di Roberto PECCHIOLI
Ho incontrato il signor Maniman. Circola in milioni di esemplari d’ ambo i sessi (e oltre, dati i tempi) tutti uguali, identici: il trionfo del medesimo. Maniman non è un cognome di famiglia, ma un manifesto, un programma di vita. Si tratta di un’espressione dialettale ligure intraducibile, che significa, più o meno, “non si sa mai”, ma anche “non ne vale la pena” e ancora di più. Esprime una prudenza spinta all’eccesso, unita a un certo grado di indifferenza, un elogio implicito dell’immobilità (Oblomov, se non fosse russo, sarebbe genovese…), dell’accanita conservazione dell’esistente accompagnata alla paura del rischio, l’orrore dell’inesplorato, il sospetto ostile per tutto ciò che è nuovo o incerto.
Non gioco la partita, “maniman” perdo, non percorro quella strada, non tento quella possibilità: “maniman”. E’ la parola simbolo del conformista, del timoroso, di chi aspetta e osserva il mondo da spettatore: sempre, maniman… In linguaggio marinaro, è la scelta di bordeggiare, ovvero di navigare esclusivamente sotto costa, evitando l’alto mare aperto, avendo sempre in vista le luci della terraferma e il faro rassicurante. Non per caso il simbolo di Genova è un faro, detto modestamente, con tipico understatement, lanterna. Maniman pensino che siamo ricchi e possiamo permetterci una luce potente per i naviganti. E’ sufficiente una semplice lanterna. Perfino il ricco dolce tradizionale lo chiamiamo umilmente pandolce. Maniman ce ne chiedano una fetta. Anche nel lamento, vale il principio del maniman: da noi si “mugugna”, ossia ci si lagna a mezza bocca, con parole smozzicate e scuotendo la testa.
Evidentemente e sfortunatamente, il nostro maniman, palla al piede di sempre, ha fatto scuola e si è diffuso dappertutto. Il signor Maniman incontrato da noi entrava al supermercato con mascherina FFP2 calzata fin sotto gli occhi, guanti di lattice (maniman…) e dopo aver gettato uno sguardo diffidente ai presenti, ha mugugnato. Due clienti erano senza mascherina, tipacci che non seguono le raccomandazioni del governo, ma il nostro eroe non li ha affrontati direttamente. Il signor Maniman è codardo anzichenò. Ha chiesto alla cassiera di farlo per lui. Al diniego di lei (“non è più obbligatoria”) ha preferito andarsene, non prima di aver farfugliato qualche parola incomprensibile (il mugugno) e aver fulminato i due (uno era il vostro scrivano) con uno sguardo che voleva essere di fuoco e manifestava invece tutta la vana impotenza dei signori Maniman.
Povero Don Chisciotte, che non conosceva il “maniman” e, già cinquantenne, con una discreta posizione economica e i primi acciacchi, si fece cavaliere errante in odio al suo tempo senza onore, per riparare i torti, soccorrere le vedove e gli orfani e lottare contro ogni sopruso. E povero anche il suo scudiero, il fedele Sancho Panza, uomo materiale, ma di forti appetiti, capace di partire per conquistare le ricchezze promesse e il titolo di governatore dell’isola Barattaria. Nulla sapeva della libertà e della giustizia, conosceva solo la lingua della rude concretezza e ignorava l’impotenza del maniman. Il suo padrone decise di diventare pazzo e seguire la cavalleria errante perché aveva compreso che non si può aggiustare il mondo, ma si deve comunque lottare per l’amore, la giustizia e la libertà. Socrate, molti secoli prima, disse che vivendo nel timore, l’uomo non muore, si uccide. Per sant’Agostino, la storia umana è la lotta tra la città del bene e la città del male. Meglio non scegliere: maniman.
Per il Signor Maniman, prodotto della post modernità in milioni di esemplari, il bene è solo il vantaggio personale, il guscio da cui non sa né vuole uscire, l’adesione ai valori del momento diffusi dal potere, il pasto sicuro, la sicurezza del gregge. Aborre il sacrificio e disprezza ogni ideale forte. Ridacchierebbe con aria di superiorità ascoltando la famosa tirata di Don Chisciotte: “la libertà, amico Sancho, è uno dei doni più preziosi che i cieli dettero agli uomini; a lei non si possono uguagliare i tesori che racchiude la terra e che cela il mare; per la libertà, così come per l’onore, si può e si deve avventurare la vita e, al contrario, la schiavitù è il male peggiore che possa venire. “Tutto falso, meglio stare alla finestra e fare ciò che il padrone comanda (e raccomanda): maniman. L’onore, poi, quanto costa e perché comprarlo?
Il Signor Maniman è il suddito ideale del potere, pardon il perfetto cittadino della post libertà e della post democrazia. E’ sinceramente convinto che “andrà tutto bene”, a patto di attenersi alle istruzioni del governo, sventola con soddisfazione la bandiera arcobaleno, che, non rappresentando nulla di preciso e nessuno in particolare, non compromette e consente di sentirsi i buoni, dalla parte del giusto. Il Signor Maniman esiste da sempre, ha una progenie numerosa, senza problemi di denatalità. Le ultime generazioni sono affollatissime, c’è un boom di Maniman che non si pongono domande. Bastano le FAQ dei siti Internet, la televisione e la pagina iniziale di Google.
L’abilità del sistema è tale che costui è diventato docile, disciplinato, prevedibile per paura, non per violenza o costrizione diretta. Estirpato lo spirito, difende con accanimento la sopravvivenza fisica: qualsiasi cosa, fatto, persona, la metta in pericolo suscita la sua riprovazione più netta. Preferisce le catene, purché il pasto sia assicurato, accompagnato da qualche passatempo, meglio se triviale e immediato. Il signor Maniman è lo schiavo felice della libertà. Ossimoro vivente, che motivo ha per spezzare le catene? Chi gli assicura che un altro modo di vivere sia migliore? Maniman.
Negli ultimi anni, gli hanno cambiare molte credenze consolidate. Ora è schierato contro i nuovi mali del mondo, l’omotransfobia, l’eteropatriarcato, il privilegio bianco, eccetera. Nessun problema: non si è neppure accorto del cambiamento, che Plinio Correia de Oliveira chiamava trasbordo ideologico inavvertito. Essenziale è stare sempre dalla parte di chi urla maggiormente. I suoi applausi a comando sono assai graditi al potere che- da sempre- sa che la maggior parte degli esseri umani è formata da Maniman. I regimi politici di ogni segno e colore su un punto sono concordi: la maggioranza delle persone non ha idee proprie, è conformista, accomodante ed è più facile ingannarla che convincerla di essere stata ingannata. Gli ultimi anni ne sono una prova schiacciante.
Il signor Maniman non dice quasi mai ciò che pensa; del resto pensare è un esercizio a cui è poco incline. Se vi è costretto si accerta di far parte della maggioranza e che l’avversario sia debole e sconfitto. In quel caso, abbandona la maschera di prudenza e tira volentieri il calcio dell’asino. Anche le cose che non gradisce, riesce a farsele piacere per quieto vivere, beninteso se non viene leso direttamente e personalmente, nel qual caso abbandona il maniman e la pelle d’agnello per mostrare i denti acuminati del tornaconto.
In caso di conflitto- politico o bellico- parteggia invariabilmente per il vincitore. Crede con selvaggia determinazione nella narrazione ufficiale, che peraltro è l’unica disponibile. Scruta il volto del cattivo di turno per scorgervi i segni della follia e della malvagità segnalata dalla comunicazione mainstream. Quella alternativa non lo interessa, poiché stride con le credenze acquisite, l’arcobaleno e il quadretto rosa; in più bisogna andarsela a cercare e il signor Maniman è un pigrone.
Quel che gli importa sopra ogni cosa è che se la sbrighino gli altri, convinto che vivere nascosto, mascherato e al centro del gregge lo protegga da ogni male. In fondo, è facile renderlo felice: panem et circenses, uno schema antico. Una cara amica ha assistito con grande gioia (a debita distanza, maniman) allo spettacolo delle Frecce Tricolori nella nostra città. Entusiasta delle evoluzioni dei piloti militari, ha dichiarato di essersi sentita orgogliosa di essere italiana. Dimenticati Draghi, le tasse, i disagi, le mille ingiustizie, l’insicurezza e il disagio sociale: basta poco alla famiglia Maniman.
In ogni circostanza, fa il tifo per la parte più numerosa, più potente, più ricca. Ama le catene e in fondo al cuore ammira il pastore, dimentico che questi gli somministra sì il cibo, ma solo per condurlo più grasso al mattatoio. Se il cognome è Maniman, il nome di battesimo (si potrà ancora usare quest’espressione?) è Abbondio, come il parroco dei Promessi Sposi per il quale “il coraggio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare”, frase che è il motto familiare di tutti i Maniman diffusi sulla terra. Una loro curiosa caratteristica è che parlano a pappagallo, con luoghi comuni e frasi orecchiate, ripetute con sussiegosa degnazione come inestimabili scoperte cui solo loro sono pervenuti dopo intense riflessioni.
Un Maniman della più bell’acqua era un nostro vecchio direttore, che di fronte ai superiori cambiava idea in un attimo, conformandosi al loro volere con squillanti “sono d’accordo” che contraddicevano quanto aveva sostenuto sino a un minuto prima. Le sue precauzioni gli valsero la carriera: finì dirigente, ça va sans dire.
I Maniman di ultima generazione, se appartengono a ordini professionali, come quello dei medici, applicano alla lettera i protocolli governativi. Consigliano quanto prescritto dall’alto e ci ricordano la storiella istruttiva di quel chirurgo che disse: l’operazione è riuscita, il paziente è morto. Ma secondo le norme stabilite: quel che conta è non avere responsabilità. Il Signor Maniman è già prenotato per la quarta e quinta dose del vaccino, crede appassionatamente che Putin sia pazzo salvo contrario avviso delle autorità competenti ed è convinto delle virtù del mercato con la stessa fede con cui in gioventù sosteneva il collettivismo.
Ennio Flaiano identificava nel carattere italiano l’infingardaggine di chi corre in soccorso del vincitore, per la “naturale simpatia che ci ispira il più forte”. Giustissimo, a nessuno piace perdere. Maniman…