di Luigi Copertino
Le tifoserie scendono in campo
Si è fatto in questi giorni un gran parlare del superbonus per l’edilizia e dell’idea della “moneta fiscale” del quale il primo è stato un tentativo di applicazione. Come c’era da aspettarsi si sono immediatamente schierate due opposte tifoserie, quella che appoggia la decisione del governo Meloni di porre fine all’esperienza del superbonus e quella che si è stretta intorno a Conte in difesa di un intervento finanziario che fu introdotto dai grillini.
Ne è un esempio il botta e risposta su La Verità del 25 febbraio scorso tra il vicepresidente dei 5Stelle Michele Gubitosa ed il direttore del quotidiano Maurizio Belpietro. Gubitosa ha osservato che l’effetto benefico del superbonus sul pil italiano è stato certificato da diversi istituti, Nomisma innanzitutto ma anche Ance e Confindustria, i quali lo hanno calcolato in circa un milione di occupati in più e in un valore generale di 195,2 miliardi di euro a fronte di 60,5 miliardi di investimenti, mentre, sempre secondo Gubitosa, il Censis ha stimato il gettito fiscale ottenuto nell’ordine di 42,8 miliardi ossia circa il 70% del valore delle detrazioni a carico dello Stato, con un costo medio annuo per ciascun cittadino pari ad 88 euro, 7 euro al mese, a fronte di 964 euro di risparmio annuo medio in bolletta per ogni beneficiario. Belpietro, invece, ha contestato tali dati richiamandosi alla nota congiunturale redatta da Ministero del lavoro, Banca d’Italia ed Anpal per la quale nel settore edilizia negli ultimi tre anni l’aumento dell’occupazione è stato di sole 280.000 unità nonché sciorinando i dati Istat che parlano di un aumento del pil nel settore edilizio tra il 0,9% e l’1,8%, e non del 6,7% come sostenuto dai grillini, per quindi concludere, citando i dati del sito indipendente di fact checking “Pagella politica”, che il costo a carico di ciascun cittadino, denunciato dal premier Meloni, di circa 2.000 euro è corretto, anche perché gli oneri a carico dello Stato ammontano a ben 72 miliardi ossia 35 miliardi in più rispetto alle previsioni iniziali.
Come si vede siamo di fronte a chi osanna il superbonus come una sorta di formidabile ricostituente economico e chi invece ne riduce gli effetti a poca cosa. Diciamo subito che se i dati esibiti da Gubitosa non permettono esaltazioni fuori luogo dell’esperimento, la replica di Belpietro se riporta il discorso su un piano di realismo pecca, tuttavia, di eccesso opposto in quanto 280.000 occupati in più ed un aumento sebbene del solo 1,8% del pil non sono cose su cui sputare, mentre il costo a carico di ciascun cittadino, in termini di tasse, è, come si dirà, piuttosto l’effetto collaterale dell’improvvisazione e della faciloneria alle quali i grillini ci hanno purtroppo abituando con la loro capacità di rovinare buone idee attraverso realizzazioni frettolose e non ben ponderate. Come è stato anche per il caso del cosiddetto “reddito di cittadinanza” (che non è affatto tale ma soltanto un “reddito minimo garantito” quale esiste in tutti i Paesi europei). Una misura di aiuto che è stata introdotta senza una adeguata struttura statale capace di far incontrare domanda ed offerta di lavoro, con l’assurda facoltà di rifiutare le offerte di lavoro senza perdere il beneficio e, soprattutto, senza collegare obbligatoriamente il sussidio all’obbligo della formazione professionale. D’altro canto cosa mai ci si può aspettare da un movimento messo su da un comico utopista che, da ultimo, si è persino improvvisato guru di una “chiesa” da lui fondata e che ha sdoganato politicamente personaggi come l’ex ministro Luigi Di Maio, le cui competenze erano quelle di venditore di bibite allo stadio San Paolo di Napoli?
Stato e mercato
Ora, sta il fatto che il superbonus, inteso come maldestra applicazione di uno strumento quasi-monetario, investe direttamente il problema di come nasce e funzione la moneta moderna. Un problema che ci riporta all’antica diatriba tra coloro per i quali tutto è mercato e quindi anche la moneta, la sua formazione, il suo funzionamento, e coloro per i quali invece tutto è Stato e di conseguenza la moneta è soltanto uno strumento politico senza limiti di sorta. Si tratta, come è evidente, di due integralismi ideologici – il primo a tutela del mercatismo più becero ed il secondo dello statalismo più utopico – che la realtà si è spesso presa l’incomodo di demolire perché la moneta è, sì, uno strumento che vive nel mercato ma, parafrasando il Vangelo, non è del mercato tanto per la sua origine storica non mercantile quanto per il fatto che essa abbisogna di un presupposto quadro di garanzie istituzionali e giuridiche che ne rivelano la natura “politica” ossia connessa alla dimensione della convivenza associata, comunitaria, tra gli uomini. In altri termini la moneta non esiste senza contemporaneamente lo Stato ed il mercato. Per dirla realisticamente con Giulio Tremonti, “mercato dove possibile, Stato dove necessario”.
Il vero motivo, quello cogente, per il quale il governo Meloni ha bloccato il superbonus non è tuttavia soltanto il buco nei conti dello Stato, che esso rischia di provocare a causa dell’improvvisazione con la quale è stato introdotto. Non è neanche il fatto che il superbonus ha dato adito a truffe, perché queste esistono per qualsiasi fattispecie economica: anche la moneta legale si può falsificare ma non per questo la si abolisce. Il motivo principale sta nella sua natura di “moneta parallela” in forma di “moneta fiscale” che non piace nelle sedi dove, avrebbe detto Dante, “si puote ciò che si vuole”. Claudio Antonelli, ancora su La Verità del 21 febbraio scorso, ha dato notizia della censura dell’Eurostat al superbonus in quanto potenziale “moneta fiscale”. In sostanza, al di là dei disastri della mala applicazione grillina, ciò che è stato visto come un pericolo nelle sedi eurocratiche è proprio la natura quasi-monetaria della cedibilità dei crediti di imposta. Primo tra tutti è stato il renziano, nonché economista ortodosso, Luigi Marattin a contestare l’idea, che era alla base del provvedimento grillino, di introdurre una moneta alternativa perché, secondo il nostro renziano, gli Stati devono essere assolutamente privi di sovranità monetaria in quanto essi sono sempre tentati da una gestione inflattiva della moneta se fossero loro, e non le banche, a crearla. Un assunto, quello di Marattin, che è una idiozia storica quanto economica, perché la creazione di moneta bancaria provoca inflazione quanto se non di più della moneta legale che pure, attualmente, è di emissione della Banca centrale e non dello Stato.
L’idea della “moneta fiscale” mira ad un recupero di sovranità monetaria senza mettere in discussione il Trattato di Maastricht, e quindi l’euro. Essa, infatti, in quanto consistente in detrazioni fiscali, non è conteggiata nella spesa a deficit che nella zona euro, come è noto, è fissata alla soglia massima del 3%. Tuttavia, a differenza di una qualsiasi detrazione fiscale, un credito d’imposta, vantato verso lo Stato, se dotato del carattere di cedibilità a terzi consente a quel credito di circolare tra i cittadini esattamente come una moneta. Fino a quando esso circola, senza che ne venga richiesto il rimborso, per le casse dello Stato non ci sono problemi di sorta. Questa circolazione si basa innanzitutto sulla fiducia che i cittadini ripongono nel credito-moneta in quanto garantito dell’affidabilità del garante di ultima istanza, ossia dello Stato, sempre pronto a rimborsare, nella forma della detrazione fiscale, il certificato di credito all’ultimo portatore.
La moneta fiscale, in altri termini, è una promessa di rimborso attraverso una detrazione del carico tributario. In sostanza il possessore di un certificato di credito di imposta ha diritto a pagare meno tasse. Quel certificato può essere usato come una moneta per saldare il dare/avere tra cittadini. L’ultimo possessore che decide di chiedere il rimborso godrà della riduzione fiscale. Invece la moneta legale, l’euro, costituisce non un credito a favore del cittadino ma un suo debito verso la Banca centrale emittente. La legge riconosce all’euro l’effetto di saldare i dare ed avere ma non quello di ridurre il carico fiscale.
Storia della moneta
Chi, come Marattin, critica la natura quasi-monetaria del credito d’imposta trasferibile, facendo leva sui rischi che la trasferibilità comporta per il bilancio dello Stato, evidentemente non conosce la storia della moneta moderna, la quale nasce anch’essa nella forma giuridica di un titolo di credito, una apparente cambiale “pagabile a vista al portatore” come ancora recitava il taglio della vecchia lira. Quella della moneta moderna è una storia di tentativi fallimentari e di conseguenti crack vantaggiosi per gli speculatori ma non per la generalità degli uomini. Almeno fino a quando, tentativo dopo tentativo, si riuscì, sebbene attraverso una operazione chiaramente speculativa, ad imbroccare la strada giusta per affermare il passaggio epocale dalla moneta aurea a quella cartacea ossia fiduciaria.
Già dal medioevo l’esigenza di disporre di maggiore liquidità, che la monetazione aurea non garantiva a causa della rarità del metallo pregiato, aveva spinto i re a barare sulla quantità di oro nella coniazione mischiandolo a metalli vili in modo da aumentare i pezzi coniati. Sempre nel medioevo – sulla base di una intuizione che ebbero per primi gli orefici i quali rilasciando certificati di deposito aureo ai clienti si resero conto che essi non sempre tornavano a scontare quei certificati ma li facevano circolare tra loro negli scambi commerciali – i mercanti-banchieri introdussero la lettera di cambio per agevolare le operazioni di scambio lungo la fitta rete dei mercati europei e mediterranei. Ma fino al XVII secolo nessuno pensò di trasformare la lettera di cambio in moneta legale.
La moneta fiat, quella cartacea “creata ex nihilo”, è infatti comparsa, nel XVII secolo, come un titolo di credito rappresentativo dell’oro sottostante. Ma affinché funzionasse fu necessaria la garanzia sovrana, del re, sulla costante solvibilità dell’emittente in modo da indurre nel pubblico la fiducia necessaria all’accettazione ed alla circolazione della moneta cartacea. Oltre a creare le condizioni dell’affidabilità, il sovrano impose di forza l’uso della moneta cartacea attraverso la decisione di farne uno strumento, tra altri all’epoca ammessi, atto all’assolvimento degli obblighi fiscali dei sudditi verso la Corona. In sostanza lo Stato riconobbe carattere monetario alle banconote, che erano titoli di credito, nati dallo sviluppo della medioevale lettera di cambio, emessi dalla Banca nazionale, antesignana dell’odierna Banca centrale. Nel riconoscere la banconota come moneta legale, lo Stato si fece garante della sicura solvibilità della Banca emittente – la qualcosa era largamente un falso dato che l’oro in deposito a copertura dell’emissione delle banconote non era mai sufficiente a garantire un effettivo rimborso laddove vi fosse stata una corsa generale agli sportelli per l’incasso – ma al tempo stesso prendeva in prestito quella moneta pagando alla Banca un interesse. La banca, dal canto suo, creava moneta per prestarla ad interesse tanto alla Corona quanto al pubblico.
Il sistema, sopra descritto, che oggi funziona perfettamente, fu il risultato di diversi tentativi e esperimenti non sempre coronati da successo. Affinché si affermasse del tutto, consentendo la sostituzione della moneta cartacea a quella metallica, ci vollero circa due secoli. Nel frattempo si erano registrati diversi tentativi fallimentari che produssero ampi disastri e danni per il pubblico. Come nel caso della Banca di Svezia. Siamo sempre nel XVII secolo e per sopperire alla difficoltà di circolazione della moneta metallica, all’epoca in Svezia consistente in tagli aurei o argentei grandi e molto pesanti, la Banca emise, fu probabilmente la prima volta nella storia, cartamoneta coperta da oro. Fu un clamoroso fallimento perché ad un certo punto, a causa del venir meno della fiducia in assenza di una garanzia sovrana, i possessori di banconote andarono tutti insieme all’incasso ma non c’era oro sufficiente a soddisfare la gran massa di richieste di sconto. Un altro fallimento, questo però ai primi del XVIII secolo, fu quello del sistema ideato dal fondatore della Banca di Francia, lo scozzese John Law. Egli, sull’assunto che neanche l’oro fosse un sicuro sottostante in quanto soggetto nel valore alle oscillazioni di mercato, pensò alla terra come base della moneta cartacea. Appoggiato dal reggente del regno, il Duca D’Orleans, Law riuscì ad applicare il suo sistema che per un po’ funzionò. Ma, anche in tal caso, il venir meno della fiducia nel pubblico, a causa della difficoltà a monetizzare la terra, provocò il collasso del sistema Law. A questo tentativo si richiamarono i giacobini, negli anni della Rivoluzione francese, quando la Repubblica emise gli “assegnati” il cui sottostante, a garanzia, erano i “beni nazionali” ossia le terre e gli altri immobili confiscati alla Chiesa, alla Corona ed all’aristocrazia. Il primo ad averne avuto l’idea fu l’ex vescovo Talleyrand che tuttavia aveva ben presente il rischio di una eccessiva emissione superiore al valore complessivo dei beni nazionali, calcolato in 3 miliardi di lire. Il governo giacobino invece ne emise una quantità pari a 45 miliardi di lire che, complice il crollo della produzione a causa delle guerre in corso tra la Francia rivoluzionaria e le altre potenze europee nonché la non fiducia popolare nel governo del Terrore robespierriano, provocò l’immediata svalutazione degli assegnati.
Nonostante questi fallimenti nel tentativo di dematerializzare la moneta, che ingenerano una persistente diffidenza verso la moneta fiduciaria, una operazione del genere riuscì in Inghilterra soltanto qualche anno dopo il disastro svedese. Anche in tal caso alla guida dell’esperimento ci fu uno scozzese, l’avventuriero rosacruciano William Paterson, fondatore insieme ad altri speculatori della Banca d’Inghilterra, la cui emissione di moneta cartacea funzionò perché si adottarono le giuste misure di garanzia e di sostegno “politico”, sopra viste. Innanzitutto la garanzia sovrana di ultima istanza con la quale la Corona assicurava la solvibilità aurea delle banconote – ma come si è già detto si trattava di un “pio falso” per indurre fiducia nel pubblico –, poi la possibilità, che più tardi sarebbe diventata obbligo in esclusiva, di usare le banconote a pagamento delle tasse ed infine limiti periodici alla possibilità di sconto all’incasso per evitare la corsa in massa. La moneta cartacea inglese è nata nell’ambito di una operazione speculativa mediante la quale, come disse il Paterson ai suoi soci per invogliarli all’impresa, “La Banca avrebbe guadagnato interessi su tutta la moneta creata dal nulla”. Era l’istituzionalizzazione della rendita usuraica. Tuttavia il sistema Paterson funzionò perché dotato delle giuste garanzie e prese gradualmente piede in tutto il mondo occidentale e poi anche extra-occidentale.
Chi oggi accusa la “moneta fiscale” di provocare disastri, di indebitare lo Stato e di creare inflazione, dimentica dunque che anche la moneta fiduciaria, che usiamo correntemente e che è in procinto di essere a sua volta definitivamente sostituita dalla moneta digitale, si affermò dopo diversi tentativi disastrosi e, soprattutto, dimentica che essa si affermò indebitando lo Stato caricato degli interessi da corrispondere, attraverso le entrate fiscali, alla Banca centrale emittente. La quale emette moneta innanzitutto acquistando titoli del debito pubblico, anche laddove, come attualmente nell’eurozona, è vietato acquistarne sul mercato primario, ossia alle aste di Stato, ma non sul mercato secondario, ossia comprandoli da altre banche ma a prezzo maggiorato (è quanto ha fatto Mario Draghi, tra il 2012 ed il 2020, con il “quantitative easing” per tranquillizzare, durante la crisi dell’euro e dei debiti sovrani, i mercati finanziari calmierando la speculazione). Per quanto poi riguarda l’inflazione, anche la moneta cartacea innesca spinte inflattive, non fosse altro per il fatto che essa consente una maggiore facilità di spesa ossia aumenta la domanda la quale laddove non trova una adeguata offerta dei beni provoca innalzamento dei prezzi. Una accusa, quella di ingenerare inflazione, che non mancò di essere sollevata nel periodo di graduale affermazione della moneta fiduciaria come attestano le pagine dedicate al problema da Adam Smith, il padre dell’economia liberista, anche lui uno scozzese (in Scozia aveva trionfato il calvinismo che nella accumulazione del denaro vedeva un segno della predestinazione divina, sicché non deve sembrare strano se gli scozzesi nella prima modernità erano all’avanguardia negli studi di economia). La convinzione ancora oggi troppo diffusa per la quale la moneta cartacea perde valore, ossia genera inflazione, se emessa in quantità eccessiva si basa sull’idea della moneta merce. La moneta originariamente, nell’antichità più remota, è nata quale oggetto sacro, simbolico, e non di uso economico. Successivamente si secolarizzò e venne adottata negli scambi commerciali. Se ai tempi della coniazione aurea essa aveva natura di merce, con la comparsa della moneta cartacea, in particolare a partire dal 1971 quando fu completamente sganciata dal sottostante aureo, la moneta non è più una merce. Essa pertanto non perde valore in sé, dato che non ha più un valore intrinseco. È solo carta e ben presto sarà solo un bit digitale. Può subire svalutazione soltanto laddove una sua eccessiva disponibilità quantitativa causasse, come accennato, in assenza di adeguata offerta, un surriscaldamento della domanda, provocando inflazione. Ma non sempre l’inflazione è inflazione da domanda, quindi connessa alla moneta, perché le sue cause possono essere diverse. Quella in atto oggi, analogamente a quella degli anni ’70 del secolo scorso, è inflazione da costi delle materie prime, gas innanzitutto, e non da squilibrio domanda-offerta.
Hjalmal Schacht
In base al ragionamento degli odierni detrattori della “moneta fiscale” la stessa moneta cartacea doveva essere preclusa perché soggetta a possibili falsificazioni e perché potenzialmente inflattiva. Saremmo rimasti all’oro e non avremmo avuto la rivoluzione industriale per mancanza di adeguati mezzi finanziari. Non a caso l’industrializzazione del XVIII secolo fu preceduta dalla “rivoluzione monetaria” del XVII secolo. Tuttavia, raffinandone le garanzie e le modalità di creazione e gestione, la moneta fiduciaria oggi non è più messa in discussione da nessuno. Sicché non si capisce perché, fallito per l’improvvisazione grillina l’esperimento del superbonus, anche la moneta fiscale non possa prima o poi imboccare la strada giusta per una sua affermazione senza problemi.
Qualcosa di simile alla “moneta fiscale” ha già fatto la sua prova positiva dimostrando di ben funzionare allorché corredata dalle opportune garanzie politiche. Hjalmal Schacht, il banchiere centrale della Germania nazista, presidente nel 1933 della Reichsbank, e dal 1934 al 1937 anche ministro dell’economia, ha avuto il merito di essere riuscito a tirare fuori la Germania dalla depressione degli anni ’30 grazie ad una sua invenzione finanziaria. Egli, di famiglia dalle origini ebraiche, non era un nazista, piuttosto un conservatore nazionale, quindi un semplice fiancheggiatore da destra del regime di massa hitleriano che era invece caratterizzato da un fondamentale populismo plebeo a sfondo razzista alquanto sgradito ai conservatori. I quali credettero illusoriamente di poter controllare il nazismo senza comprendere che nella società di massa anche la politica non poteva che essere di massa e quindi “plebea”. Tuttavia, con la sua competenza finanziaria, Schacht consentì ad Hitler di mantenere la promessa di riassorbire i sei milioni di disoccupati che la depressione, iniziata in America con il crack di Wall Street del 1929, aveva provocato. Schacht inventò il “Me.fo”, una cambiale di Stato – spiccata in forma di obbligazione da una società pubblica fittizia, la Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H (“Società per la ricerca in campo metallurgico”, appunto ME.FO.), il cui capitale sociale era detenuto totalmente dalla Reichsbank a sua volta nazionalizzata nel 1933. I “titoli Me.fo”, che avevano avuto un antecedente nelle cosiddette “obbligazioni Öffa” in uso nel periodo di Weimar, erano delle cambiali emesse da questa fantomatica società statale, quindi garantiti dallo Stato ed offerenti un interesse del 4%, incassabili dopo un lustro, con i quali venivano pagate le commesse statali dilazionando i pagamenti in marchi per le forniture contratte dallo Stato con le industrie private. Il Me.fo circolava tra gli operatori economici sulla garanzia statale del suo sconto in marchi se portato all’incasso alla scadenza prevista. In questo – si badi – non differiva dalla moneta cartacea che, come si è visto, nacque convertibile in oro e che iniziò a circolare, su base fiduciaria, senza che ne venisse chiesto lo sconto di massa (cosa che anche nel caso della Banca d’Inghilterra avrebbe provocato il collasso del sistema per mancanza di oro sufficiente allo sconto generale). Anche nel caso del Me.fo, data la fiducia popolare che godeva lo Stato in quel momento, non si verificò mai una richiesta generalizzata di sconto, neanche alla scadenza dei titoli, dimodoché con la sua circolazione il Me.fo introdusse liquidità alternativa nel mercato, senza emissione di moneta legale, spingendo, attraverso il sostegno quasi-monetario alla domanda, le latenti forze produttive tedesche verso la ripresa economica. Schacht, elogiato per il suo genio finanziario da John Maynard Keynes, sapeva benissimo che il suo era un sistema di emergenza e che pertanto non poteva essere protratto a lungo e comunque oltre lo spazio necessario alla ripresa economica, tanto che aveva già messo in cantiere un programma di ammortamento graduale dei Me.fo attraverso un piano decennale di conversione in marchi tale da non provocare inflazione come sarebbe accaduto con uno sconto all’incasso di massa e generalizzato. Egli aveva operato in un’ottica di patriottismo avendo per obiettivo la fuoriuscita della Germania dalla palude depressiva. Il regime nazista invece mirava al riarmamento e quindi, non appena fu chiaro che il banchiere si opponeva nella prosecuzione del sistema Me.fo, fu allontanato dal suo ruolo. Poi arrivò la guerra ed il processo di Norimberga che condannò Schacht a diversi anni di carcere, quindi lo sconto di pena. Il banchiere di Hitler, nel dopoguerra, si trasferì in Indonesia dove collaborò con il presidente indipendentista Sukarno per implementare politiche finanziarie di sviluppo di quel Paese. Tornato in Germania vi morì nel 1970.
Quando FdI proponeva la moneta fiscale
Lo stop al superbonus è arrivato dalla solita eurocrazia che non poteva consentire la creazione di una moneta parallela che, sebbene in termini settoriali e non generalizzati, potesse dimostrarsi più socialmente benefica dell’euro. Infatti la mal realizzata idea grillina del superbonus comporta inevitabilmente, come si è visto, il ripercorrere la storia della creazione, della circolazione e del funzionamento della moneta fiat per verificare se essa è strumento di beneficio o di speculazione. La Meloni avrebbe dovuto cercare di riformare uno strumento, utile se ben implementato, che il pressapochismo grillino ha introdotto in modo troppo facilone. Non si poteva infatti introdurre la moneta fiscale senza porre limiti e progressività nel rimborso (un tot percentuale all’anno e non tutta insieme), senza preventivamente accordarsi con Bruxelles per mantenere l’emissione di moneta fiscale fuori dalla contabilizzazione del deficit (su questo si è attaccato l’Eurostat censurando il fatto che il superbonus non era contabilizzato come deficit e quindi soggetto al 3% di Maastricht). Pare che a caldeggiare lo stop definitivo al superbonus sia stato Giorgetti, l’uomo di Draghi all’interno della Lega e dell’attuale governo pseudo-sovranista, ma la decisione della Meloni risulta ancora più incredibile se si rammenta che la “moneta fiscale” era da tempo nel programma della stessa Lega e di FdI. I “minibot” ideati da Claudio Borghi, ai tempi del governo Lega-5stelle, altro non erano che moneta fiscale. Il partito della Meloni aveva avanzato proposte di “moneta fiscale”, con un disegno di legge a firma di Andrea De Bertoldi, Adolfo Urso e Isabella Rauti, dopo che lo stesso De Bertoldi aveva incontrato, il 21 settembre 2021, in un convegno, appositamente organizzato, l’economista Warren Mosley che è uno dei principali esponenti della Modern Monetary Theorie (una versione aggiornata del cartalismo del primo novecento). Orbene lo stesso Urso (impenitente filo-Nato), insieme al già ricordato leghista Giorgetti, è stato tra coloro che più di tutti nel governo hanno ceduto al diktat eurocratico inteso a porre fine allo “scandalo” della creazione di una moneta alternativa, in forma fiscale, da parte dello Stato.
Le condizioni mancanti
Già un anno fa, il governo Draghi aveva limitato il numero di cessioni del credito di imposta ad un massimo di tre, stabilendo un codice univoco per ogni pratica. Un provvedimento preso nell’ottica di limitare le truffe. In tal modo però si era anche posto un limite alla circolazione del credito di imposta mortificando l’effetto moneta che invece inizialmente si voleva raggiungere. Invece si sarebbe dovuto regolare sin dall’inizio le scadenze di rimborsabilità in modo da non mortificare la circolazione del credito di imposta senza mettere a rischio il bilancio dello Stato. Laddove, ad esempio, si fosse stabilito in origine che l’eventuale rimborso sarebbe stato graduale, ossia soltanto una sostenibile percentuale annua, la maggior parte della moneta-credito del superbonus avrebbe continuato a circolare senza richiesta di rimborso, oltretutto ottenendosi in tal modo una limitazione dell’ampiezza dell’emissione. Si doveva dire da subito che il rimborso sarebbe stato annualmente garantito solo in una percentuale sostenibile, diciamo il 10% dei bonus in circolazione, e questo ne avrebbe ridimensionato la richiesta in termini ragionevoli ma senza togliere una opportunità, una agevolazione, tuttavia ponderata, ai cittadini ed al settore edilizio. Gli imprenditori avrebbero saputo fin dall’inizio che se non avessero ottenuto il rimborso nell’anno corrente, per superamento della percentuale annua di rimborsabilità, potevano usare il bonus, fino all’anno successivo, soltanto come mezzo di pagamento trasferendolo ad altri. Non si sarebbe trattato certo di una panacea universale ma sicuramente di un aiuto mediante uno strumento quasi monetario, in considerazione del fatto che siamo attualmente senza sovranità monetaria. D’altro canto gli imprenditori usano strumenti quasi monetari ogni giorno. I fidi bancari, loro concessi, circolano come moneta tra imprese. La differenza sta nel fatto che il fido è per essi un debito, il credito di imposta appunto un credito.
È vero che la rimborsabilità immediata del superbonus sarebbe stata preferita dagli imprenditori che mirano ad una subitanea riduzione del carico fiscale, tuttavia non è sempre detto che il possessore avrebbe preferito il rimborso anziché spendere il bonus trasferendolo. Il rimborso certamente crea debito, per diminuzione delle entrate tributarie, ma soltanto al momento della sua richiesta. Per far fronte al debito che si sarebbe venuto a creare con i rimborsi, saggezza avrebbe voluto di cercare un sostegno concordato della Banca centrale. Un sostegno certo più facile da ottenere da una Banca centrale nazionale che dalla Bce. Ed è questo un altro aspetto dell’improvvisazione del provvedimento grillino. Introdurre una moneta fiscale senza le necessarie condizioni per il suo funzionamento è un non senso.
La moneta debito
I prevedibili esiti disastrosi dell’improvvisazione grillina sono sintetizzati in quel dato relativo al costo pro capite dell’operazione ossia circa 2.000 euro all’anno per cittadino. Ma questo non è un problema della moneta fiscale in sé perché anche la moneta legale comporta per i cittadini un carico di costi che non sussisterebbero se la moneta non fosse nata sin dalle origini come moneta-debito dalla quale le banche, centrali ed ordinarie, ricavano una rendita finanziaria senza fondamenti etico-sociali se non quelli, che poi non sono né etici né sociali, del fatto che il sistema attuale funziona così. Anche la moneta legale (lira o euro) all’atto della sua emissione è caricata di debito dalla Banca centrale emittente, dato che, in mancanza di copertura aurea, l’apparente e formale titolo al portatore, che darebbe diritto a scontare la banconota in oro, si trasforma in una falsa cambiale con la quale l’emittente si appropria del valore che, con il suo lavoro, il cittadino possessore incorpora nel simbolo monetario. Il portatore, in altri termini, è trasformato da creditore in debitore. Un debito, non dovuto ed illegittimo, che paghiamo attraverso le tasse. In un sistema monetario siffatto, se almeno la Banca centrale emittente fosse a capitale pubblico, e sotto controllo statuale, si potrebbe perlomeno sostenere che le risorse finanziarie del popolo restano in una sfera pubblica e quindi vincolate ad usi di beneficio comune. Invece le banche centrali, nate come enti privati, dopo aver subito nella prima parte del secolo scorso un processo di pubblicizzazione, a partire dagli anni ’80 del XX secolo sono tornate ad essere per lo più private. Una natura falsamente pubblica le Banche centrali hanno anche quando sono legislativamente considerate “organismi di diritto pubblico” ed il capitale versato dai soci, ossia banche ordinarie ed assicurazioni, è vincolato ovvero sottratto alla disponibilità degli enti versatori. Infatti, è evidente a chiunque che, nonostante le Banche centrali possano talvolta essere organismi di diritto pubblico – una categoria giuridica per dire che un privato riveste funzioni di carattere pubblico pur non essendo un ente pubblico –, è inevitabile il conflitto di interessi tra controllore, la Banca centrale, e controllati, le banche ordinarie, e che quindi il sistema è stato pensato per regolare in casa, ovvero all’interno della consorteria bancaria, creazione e gestione della moneta e degli altri strumenti finanziari, in modo che nessun altro potere, tantomeno lo Stato, possa ingerirsi nelle decisioni riguardanti la “cosa loro”. Se è vero che la creazione e la gestione della moneta necessita di competenze specifiche e che le autorità politiche possono utilizzare lo strumento monetario in modi clientelari o anti-economici, è altrettanto vero che in una democrazia non può sussistere alcun organo o ente al di sopra della sovranità popolare. Si tratta di trovare la giusta quadra per conciliare l’apporto di competenze con il primato della sovranità democratica, o comunque il primato della sovranità politica laddove la comunità nazionale non fosse organizzata secondo il modello democratico di tipo liberale.
L’economia del debito
Come per la moneta anche per i titoli di Stato, venduti sul mercato, sono i cittadini a pagare gli interessi e capitale con le tasse. Il fatto è che l’economia da sempre è basata sul debito, pubblico o privato. L’usura, che la Chiesa considera un peccato grave alla stregua di quello impuro contro natura, è un fenomeno antichissimo che risale agli albori dell’umanità post-edenica. Il debito è sempre stato considerato in qualunque civiltà un fatto socialmente riprovevole ed il debitore un soggetto esposto a pesanti punizioni in caso di insolvenza. Nel mondo antico, il debitore rispondeva con sé stesso e la sua famiglia ed in caso di insolvenza perdeva la libertà in quanto il creditore poteva ridurlo in schiavitù. Più tardi subentrò in luogo della schiavitù il carcere e più tardi ancora il pignoramento patrimoniale. In ambito abramitico, il debito è equiparato al peccato. In ebraico la parola per indicare il peccato e quella per significare il debito è, non a caso, la stessa. Ma, nell’ambito delle fedi abramitiche, unico caso nel panorama religioso dell’umanità, la pietà verso Dio impone la “remissione dei debiti” ossia del peccato/debito. Nella preghiera del Padre Nostro è invocata la remissione da parte di Dio dei debiti dell’uomo a condizione che l’uomo a sua volta rimetta i debiti del prossimo. Il Padre Nostro è infatti coerente con l’invenzione semitica dell’anno giubilare che, appunto, consisteva nella remissione dei debiti la quale azzerava, periodicamente, ogni dare ed avere nato da rapporti obbligazionari, restituendo respiro all’economia. Dopo che nel medioevo i teologi si erano affaticati intorno al problema del prestito ad interesse e dei suoi limiti affinché non diventasse usura – a dire il vero senza grandi effetti concreti pur avendo in tal modo posto le basi di molti concetti fondamentali della scienza economica successiva – nella modernità il carattere usuraico dell’economia trionfò emancipandosi da qualunque remora religiosa, etica e sociale. E sebbene ciò abbia consentito l’accumulazione capitalista necessaria allo sviluppo industriale che ne sarebbe conseguito, è palese che, sotto un profilo spirituale e morale, l’economia moderna è nata segnata dal “peccato di usura” portandoselo dietro fino ad oggi.
È possibile una economia non basata sul debito o, perlomeno, fondata sulla remissione del debito? Questa è la domanda alla quale cercano di rispondere le teorie economiche eterodosse. C’è giustamente chi si chiede perché mai lo Stato non potrebbe emettere una sua moneta – la “stato-nota” in luogo della banconota – e in proposito porta esempi concreti che attestano la possibilità dell’emissione statuale della moneta. Negli anni ’70 il governo presieduto da Aldo Moro mise in circolazione i biglietti di Stato del valore di 500 lire, secondo un piano ben ponderato e senza alcun effetto negativo. Su internet sono reperibili le immagini di quel taglio che riportava impressa la dicitura “Repubblica Italiana” anziché “Banca d’Italia” come per tutti gli altri tagli monetari dell’epoca.
Se si vuole uscire da una economia per la quale il fatto stesso che ti svegli la mattina ti indebita a vantaggio di “investitori”, che un tempo la saggezza popolare chiamava molto più realisticamente “usurai”, è necessario studiare, provare, scoprire, percorrere strade nuove, anche imparando dagli insuccessi in modo da raddrizzare il timone. L’improvvisazione e la faciloneria, come quella dei guru grillini, gioca soltanto a favore di banchieri, finanzieri e speculatori. Necessitano competenze e non pulsioni populiste.