, giacché tutte le civiltà si sono poste le grandi domande sul destino umano, l’esistenza e il rapporto con Dio. L’ossessione della libertà intesa come assenza di vincoli è strettamente collegata all’egemonia delle forze economiche. Le masse sono imbrigliate come scimmie che si contendono in una gabbia l’ultima banana, mentre la grande finanza si dedica a gestire i propri affari senza più limiti né restrizioni. Per il pensiero tradizionale, la sagra dei diritti e delle libertà è l’esca gettata dal Dominio per mantenere distratte le masse, come si gettano carrube ai maiali, mentre concentra e moltiplica denaro e potere nelle sue mani.
Avanza una dematerializzazione del denaro, che smette di essere la misura del valore per trasformarsi in simbolo astratto nella nebbia finanziaria, scollegato dai beni che in principio rappresentava, e tramontano le libertà come mezzo concreto per conseguire finalità concrete. Tempo di sostituzioni: il denaro e l’oro “fisici”, cioè reali, tangibili, sconfitti dal simbolo, dal clic sulla tastiera, mentre anche la libertà si fa astratta. Eppure infiamma le masse tra utopie e spropositi, impegnandole in rappresentazioni, falsi spettacoli, surrogati di partecipazione spacciati per democrazia.
Le libertà antiche erano collegate concretamente ai lavori svolti della gente, alla terra che offriva sostentamento, alla difesa delle proprie famiglie ed alle forme di vita. La libertà astratta ha riempito la gente di idee sbagliate epperò capaci di fascinazione. Insuperbita, la massa ha smesso di volgere lo sguardo verso il cielo, le richieste sempre nuove di libertà astratte come ultima religione surrogata. Il Denaro completa la sua opera di spoliazione – morale e materiale- gettando nuove esche: dichiarazioni universali di diritti, inusitate, insospettate libertà per folle ingolosite come bambini davanti alla pasticceria. Il Denaro ha inventato modi fantasmagorici per riprodurre se stesso, badando a ritornare “denaro fisico”, nel momento di saccheggiare i beni reali, dissanguando popoli che neppure si rendono più conto del latrocinio, nelle gabbie a litigare come scimmie.
Hanno inventato l’abuso della persona giuridica e il principio della responsabilità limitata, che annulla i concetti tradizionali di proprietà e di società, una volta collegati indissolubilmente alla responsabilità personale, mentre il Denaro ha determinato la trasformazione della proprietà in un entità che ripartisce gli utili mentre si accresce e lascia salvo il patrimonio dei suoi titolari quando va in fallimento. Infine ha inventato la libertà di circolazione dei capitali, che gli permette di abbandonare la nave che affonda come fanno i ratti, sfuggire al fisco, nascondersi dietro presta nome, celarsi in una nebbia inafferrabile di fittizie società anonime oltremare.
Le scimmiette in gabbia, con acuti squittii, chiedono più libertà, più diritti di facciata. Accontentati: il Dominio, come in altri tempi gli concedeva giornali illustrati e due settimane di ferie, più l’acquisto di beni di consumo a debito, ora distribuisce diritti gay e aborto alla rinfusa mentre paga salari miserabili. Da gran prestigiatore trae il coniglio dal cappello, offre Twitter e sesso compulsivo (meglio se virtuale) sostituisce la comunità con la community delle reti sociali, il dialogo con l’amicizia su Facebook. L’agorà è scambiata con la piazza virtuale (tanto rumore per nulla…), lo sfogo inane al posto della ribellione nel giardino d’infanzia di Peter Pan. Il potere scoraggia la nascita di nuovi fastidiosi membri della società: l’unica moltiplicazione che vede di buon occhio è la propria. Alle scimmiette lascia un’unica consolazione: ubriacarsi di libertà “inguinali”.
Questo, infine, è l’esito del pensiero liberale, della “società aperta” e di tutta l’impalcatura di diritti, lustrini e luci accecanti che ci avvolge. Unica risposta è il pensiero tradizionale, un modo di pensare che esiste dai tempi di Aristotele, innestato nel mondo cristiano. E’ la “filosofia perenne” costruita intorno all’idea che la fede e la vita debbano essere incarnate nelle realtà naturali. Il pensiero tradizionale non è di per sé conservatore, talora è l’opposto. Diceva Chesterton che la missione dei progressisti è sbagliare e quella dei conservatori è impedire che gli errori vengano corretti. L’uomo tradizionale reagisce contro ciò che il conservatore vuole solo mantenere; il conservatorismo preserva il guscio delle cose, il pensiero tradizionale l’essenza. Cerca di armarsi di fronte al mondo, dimenticando che il mondo è infiltrato nella sua armatura. Non smette di illudersi che le idee abbiano uno sviluppo logico. Pensa l’impossibile: poter raddrizzare ciò che è storto, ossia i principi liberali.
Le due visioni dell’uomo sono divergenti: il liberalismo crede che la natura umana possa essere riconfigurata a piacimento, che sia instabile, liquida. Il pensiero tradizionale, invece, considera l’essenza dell’uomo data per sempre, sostanzialmente immutabile. La natura degli uomini delle caverne e la nostra è la stessa. Intimamente legata al concetto di natura è la libertà. Per il pensiero tradizionale la libertà è legata alla verità; l’uomo è tanto più libero quanto più aderisce alla sua natura. Il pensiero liberale è pura autodeterminazione, volontà di trasformare ciò che si è e, modificando se stessi, trasfigurare il mondo secondo il proprio desiderio. Il confronto tra sinistra e destra si pone come una battaglia cosmica, mentre è una patetica lotta intestina. Assomiglia a una disputa tra ubriachi sull’ultimo bicchiere. Sinistra e destra litigano per cose grottesche o vane in una rissa interna. Pensano di lottare per una visione del mondo, ma sono poveri diavoli chiusi in una stanza buia senza saperlo.
Progressisti e conservatori partecipano a una visione erronea della natura umana: quella liberale. Sono gli abitanti della caverna del mito platonico. Non hanno conoscenza della realtà esterna e pensano che la loro disputa sia l’unica possibile. Il vincitore è il progressismo, più coerente con le premesse iniziali. Se l’obiettivo obbligato è progredire, perché fermarsi a un certo punto? Il conservatore si limita a frenare, a porre paletti che sposta sempre più in là, in un luogo chiamato “avanti”.
Tuttavia, la natura umana dà motivo alla speranza. Gli ingegneri sociali pensano che la nostra natura possa essere configurata come le parti di un meccano. Non è così. La pretesa di alterare la natura è una chimera; le ideologie imposte stanno generando un’insoddisfazione molto profonda. Finora, le élite riescono a controllare il malcontento con i diritti alternati alla paura e alla repressione; illusioni e pessime cause ancora illudono molti.
L’inganno universale, il “trompe l’oeil” di massa resisterà ancora un po’, ma è condannato a finire. Ci è toccata in sorte è un’epoca di morte, un gaio obitorio. Morirà senza lasciare rimpianti, senza riuscire a sottrarre all’uomo la sua umanità, la sua Tradizione, la sua scintilla divina.
“In malora le loro macchinazioni, Vergine Immacolata”